< Novelle (Bandello, 1910) < Parte III
Questo testo è incompleto.
Novella XXVI - Il capitano Biagino Crivello ammazza nel monte di Brianza un prete, per aver il beneficio per un suo parente
Parte III - Novella XXV Parte III - Novella XXVII

IL BANDELLO

al magnifico

messer gian giacomo gallarate


Vero esser si truova quasi ordinariamente quell’antico proverbio che dire tutto ’l di si suole: che « la troppa familiaritá partorisce disprezzamento »; ed è sovente cagione che il minore non porta la debita riverenza al suo superiore che deverebbe, anzi con una prosuntuosa e temeraria confidenza casca talora in gravissimi errori. Per questo deverebbero coloro che altrui governano non si far tanto privati e domestichi con i suoi soggetti, che gli dessero occasione di tenergli in poco conto e presumere di fare de le sconcie e mal fatte cose. Ed altresi denno i servidori, quando si conoscono esser dai padroni amati, governarsi prudentemente e sempre piú umili diventare, pigliando de la dimestichezza dei superiori meno ardire che sia possibile. Si parlava di questa materia in casa de la gentilissima e dotta signora Cecilia Gallerana contessa Bergamina e varie cose si dicevano, quando messer Gian Angelo Vismaro, che lá si trovò in compagnia di molti gentiluomini, disse: — Signora mia e voi altri signori, egli non accade molto a questionare sovra la proposta materia, né volersi affaticare che la troppa familiaritá partorisca disprezzamento verso il padrone, avendo l’essempio innanzi gli occhi che di questo ci fará piena fede. — E qui narrò ciò che una volta fece il capitano Biagino Crivello. E perché l’atto mi parve molto strano, io lo descrissi a ciò che la memoria non se ne perdesse, perciò che da le buone cose che si scrivono si piglia buono essempio, e da le male e triste azioni si cava che l’uomo le aborre e si guarda di cascare in simili 294 PARTE TERZA errori. Avendo adunque scritto quanto il Vismaro narrò, ho voluto che sotto il nome vostro da la posterità si legga, se perciò le cose mie potranno tanto durare. Ma io con questa intenzione pure le scrivo, avvengane mò ciò che si voglia. E per non vi tener più, verrò a l’effetto. State sano. NOVELLA XXVI 11 capitano Biagino Crivello ammazza nel monte di finanza un prete per aver il beneficio per un suo parente. Non è qui, signora contessa e voi cortesi gentiluomini, persona che non conosca il capitano Biagino Crivello, il quale, come potete sapere, essendo stato uomo molto prode de la persona sua e mentre che il duca di Milano Lodovico Sforza stette in stato, sempre onoratamente vivuto su le guerre con onorevoli condutte, ora ad altro non attende che a viver quetissimamente e visitar tutto il di quante chiese sono in Milano, dandosi in tutto e per tutto a la salute de l'anima. Era egli in grandissimo credito appo il detto duca Lodovico, divenuto tanto suo domestico e familiare, che non suo soggetto ma suo fratello pareva. Egli era d’oneste ricchezze dotato, e non gli essendo da la moglie, che morta gli era, rimasto se non una sola figliuola, non si curò mai troppo, non volendo prender più moglie, accumular possessioni, e tutto ciò che del soldo guadagnava, essendo generai capitano di tutti i balestrieri ducali, spendeva in far buona cera ai buon compagni. Medesimamente ciò che il duca largamente gli donava, tutto distribuiva in farsi onore. Ora sapete che la schiatta dei Crivelli in Milano e per lo contado è innoverabile e che ce ne sono di poveri assai, come ne le gran famiglie spesso avviene. Era dunque un giovine in questa famiglia assai letterato, il quale volentieri si sarebbe fatto prete se avesse avuto il modo di poter avere qualche beneficio. Questo, cadutogli in mente che il capitano Biagino sarebbe ottimo mezzo quando volesse aiutarlo, e conoscendolo molto amorevole ed umano, venne a trovarlo e gli narrò l’intenzion sua. Il che intendendo, il buon capitano, come colui che a tutti averebbe voluto NOVELLA XXVI 295 far bene, e tanto più a quelli del suo parentado, gli promise largamente che ne parlarebbe col duca e farebbe ogni cosa per fargli aver l’intento suo. E per non dar indugio a la cosa, andò quel di medesimo a parlar con messer.Giacomo Antiquario, segretario del duca e di tutto il ducato sovra i benefici ecclesiastici iconomo generale. Era l’Antiquario uomo di buonissime lettere e di vita integerrima e appo tutti per i castigatissimi costumi in grandissima stimazione. Udita che ebbe esso Antiquario l’intenzione di- Biagino, sapendo quanto il duca l'amava, gli disse: — Capitano, io non so che adesso ci sia beneficio alcuno vacante, ché quando ci fosse, io senza dubio lo saperei per l'ufficio che ho. Ma a me pare che voi debbiate parlare con il signor duca e fare che egli ve ne prometta uno dei primi vacanti. Ma non vi perdete tempo, perché il duca ne ha promessi molti. — Il capitano, ringraziato cortesemente l’Antiquario, pigliò l’opor- tunità e ne parlò col duca; il quale, udendo questa domanda, diede buone parole per risposta, commettendogli che stesse vigilante per intender se prete alcuno benefiziato morisse e glielo facesse sapere. Avuta questa risposta, il capitano attendeva pure che qualche prete andasse in paradiso. E stando su questa aspettativa, avvenne che mori un arciprete in Lomelina, ne le castella del conte Antonio Crivello. Del che il capitano subito fu avvertito, e se n’andò a domandare questo beneficio al duca; il quale, sentendo la morte de l’arciprete e avendo voglia di far conferire quello arcipresbiterato ad un altro, disse: — Capitan Biagino, perdonateci se ora non vi compiaciamo, perché non è mezz’ora che siamo stati astretti prometterlo a un altro. — Credette il capitano Biagino che il fatto stesse cosi e si strinse ne le spalle, aspettando un’altra occasione. Né guari dimorò che un altro prete mori ; e cercando aver il beneficio, ebbe dal duca la medesima risposta. Per questo non restò il capitano né si sgomentò o perdette d’animo. Ora vacando molti altri benefici e sempre scusandosi il duca che di già gli aveva donati via, cominciò il capitano Biagino ad avvedersi che il duca si burlava di lui, e gli disse: — Signore, a quello che io veggio, voi vi beffate di me. Ma al corpo di santo Ambrogio, mi farete far le 296 PARTE TERZA pazzie. Datemi un beneficio e non mi straziate più. — Il duca ridendo gli diceva che ben farebbe. Ora il fatto andò pur cosi: che come vacava qualche prebenda e che Biagino la chiedeva, diceva sempre il duca che era data via. Su queste berte adiratosi il capitano, disse fra sé: — In fé di Dio che io ne farò una che si terrà al badile. — Avvenne in quei di che essendo in monte di Brianza, ne la terra di Merate, vide un prete decrepito, il quale aveva in quei luoghi un buon beneficio. Onde il capitano, senza pensarvi troppo su, l’ammazzò e se ne venne di lungo a trovar il duca, che era a Cusago, luogo vicino a Milano tre o quattro picciole miglia; e subito giunto, domandò il beneficio. Il duca, secondo la costuma, gli rispose che era buona pezza che l’aveva dato via. Alora il capitano con alta voce disse: — Corpo di Cristo! cotesto non è possibile, perché non sono tre ore che io l’ho ammazzato, e qui me ne sono venuto su cavalli da posta sempre correndo. — Restò il duca a questa voce tutto stordito; e Biagino, subito montato a cavallo, se n’andò a la volta d’Adda e passò su quello de’ veneziani, ove avendo ottenuta la pace dai parenti del morto, ebbe anco la grazia del duca e dapoi un beneficio per il suo parente. E tutto questo causò per la troppa familiarità che aveva il buon capitano col suo signore.

Questa voce è stata pubblicata da Wikisource. Il testo è rilasciato in base alla licenza Creative Commons Attribuzione-Condividi allo stesso modo. Potrebbero essere applicate clausole aggiuntive per i file multimediali.