Questo testo è incompleto. |
◄ | Parte III - Novella XLII | Parte III - Novella XLIV | ► |
IL BANDELLO
al reverendo
messer francesco tanzio cornigero
salute
Io soleva questi anni a dietro, come sapete, il tempo de la state andarmene in Valtellina e quivi a Morbegno, ma piú spesso a Caspano e ai bagni del Masino diportarmi, mentre che ’i caldi duravano, e godermi quei freschi che ordinariamente ci sono, perché da mezzo luglio io, che altrove le lenzuola non posso a dosso sofferire, a Caspano la notte una buona coperta teneva. In quella terra sono di molti gentiluomini, i quali, ancor che stiano su quell’alta montagna, vivono nondimeno molto civilmente con delicati cibi e vini preziosissimi. E ben che tutta la valle faccia ottimi vini, nondimeno la costa di Tragona, che è sotto Caspano, gli genera di tutta eccellenza. Quivi tutto il di si vedono grigioni e svizzeri, che vengono a comprare del vino. Ora essendo 10 con messer Giovanni Paravisino, dottore e dei primi gentiluomini del luogo, un giorno andato ai bagni del Masino per via di diporto, vi ritrovai molti gentiluomini milanesi e comaschi, tra i quali era il signor Gasparo Maino, che molto volentieri mi vide. Quivi per fuggir il sonno del merigge, che dicono quei medici esser pestifero a chi prende quei bagni, sogliono dopo desinare ridursi per la piú parte sotto una costa de la montagna, la quale è di modo alta che, passate tre o quattro ore del matino, 11 sole non la può con suoi raggi battere. Eglino ne la minutissima erbetta a sedere se ne stanno e in vari giuochi si trastullano. E mentre che di brigata si ragionava, sovravenne il dotto messer Benedetto Giovio, il quale, come fu dal signor Gasparo visto, fu da lui pregato che con qualche novella volesse 3»4 PARTE TERZA aiutarci a passar quell’ora fastidiosa del caldo. Egli, che è gentile e piacevole, senza farsi troppo pregare disse: — Signori miei, io vi dirò una novella nuovamente a Como avvenuta, la quale, scrivendo io T istorie de la mia patria, secondo che mio fratello inesser Paolo Giovio scrive l’istorie del mondo, m’è quasi venuta voglia di scriverla ne le dette mie istorie. Né ancora so ciò che ne farò. — E cosi senza molto indugio ne narrò il castigo che fu dato a duo preti. Onde, sovvenutomi de la pena che voi deste ad un vostro chierico trasgressore dei vostri comandamenti, scrissi la detta novella, sapendo che molto vi piacerebbe. Quella dunque vi dono e sotto il nome vostro publico, rendendomi certo che sarà impossibile che voi su questa materia non facciate qualche bello epigramma o qualche colta elegia. State sano. NOVELLA XLIII Don Anseimo e don Battista, credendosi giacer con una donna, sono scornati ne la publica piazza di Como. Egli è certissimamente, signori miei, un gran caso che cosi volentieri i preti bandiscono la cruciata a dosso a le femine dei loro popolani, parendo proprio che quello sia da più tenuto che più dei suoi parrocchiani manda a Corneto. Per questo ai giorni nostri sono i preti venuti in molto poca riverenza, che gjà solevano tanto esser rispettati. Né di questo io mi meraviglio, essendoci molti di loro che meritarebbero più tosto guardar i porci per i boschi che stare in chiesa a maneggiar le cose sacre, sapendo molto male leggere e peggio cantare i divini offici, e di quello che leggono nulla o poco intendendo; i quali, come ponno a qualche donna attaccarsi, quella di rado lasciano che non la piglino ai loro appetiti. Altri poi col collo torto infinite ne ingannano, e sotto specie d’esser buoni gabbano il mondo. Che diremo di quelli che, finita di dire la messa, se ne vanno a crapulare ed inebriarsi a la taverna, e tutto il di come pu- blici barattieri se ne stanno con le carte e dadi in mano? Ma e’ mi pare, secondo che io devea dirvi una novella, che io sia salito in pergamo e voglia predicare. Lasciando dunque la cura NOVELLA XLIII 3«5 di castigargli ai suoi prelati, vi dico che ne la nostra città di Como non è troppo tempo, devendosi sepellire uno dei nobilissimi gentiluomini de la città, il conte Eleutero Ruscone, tutti i preti e frati di Como furono invitati a cosi solenni essequie. Venuta l’ora di levar il corpo del conte Eleutero, si ritrovò che dui parrocchiani, preti molto stimati, che erano rettori di due parrocchie, ci mancavano. E perché erano uomini secondo l’ope- nione del volgo santissimi, fu mandato a le case e chiese loro e mai non se ne seppe indizio trovare. Il che fu cagione di molte mormorazioni, dubitandosi che non fossero stati da qualche ribaldi morti. Ora, poi che gran pezza furono ricercati e veggendosi che non comparivano, cominciarono a far l’essequie con gran pompa e solennità, le quali essendo finite e devendosi per nome del signor governatore publicare certi editti, il popolo che aveva accompagnato i funerali si ragunò su la piazza de la città, e in quella i sr.nti parrocchiani comparsero. Ma udite di che maniera. Abitava nel mezzo de le due chiese dei dui detti parrocchiani un tintore che si chiamava mastro Abondio da Por- le/.za, uomo molto piacevole, il quale aveva per moglie una Agnese da Lugano, donna appariscente e giovane e molto onesta, il cui costume era d’andar ogni di a messa a la parrocchia di don Anseimo, che era uno dei dui parrocchiani. Il quale, vedutala ogni di a messa e parendogli bella, di lei cosi s’accese che, seco domesticandosi, a la prima le domandò il più bello de la casa. Ella, senza fine de la disonesta domanda scandalizzata e dicendo al prete che andasse a dir l’ufficio, cominciò andare a messa a la chiesa de l’altro prete, che don Battista si chiamava; il quale, come la vide, disegnò imparentarsi seco, come don Anseimo anco aveva disegnato. Onde, pigliata un poco di conoscenza seco, egli, per non perder tempo, le domandò l’elemosina di santa Nefissa. Parendo a la buona donna esser caduta de la padella su le bragie, prese per ispediente andar a messa ad uno spedale, ancor che non fosse cosi comodo e vicino a casa. Il marito, accortosi di tal mutazione, le domandò perché faceva cotesto. Ella per non dar sospetto al marito gli narrò puntalmente il successo del tutto; il quale a la moglie, M. Bandkllo, Novelle. 386 PARTE TERZA mezzo adirato, rispose: — Adunque tu vuoi a posta di questi schiericati cessar di far bene? la non mi piace cosi, ché questo spedale è troppo lontano da casa e tu perderesti troppo tempo i giorni che si deve attendere a la tintoria. Io voglio che noi facciamo un bellissimo tratto, che a lor darà il conveniente castigo de le loro sceleraggini e agli altri preti sarà in essempio di non tentare l’altrui moglieri. Lascia, ché io caverò ben destramente a questi dui l’amore fuor de le brache. Tu anderai domatina a la chiesa di don Anseimo, e s’egli ti dice nulla, mostra, cosi mezza vergognosa, fargli un poco di resistenza; poi lasciati vincere e dilli che gli compiacerai, e dàgli ordine che venga il tal di a le due ore di notte, perché io sarò fuor di Como. Dapoi anderai un altro giorno a la parrocchia di don Battista e seco farai il medesimo contegno, e gli assegnerai pur quello proprio di, le cinque ore di notte. — La buona donna fece quanto dal marito le fu imposto molto diligentemente, ed ebbe ogni cosa effetto come avevano ordinato, perciò che, come i preti videro la donna, cosi le furono d’intorno. Ed ella mostrandosi piacevole, gli diede ardire che domandassero tutto quello che loro piaceva. Il che essi facendo, ebbero l’ordine da la donna secondo che il marito ordinato le aveva. Don Anseimo si presentò a le due ore di notte e fu da l’Agnesa serrato in un luogo de la casa ove era un letto, dicendogli che si corcasse. 11 prete incontinente si spogliò ed entrò in letto. Venne dapoi la donna e cosi al buio accostatasi al letto, disse a don Anseimo: — Messere, non vi rincresca aspettar un poco, perché mi conviene dar ordine a certe cose de la bottega, e poi verrò a starmi vosco. — In questo il marito di lei picchiò a l’uscio e disse: — Agnese, se’ tu qui? apri. — Oimè — disse ella, — mio marito è venuto, ed io sono morta! tosto, messere, entrate in questa botte, e lasciate far a me. — E facendo levare il prete, diceva: — Marito, io vengo. — Mise il prete dentro la botte e ve lo chiuse; poi, presi i panni di quello, gli serrò in un forziero, ed aperse al marito dicendogli: — Che ora è questa di venire? — Maestro Abondio aveva una lucerna in mano e disse che per la fortuna del lago non era potuto andar innanzi, e che voleva dar ordine per tinger NOVELLA XLII1 387 certi panni verdi. Onde, dicendo questo, di modo acconciò la botte che il messere non poteva senza licenza uscirne. Era la botte piena di certa polvere verde che i tintori adoprano. E inesser Abondio, per più spaventar il prete, disse: — Moglie, va’ e fa’ scaldare un calderone d’acqua, ch’io vo’ distemperar questo verde e dimatina a buon’ora adoperarlo. — Mai si! — rispose la donna. — Noi siamo a l'ordine. Non sai che dimane si faranno l’essequie del conte Eleutero Ruscone e che nessuno fin dopo desinare lavorerà? I famigli nostri sono tutti fuor di casa. Andiamo a dormire e faremo meglio; e poi dimane il verde si acconcerà. — Pensate mò che animo era quello di don Anseimo: io crederei che l'amore gli fosse uscito de le calcagna. Usci il marito del luogo, e la donna confortò il messere che non dubitasse, ché ella andarebbe a liberarlo. Ne l’acconciare che mes- ser Abondio aveva fatto de la botte, il prete s'era tutto carco di polvere verde che le carni gli rodeva, e quanto più egli si grattava tanto più faceva il suo peggio, di maniera che il povero sacerdote si vedeva molto mal parato, essendo ignudo e del mese di gennaio. Ora al bòtto de le cinque ore comparve l’altro parrocchiano, messer don Battista, e fu da la donna in una camera menato e dettogli che si spogliasse, ché ella an- derebbe fin sopra a far cessar coloro che vi lavoravano. Questi erano maestro Abondio con uno dei famigli de la tintoria, che a posta facevano quel romore. Come puotèro imaginarsi che don Battista fosse spogliato e ito a letto, maestro Abondio usci chetamente di casa e poi cominciò a bussare a l’uscio e chiamare la moglie che venisse ad aprirgli. Ella, scese le scale, se ne venne a la camera e fece entrare don Battista, cosi ignudo come era, in un’altra botte, ove era polvere di gualdo che s'adopera a far i panni neri. Il povero prete tutto tremante ci entrò, ché aveva sentita la voce del marito de l’Agnese e non sapeva che farsi. Come maestro Abondio fu entrato in casa, sapendo il secondo ratto esser ne la zucca, fece aprir la camera ove don Battista si spolverizzava di gualdo, e disse: — Moglie mia, va’ e fa’ scaldare de l’acqua e falla recar qui per acconciar questa botte di gualdo. — La moglie rispose come fatto aveva l’altra volta circa 338 PARTE TERZA don Anseimo. Il marito mostrò di contentarsi e disse: — Poi che dimane si fanno i funerali del conte Eleutero Ruscone, che era cosi buon gentiluomo e tanto difensore del nostro popolo, io non voglio che dimane ne la mia tintoria si lavori. — Ed accostatosi a la botte ove era dentro il don Battista, quella di maniera acconciò che il prete si sarebbe indarno affaticato per uscirne. E cosi tutta la notte i santi preti stettero a far penitenza, ora sperando che la donna venisse a liberargli ed ora disperando, come in simili disaventure suol avvenire. Era anco la polvere del gualdo, come la verde, un pochetto mordente e massima- mente offendeva gli occhi, di maniera che anco don Battista, fregando gli occhi, fece tanto che gli divennero rossi come un gambaro cotto. Cominciarono a buon’ora tutte le chiese a sonar le loro campane per i funerali che devevano farsi; il che era ancora ai preti di grandissima noia, sentendo avvicinarsi il giorno. Furono fatte l’essequie, e trovandosi, come già v’ho detto, tutto il popolo di Como su la piazza, maestro Abondio deliberò di vergognare per una volta i dui parrocchiani e insegnarli a lasciar stare le mogli altrui. Onde in quell’ora, dai suoi famigli aiutato, condusse le botte, ove erano dentro i preti, su la piazza, quelle sempre rotolando, di modo che i poveri uomini tutti si dipinsero, l’uno di nero e l’altro di verde, che pareva un ramarro. Maestro Abondio aveva una scure in collo, che pareva che volesse andar a far de le legna al bosco. E perché era uomo molto piacevole e che spesso faceva de le burle, tutto il mondo se gli mise a torno. Egli cominciò a tagliare i legami dei cerchi, gridando tuttavia: — Guardatevi, comaschi, ché dui serpenti usciranno de le mie botte ! — Slegati che furono i cerchi, le botte andarono in un fascio e gli sciagurati preti che parevano dui diavoli, essendo da le polveri mascherati, non sapendo ove s’andassero, perciò che poco o nulla vedevano, si misero chi qua e chi in là. Il popolo, che non gli aveva potuti conoscere, cominciò a gridare: — Piglia, piglia! dalli, dàlli ! — Fuggendo i preti, un can corso del governatore, che si trovò su la piazza, s’avventò a dosso a don Anseimo e lo morse in una gamba, e lui gridante ad alta voce mercé tirò in terra e NOVELLA XLIII poi gli diede di morso in quella faccenda che in mezzo le gambe gli pendeva, ed insieme con dui sonagli via di netto gliela strappò; di che il povero uomo tramortì. Corsero alcuni, avendo veduto il tratto che fatto aveva il cane, e mossi a pietà, andarono a sollevarlo; dai quali aiutato ed in sé rivenuto, disse chi era, pregandogli per l’amor di Dio che fosse menato fuor de la piazza. Don Battista, non sapendo ove s’andasse, fu da alcuni ritenuto, che gli domandavano chi egli fosse; il quale, facendosi conoscere, domandava mercé che non lo lasciassero in quel luogo. Maestro Abondio, veggendo il suo disegno riuscito d'aver fatto si chiaro scorno ai dui disonesti preti, cominciò a dire che ciascuno si tacesse. E salito suso una panca che quivi era, narrò al popolo di Como la istoria come era successa, di maniera che la simulata santità dei parrocchiani si conobbe esser sempre stata ipocrisia. Fu don Anseimo a casa sua portato, e stette molti di prima che egli fosse sanato, e guadagnò questo: che senza sospetto poteva aver pratica e parlar con le donne senza pericolo che più le ingravidasse. Don Battista medesimamente, con gran vituperio menato a casa, ebbe un’acerba punizione dal vescovo di Como, il quale lo condannò a pagar le botti e le polveri a messer Abondio e star molti di in una scura prigione. A don Anselmo, oltra quello che il cane l’avesse perfettamente castrato, diede anco la prigionia per alcuni di, e tutti dui gli sospese, che più non potessero far l’ufficio del parrocchiano.