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Novella XLV - Il duca Galeazzo Sforza fa suo consigliere il Cagnuola, conosciutolo giusto e saldo nei giudici
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IL BANDELLO

al magnifico signor

lodovico castiglione


Mirabilissime sempre furono le forze de la vertú e di tanto potere, che non solamente gli amatori di quella, ma sovente anco sforzano quelli, che talora, vinti da le passioni amorose e dagli appetiti disordinati, si lasciano trasportare a strabocchevoli errori, ad emendar la vita loro ed amare, prezzare, riverire ed onorare le persone ottimamente qualificate e degne di riverenza. Il che in una azione di Galeazzo Sforza duca di Milano chiaramente si dimostra. Eravamo questi di insieme in casa del signor Battista Vesconte, patrizio veramente degno d’ogni commendazione, molte persone uomini e donne, e a caso di vari accidenti ragionandosi, fu contato come essendo in essilio quel divinissimo eroe, il glorioso Scipione Affricano, e dimorando a Linterno vicino al mare in una sua villa, che alcuni corsari, smontati dei loro legni, lo vennero a visitare e a basciargli quella valorosa mano che l’Affrica soggiogata a Roma aveva, tratti solamente da la chiara fama di lui. Si disse anco come i servi di Scipione volevano con i corsari combattere, pensando che fossero venuti per dirubar la casa ed ammazzar il lor padrone; ma veggendo quelli non aver armi, si fermarono. Onde i corsari, inginocchiati dinanzi a Scipione e basciateli le mani, gioiosi si partirono, parendo loro avere assai guadagnato a far riverenza a tanto famoso barone. Su questi ragionamenti disse il signor Francesco, primo figliuolo del signor Battista: — Aveva Ferrando re di Napoli sotto il governo d’Alfonso duca di Calabria suo figliuolo l’essercito in Toscana, 39S PARTE TERZA per cacciar Lorenzo de’ Medici di Firenze. La fama de le vertù e rare doti di Loren/.o era chiarissima in tutta Europa. Ora, veggendo Lorenzo che a le forze ragonesi non poteva resistere, andato a Livorno, montò suso un bergamino e dritto a Napoli se ne navigò, e presentossi dinanzi a Ferrando. 11 re, meravigliatosi di tanta fiducia e a la grandezza d’animo ed altre vertù di Lorenzo pensando, raccolse quello non come nemico ma come parente e fratello. E rivocato l’essercito, fece lega ed unione con Lorenzo, il quale con gloria grandissima a Firenze se ne ritornò. Onde in effetto si può conchiudere che la vertù sempre fa riguardevole l’uomo che a quella s'appiglia. — Alora messer Dionisio Corio disse: — Signori miei, io a questo proposito vo' narrarvi quale e quanto sia il valore de la vertù, e parlerò dei tempi nostri. — Onde, fatto silenzio, narrò una bella istorietta degna di memoria. E perché non è molto che, essendo io con voi e con la signora Giovanna Sanseverina vostra consorte al luogo vostro di Misocco vicino a Milano a desinare, vi promisi darvi una de le mie novelle, questa ora vi mando e dono. State sano. NOVELLA XLV Il duca Galeazzo Sforza fa suo consegliero il Cagnuola, conosciutolo giusto e saldo nei giudici. Galeazzo Sforza, figliuolo di quel glorioso Francesco duca di Milano che per propria vertù e valore, con l’arme in mano, s’acquistò questo ducato, fu prencipe che ebbe di molte e molte buone parti, e sempre onoratamente e con grandissima riputazione di tutti i prencipi cristiani mantenne il suo dominio. Vero è che fu tanto dedito ed amoroso di donne, che per cagione di quelle fece molti stracolli e cose molto mal pensate. Né solamente amò egli una donna e a quella s’attenne, come talora fanno alcuni prencipi, ma in un medesimo tempo n’amò molte, come la diversità di tanti figliuoli bastardi e figliuole, che lasciò dopo sé e che sono da diverse madri proceduti, fa piena fede; perciò che, come ciascuno di voi sa, ancor oggidì più di tre NOVELLA XLV 399 coppie di loro vivono. Egli le femine maritò onoratamente e tutti i figliuoli lasciò molto ricchi. Non si sa però già mai che e?li per forza donna alcuna pigliasse. Nondimeno furono l'ami- ehe sue cagione de la sua immatura morte, perciò che per rispetto loro infinite volte chiuse gli occhi a la giustizia, non si curando offender questi e quelli. Ora tra la mandra de le sue femine che teneva, ve n’era una, la quale egli, avendone avuto di molti figliuoli e figliuole, maritò dopoi in un conte di questa città di Milano; la quale faceva lite con un suo parente per levargli buona parte de l'eredità che possedeva, mossa più dal favore che sperava dal duca ottenere che per ragione alcuna che ella avesse ne la detta eredità. Avendo adunque lungamente contra il suo parente litigato e non potendo secondo l’intento suo venirne a capo, e sempre col mezzo del favor ducale facendo menar la lite in lungo, per straziar e consumar l'avversario, a ciò che di fastidio a la lite cedesse; e veggendo che in modo nessuno egli non si lentava né smarriva, anzi più di di in di si mostrava fresco e gagliardo; ottenne che con una lettera ducale la causa fu levata di mano ai giudici ordinari e messa in petto di messer Giovan Andrea Cagnuola, dottore, assai giovine alora, che di poco avanti era fatto dottore, e si teneva generalmente appo tutti che fosse uno dei savi dottori del collegio. Si meravigliò molto il Cagnuola che il duca gli avesse si fatta lite commessa, né sapeva invaginarsi altro se non perché era parente di tutti dui i litiganti, che fosse per tal rispetto fatto commessario. Egli, ancora che giovine, era di temperatissimi costumi, prudente, dotto e tanto amatore de la giustizia quanto altro che alora vivesse. Fatto adunque commessario ducale ne la detta lite, ebbe tutte le scritture pertinenti a questa causa da l’una parte e da l’altra, le quali con grandissimo studio, cura e diligenza avendo vedute e considerate, conobbe che la donna v'aveva pochissima ragione e che a gran torto molestava il suo parente. 11 perché, parlato con lei una e due volte, tentò di rimoverla da la sua openione, dimostrandole la poca ragione che ella aveva ne la lite, e che se era sforzato pronunziar la sentenza, che bisognava che contra lei la pronunziasse. La donna, 4oo PARTE TERZA sentendo il parlare del commessario, entrò in una estrema còlerà, con dire che s’era con doni lasciato corrompere dal parente, ma che prowederebbe a' casi suoi e che mal suo grado ei sarebbe sforzato a dar la sentenza a favor di lei. Onde, parlato col duca e con cinquanta lagrimette fattogli un poco di carezza, l’indusse che, senza pensarvi troppo su, mandò un cameriero a comandare al Cagnuola che, per quanto aveva cara la grazia del duca, desse il di seguente la sentenzia in favore de la donna. Il Cagnuola, avuto cotesto cosi ingiusto comandamento, punto non si sbigottì, ma se n’andò di lungo in castello e, trovato il duca, gli disse: — Signor eccellentissimo, uno dei camerieri vostri m’ha fatto il tal comandamento, al quale io non posso né debbo con onor mio in modo alcuno ubidire, né mi può cader in capo che tale sia l’intenzione vostra. — Andate, andate — rispose il duca, — e fate ciò che noi v’abbiamo comandato, e non se ne parli più. — A questo il Cagnuola soggiunse: — Ed io, signore, renonzio a la commissione fattami di esser giudice. Voi la commetterete ad altri che faranno il voler vostro. 10 per me noi so né lo posso essequire. — Alora il duca, vinto da la còlerà, comandò che fosse messo in prigione; il che subito fu fatto. Dapoi, avendogli il duca mandato a parlare e stando il Cagnuola fermo nel suo proposito, gli mandò il venerabile padre fra Giacomo da Sesto de l'ordine predicatore a denonziargli che si confessasse, perciò che gli voleva far mozzar 11 capo. Si confessò il Cagnuola e con l’animo suo invitto aspettava la morte. II duca, non volendo udir persona, ordinò che in castello una sera gli fosse tagliata la testa. Venuto il manigoldo ed apparecchiato il ceppo e la mannara, il Cagnuola al supplicio se n’andava come se fosse ito a nozze. Volle il duca che messer Cecco Simonetta fosse presente a questo fatto; il quale, avendo udita la volontà del suo signore, v’andò. Giunto il Cagnuola ove era il ceppo, s’inginocchiò e con chiara voce disse: — Meglio è morir innocente che viver malfattore. — E con questo mise il petto sovra il ceppo. Alora messer Cecco lo fece levare su e lo condusse al duca, il quale gli disse: — Messer Gian Andrea, voi avete giocato netto, perciò che NOVELLA XLV 401 se voi per téma di morire pronunziavate la sentenzia falsa o pur dicevate di darla, noi vi lasciavamo tagliar il capo. Ora che veggiamo che veramente séte uomo da bene, noi vogliamo che siate del nostro Consiglio segreto. — E cosi lo fece suo consigliere e per l’openione de la sua vertù l’ebbe sempre mai in grandissima stima. Né solamente dal duca era avuto in prezzo, ma tutto lo stato di Milano sempre lo riveri come giustissimo e santissimo uomo. M. Bandello, Novelle. 26 ■ • r .

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