< Novelle (Bandello, 1910) < Parte III
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Varii e bei motti con pronte risposte dati a tempo, esser bellissimi, e giovare spesse fiate
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IL BANDELLO

al molto magnifico signore

il signor

giovanni tollentino

conte


Non sono ancora molti giorni che, essendo in Milano il gentile e magnifico messer Lodovico Alamanni, ambasciatore di papa Lione decimo appo il luogotenente del re cristianissimo, che seco nel convento de le Grazie, ove egli albergava, si ritrovarono a desinare alcuni gentiluomini. E ragionandosi dopo desinare di varie cose, si venne a dire di quanto ornamento siano i bei motti e le pronte e argute risposte a tempo date, e quante volte sia avvenuto che un arguto detto averá levato di gran pericolo il suo dicitore. Era in quei ragionamenti il venerabile religioso de l’ordine predicatore fra Girolamo Tizzone, persona molto dotta e figliuolo del conte Lodovico Tizzone di Deciana, mecenate dei letterati, che voi per lunga pratica conoscete. Egli a questo proposito narrò alquante belle novellette che pur assai a la brigata piacquero, le quali avendo io scritte, perciò che sono brevi, tutte ho in una novella poste. E sapendo che voi meravigliosamente di cotesti motti vi dilettate, non ho voluto che sotto altro nome escano, quelli che io ora ho scritto, che sotto il vostro. So bene che ai meriti vostri si converrebbe maggior dono, se io volessi pagargli. Ma veggendo che voi di giorno in giorno gli accrescete e vi piace che dei beni vostri io ne sia come voi padrone, che altro posso io darvi che carta ed inchiostro, frutti del mio debole ingegno? State sano. 374 l'ARTE TERZA NOVELLA XLI Vari e bei motti con pronte risposte date a tempo esser bellissimi e giovare spesse fiate. Voi, signori miei, sentirete coinè un povero compagno, che meritava la fune, con una artificiosa risposta si liberò. Era Nicolò Porcinano dottore aquilano, il quale per esser giudice molto giusto ebbe diversi magistrati in Italia, ove severamente castigava i malfattori. Avvenne un di che egli fece prendere quattro uomini reputati i maggiori ghiotti de la contrada; e come gli furono menati avanti, ne fece porre uno a la corda e dargli quattro coliate di fune. Poi fece il medesimo al secondo ed altresì al terzo. Restava il quarto, al quale domandò il giudice come egli avesse nome. — Messere — rispose egli con un viso ardito, — io mi domando Sestodecimo al piacer vostro. — Di cosi nuovo nome forte si meravigliò il giudice, e gli disse: — Che nome è cotesto che tu hai? — Non vi meravigliate — rispose il povero compagno — che io cosi mi chiami, perciò che non è mio nome impostomi al battesimo, ma mi tocca per sorte. Voi, signore, ai miei compagni avete fatto dare dodici tratti di fune, quattro per ciascuno di loro; e poi a me devendone esser dati quattro, che fanno sedici, da questo evento il nome ora è nasciuto. — Piacque meravigliosamente al dotto giudice l'arguto e faceto detto del malfattore e, senza altrimenti farlo porre al tormento, lo liberò. — Ora vederete che effetto buono fece una savia parola d’un uomo literato. Mentre che il re Federico di Ragona tenne il regno di Napoli, fu in quella città un gentiluomo che aveva per moglie una assai bella e leggiadra giovane chiamata Paola, ma tanto bizzarra e spiacevole e cosi fastidiosa, che tutto il di altro mai non faceva che far romore per casa con ciascuno che a le mani le capitava. E se non ci era persona con cui potesse gridare, ella da sé entrava in còlerà e fra’ denti mormorava. Guai poi se nessuno le avesse risposto, perciò che saliva in tanto sdegno, che stava dui e tre di che altro non faceva che garrire. 11 marito che era uomo dotto e molto piacevole, ebbe su il principio NOVELLA XLI 375 assai che fare ad accordarsi seco; ina, veggendo che cosa qhe egli facesse o le dicesse non giovava, deliberò lasciarla gridare e mai non le rispondere. E cosi pazientemente se ne visse seco trenta anni che mai non la sgridò. Avvenne che egli un di invitò a desinar seco un suo amico. Ora, essendo*a tavola e desinando, ella che era dirimpetto a l'amico del marito, veggendo in tavola certa vivanda che non era concia a modo suo, entrò in còlerà e quivi cominciò una intemerata di gridare e garrire ora quel servidore cd ora una fantesca. E tuttavia crescevano i gridi, di modo che l’amico invitato non poteva quella seccaggine sofferire, e fu quasi per levarsi da mensa. Di questo accorgendosi, il marito disse: — Oimè, fraterno, che poca pazienza è la tua? Io trenta anni ho sofferto le strida, i gridi, i romori e le molestie insup- portabili di costei e giorno e notte mai altro non sento e pazientemente il tutto soffro, e tu mezza ora sentire non la puoi? — L’amico a queste parole s'acquetò e la donna tanto vertuosa- mente trafitta si senti che tutta la sua vita cangiò, e divenne poi sempre quieta, umana, piacevole e graziosa. — Voglio mò dimostrarvi come un guascone con una bella e pronta risposta si seppe da un vantatore spagnuolo schermire. Andava da Bologna a Firenze Pirrinicolo guascone, il quale, essendo a Bianoro a l’osteria, trovò che l’oste aveva concia una anitra giovane e grassa a rosto, tutta piena d'aglio, che è il pepe dei guasconi. Veduta che egli l’ebbe, disse a l’oste che altra carne per desinare non voleva che quella anitra; e a tavola s'assise e cominciò a smembrare l’augella, che ancora fumava e rendeva un bonissiino odore. Ed ecco in questo che entrò dentro un giovine spagnuolo, grande di persona, con la spada ed il brochiero a lato, il quale, come senti l’odore de l'arrosto, gittò l’ingorda vista sovra l'anitra e disse al guascone: — Signore, vi piace egli dar luogo in tavola ad un vostro amico? — A questo rispose Pirriniculo e gli domandò come si chiamava. — Io, signore — disse lo spagnuolo, — mi chiamo per mio proprio nome Alopanzio Ausunarchide Ibe- roneo Alorchide. — Per le piaghe di Cristo I — soggiunse alora il guascone — io non credo che si picciola augella debba bastare ad un desinare a quattro cosi gran baroni come voi m’avete 376 PARTE TERZA nominato, e tanto meno essendo spagnuoli. Io non mi farei mai questa vergogna. Questa anitra a me, che Pirriniculo sono detto, sarà assai. A voi si gran signori bisogna che l’oste apparecchi vivande convenienti a si magnifica grandezza. — Udirete adesso come il signor Prospero Colonna argutamente rispondesse al re Federico, del quale s’è parlato. Essendo il re Federico nel castello de l'Ovo, si mise a ragionamento col signor Prospero, alora suo capitano e molto giovine, e diceva d'alcuni segni che hanno gli uomini, per li quali facilmente la natura e i costumi loro questi chiromantici e fisionomisti dicono conoscere. Diceva adunque il re che se l’uomo ha i capelli duri, che egli è audace; se ha il petto largo e debitamente carnoso, che è gagliardo; se di questi segni ha i contrari, che sarà timido; se ha la faccia troppo rotonda, che è pazzo e senza vergogna; se ha in faccia il colore troppo rosso, come sono i frutti del gelsomoro non ben maturi, ch’egli è grandissimo ingannatore; e se ha le ciglia congiunte, che è traditore. Mentre che il re queste cose col signor Prospero discorreva, sovravvenne Vito Pisanello, segretario di esso Federico, il quale Vito aveva i capelli in capo crespi e cosi ricciuti come veggiamo che hanno i mori. Onde seguitando il re e, fra mille altri segni detti, dicendo essere impossibile che chi avesse i capelli crespi non fosse o musico o di perverso e maligno animo e di poca stabilità, subito rispose il signor Prospero ed accennando Vito disse: — Per Cristo benedetto, o re, questo tuo Vito non saperebbe cantar una nota di canto ! — Arguta veramente e pungente risposta, perciò che, secondo la openione del re che detta aveva, necessario era dire che Vito fosse ribaldo e sceleratissimo. — E per conchiudere il mio ragionare, vi dico che venendo da Roma passai per Siena e volli vedere il lor tempio molto bello. Vidi anco la superba libraria che Pio secondo ha Jatto. Andai poi veggendo molte belle cose che sono in quella città, e passando da la loggia dei Piccoluomini, fabrica pur di Pio secondo, ecco venir un garzoncello di dieci in undici anni sovra un cavalluccio tanto magro e disfatto che non si poteva a pena reggere in piedi, ché solamente aveva la pelle e Tossa. Il fanciullo gridava ad alta voce: — Aita, aita, ché io non posso tener questo NOVELLA XLI 377 ronzone! — Era ne la loggia assai gentiluomini, dei quali uno disse: — Certo questo fanciullo è pazzo. — E rivoltato verso lui gli disse: — Tu farnetichi. Questo cavallo appena si muove, e tu di’ che non lo puoi tenere: che pazzia è la tua? — Tutto ad un tempo rispose il garzoncello: — Cotesto è il male, vi dico io, che non lo posso tenere, perciò che non ho da pascerlo. — Fu da tutti lodata la pronta risposta del fanciullo. E perciò convien dire che i bei motti sono come le medicine, le quali date a tempo a l’infermo sogliono mirabilmente giovare; che, date fuori di tempo, non solamente non giovano, ma più tosto sono di nocumento. I ' \ mm . ■

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