< Novelle (Bandello, 1910) < Parte IV
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Novella I - Simone Turchi ha nimistà con Geronimo Deodati lucchese. Seco si riconcilia, e poi con inaudita maniera lo ammazza; ed egli, vivo è arso in Anversa
Parte IV Parte IV - Novella II

IL BANDELLO

al magnifico e leale mercatante

messer

carlo fornaro

genovese

salute


Andai non è molto a far riverenza agli illustrissimi eroi signori miei, il signor Federico Gonzaga di Bozolo e il signor Pirro Gonzaga di Gazuolo suo fratello, che tornavano tutti dui a la corte in Francia e alloggiati erano in casa del molto illustre signor Alfonso Vesconte, lo cavaliere, loro cognato. Erano allora detti signori in camera de li signori figliuoli del signor cavaliere e de la signora Antonia Gonzaga, e stavano ad udire il dotto e gentile messer Alfonso Toscano, precettore di essi fanciulli, che loro leggeva in Valerio Massimo quella parte ove tratta de la somiglianza degli aspetti di alcuni uomini, che tra loro sono cosí simili che con difficultá si riconosce l’uno da l’altro. Io intrai in camera, e salutati quelli miei signori, dopo le gratissime accoglienze da loro a me fatte, il signore Pirro mi disse: — Bandello mio, il precettore di questi nostri nipoti ha letto che in Roma furono dui di aspetto cosí a Pompeio Magno simili, che a tutti rappresentavano esso Pompeio; cosa che mi pare meravigliosa. — Non è gran meraviglia questa, signor mio — risposi io, — perché degli altri assai ce ne sono; e non è molto che qui in Milano erano dui fratelli, mercatanti genovesi, Gasparro e Melchio Bracelli, che tanto si rassembravano, che non io molte fiate non li sapeva discernere l’uno da l’altro, ma quelli di casa loro assai spesso vi restavano ingannati. Egli è 78 PARTE QUARTA ben vero che Melchio, essendo giovanetto e volendo imparare schermire, fu alquanto graffiato nel naso su la narice, che li fece restare uno segnaluzzo, picciolo come mezzo cece, il quale, a chi ci metteva mente, lo faceva riconoscere per Melchio; ma pochi ci avevano avertito. Voglio, signor mio, che veggiate se eglino erano di sembianza grandissima. Si trovarono questi fratelli a Vinegia a fare li traffichi loro de la mercanzia. Melchio si fece fare uno giubbone di raso cremisino veneziano da uno sartore, e gli ordinò che la dominica mattina glielo portasse, ché in Ietto lo attenderebbe. Quella mattina Gasparro levò forte a buona ora e si mise a passeggiare per la sala. Arrivò in quella il sarto e, come lo vide, lo prese per Melchio e disse: — Magnifico, perdonatemi se sono stato tanto tardi a recarvi il giubbone, perché io mi credeva che voi non levassi cosi a buona ora, massimamente il giorno de la festa. — Gasparro, o si accorgesse che il sartore l’avesse preso in fallo o fosse che sapesse alcuna cosa del giubbone, senza cangiarsi in viso li rispose: — Questo è stato poco fallo. Aiutamelo pure a vestire. — E dispogliatosi, si vesti il nuovo giubbone, perché non solamente essi dui fratelli erano simili di volto, ma pareano fatti in una medesima forma di grandezza e grossezza di persona. Vestitosi Gasparro il giubbone, pagò al maestro la manifattura, e se ne andò a messa e per la città diportandosi sino a l’ora del disinare. Melchio, poi che vide il maestro col giubbone si tardi ancora non comparire, rincrescendogli stare tanto in letto, si vesti. E andato a messa, poco dopoi rincontrò il sarto e gli disse: — Maestro, voi non séte venuto a vestirmi il giubbone. Che vuole dire cotesto? — Come, magnifico!—rispose il sarto.— Voi mi date la baia. Che dite voi? Io non sono trasognato né tanto fore di memoria, che non mi ricordi come stamane, in la vostra sala dove presi la mesura di quello, ve lo vestii. Eccovi per segno li marchetti che mi desti per la manifattura. — S’avvisò subito Melchio devere essere stato suo fratello che per burla si avesse fatto vestire il giubbone, e disse al sartore che andasse. Si parti il sartore, e non era ito cento passi che si ri- contrò in Gasparro, che avea il giubbone indosso. E come li fu NOVELLA I (li) 79 appresso, si fece il segno de la croce. Gasparro, che lo conobbe, il dimandò se avea veduto il diavolo con le corna, a farsi tanti segni di croce, e che cosa avea. — Io non so, per san Marco di oro, ove mi sia, se forse non patisco l'infermità de le traveggole. Or ora, non longe di qui uno tratto di mano, vi ho incontrato, e non avevate già questo giubbone che stamane vi vesdi, e mi sgridaste che non ve I’avea recato, e ora qui ve lo veggio indosso. Che cosa è questa? Aiutimi Iddio! Io non so se dormo o che cosa mi faccia. — Gasparro allora li disse: — Maestro, fatemi questo piacere: venite stamane a disinar meco, e vi chiarirete che voi punto non vi sognate. — Promise il sarto, di estremo stupore pieno, andarvi. Gasparro allora, presa una gondola a uno di que’ tragitti, si fece subito condurre a casa, e subito si spogliò il giubbone e se ne vesti uno altro nero. Né guari stette che venne Melchio e li dimandò se dal sarto avea avuto il giubbone. Cui Gasparro disse di si, e come avea invitato il sarto a disinare. — Sia con Dio — rispose Melchio. — Ridiamo pure per uno pezzo. — In quella montò le scale il sarto, e come vide li dui fratelli, restò quasi fora di sé, non sapendo discernere l’uno da l’altro. Li dimandarono i dui fratelli a quale di loro aveva la mattina vestito il giubbone. Egli come smemorato guardava e riguardava, e come mutolo se restava. A la fine, avendoli data la baia, li dissero che infiniti come egli si erano ingannati, per essere essi dui fratelli tanto simili, quanto dire si possa. — Mentre che io questo narrava, voi sovraveni- ste per vostri affari che avevate col signore Federico e faceste testimonio verace a quanto io narrato aveva, come colui che lungamente con li Bracelli trafficato avevate. Onde il signore Federico allora disse una istoria che in Fiandra avenne, per uno che si faceva signore del paese, per essere molto simile al signore che di molti anni innanzi era morto. Essa istoria fu da me scritta e al nome vostro intitolata, acciò che al mondo faccia fede de l’amicizia nostra, da chi infiniti piaceri tutto il

di, ricevo. State sano.

NOVELLA I (II)

Uno si finge essere Baldoino conte di Fiandra e imperadore di Constantinopoli, che diciotto anni innanzi in Oriente era morto. Suscitò questo falso Baldoino gran romori in Annonia, provincia che fu del vero Baldoino. Ma a la fine per uno truffatore fu da la contessa del paese fatto publicamente impiccare.

Teneva lo scettro del reame de la Francia Lodovico, re di questo nome ottavo, che fu padre di Lodovico nono, il quale, per la santitá de la vita essendo in Africa a la ossidione di Tunesi per esaltazione de la fede e religione cristiana, rese l’anima al suo Creatore e fu poi per santo da la Chiesa canonizzato. Al tempo adunque di Lodovico ottavo si trovò uno di tanta audacia e temeritá che, governando Gioanna quelli paesi di Fiandra e Annonia che erano stati di suo padre — che oltra quelli, fu anco imperadore di Constantinopoli — ebbe ardire di presentarsi in Annonia, terreno nativo di Baldoino, e affermare sé essere il vero Baldoino, che di molti anni avanti in Oriente era giá morto. Eragli altre volte stato persuaso che egli grandemente a Baldoino era simile. E ancora che persona non ci fosse tra tutti gli annòni che lo conoscesse, nondimeno appo quei popoli, cui il governo di madama Gioanna non piaceva, ritrovò alcuni che per lo vero Baldoino il raccolsero, e lo seguivano come loro vero nativo e proprio signore. Veggendosi questo falso Baldoino essere agli annòni accetto e il simile sperando li devesse avenire in Fiandra, da alcuni accompagnato vi intrò, monstrando ne le azioni sue una gran gravitá e parlando con tanta maiestá quanta a uno imperadore di Constantinopoli pareva che si convenisse. Come la contessa Gioanna intese questo, non volendo che egli piú innanzi passasse, per non mettere mutinazione ne la provincia, mandò ad incontrarlo a le confini il presidente del suo segreto consiglio con alcuni consiglieri seco. Esso presidente, come fu arrivato ove il falso Baldoino era, a questo modo cominciò a interrogarlo a la presenza di quanti ci erano. Disse adunque: — Se tu sei il vero imperadore di Constantinopoli e padre di madama Gioanna, NOVELLA I (II) 8l nostra contessa e signora, con quale ragione mosso ti sei a lasciare la cura di quello glorioso e dignissimo imperio, che a la tua fede, tra tanti eccellentissimi eroi che colà erano, ti fu commesso? Ora che del tuo consiglio, de la tua prudenza e del tuo valore esso imperio ha più che mai bisogno, come ti ha dato il core, come hai potuto sofferire che quelli baroni, li quali te fra tanti altri grandi signori elessero e collocarono tanto amorevole e onoratamente ne lo seggio imperiale, senza te siano restati in bocca di barbari cosi contrari e fieri nemici al nome di Francia? Io veramente porto ferma opinione che quando tu fussi il vero Baldoino, poi che tanto tempo nascosto a tutti stato sei e nulla cura hai preso di quello imperio orientale, che meglio assai fatto averessi a non ti volere con queste tue mal composte fizzioni fare Baldoino, essendo a l’uno e a l’altro imperio chiaro e manifestissimo che sono cerca venti anni che egli morio e tutti noi per morto pianto l’abbiamo. Vorrei anco da te sapere per quale cagione, avendo tu il carico tutto de le cose orientali, e cosi mal governate che per tuo pessimo governo sono tombate in roina, hai finto di essere morto? Che premio, che lode aspettavi tu di questa sciocca simulazione? E se hai voluto che ciascuno, cosi greco come latino e di ogni altra nazione, credano la tua morte, con quale colore di ragione vuoi tu che noi ora crediamo che tu sia vivo, essendo stato fora de la cognizione di tutto il mondo circa venti anni? Con quale velo di tenebre hai tenuto tanto tempo ascosa la mai està del tuo volto, a tutti cosi nota? con ciò sia cosa che per ¡spazio di quattro lustri nessuno ti abbia veduto e tu non sia stato in veruno luoco che si sappia. Che vuole dire che, vivendo il re Filippo Augusto e molti de li suoi baroni e signori fiandresi, che ti potevano convincere per bugiardo, non sei a casa ritornato e non sei risorto fora de la sepoltura? che nuova forma hai tu assunta, ingannando con mentite larve tante persone? Dimmi: essendo già cosi lungo tempo trascorso che il vero Baldoino per morto abbiamo amaramente pianto, ti pare egli conveniente che cosi di liggiero madama la contessa, figliuola sua legittima e erede degli ampli suoi domini, e tutti noi ti M. Bandello, Novelle. 6 82 PARTE QUARTA debbiamo credere che tu sia il vero Baldoino? Non si sa egli altre volte essere stati uomini ignobilissimi che hanno avuto ardire di fingere essere di reale sangue nati? Di cotesti inganni, di queste simulate fizzioni assai se ne sono viste, e dentro li buoni autori de l’una e l’altra lingua tutto il di molti se ne leggono. Il perché non bisogna essere troppo credulo, fin che a qualche chiara certezza non si pervenga. Tu deveresti ben sapere che da- poi che il vero Baldoino parti di queste contrade e navigò in Levante, li danni, le desolazioni e li dirubamenti e le roine di vari luoghi, che PAnnonia e la Fiandra in tante crudeli e sanguinose guerre hanno sofferto. Ma tu, in tante nostre afflizioni e travagli, in tanti gravissimi disturbi, che allcggiamento, che soccorso, che refrigerio ne hai tu apportato? Tu vuoi adunque che questa terra, coteste contrade, questo paese di Annonia e Fiandra abbino da riconoscerti per loro cittadino, per loro conte e vero signore, non avendo tu ne li bisogni loro urgentissimi, ne le tribulazioni loro voluto mai in conto alcuno riconoscerli per patria, per vassalli, né per amici? Che rispondi a queste ragioni che dette ti sono? — Egli allora, punto non smosso né cangiato in viso, pieno di una audace costanza, non come reo dinanzi al giudice rispose, ma come naturale e vero signore che riprendesse e accusasse li suoi sudditi cosi audacemente li disse: — Cotesto mio infortunio è veramente, più di quello che io mi persuadeva, grandissimo. E come può egli essere maggiore? O me sfortunato! o me tra tutti gli infelici infelicissimo! Io ne la casa mia propria, ne la patria mia nativa, ne l’avito e paterno mio dominio ritrovo ora li miei vassalli e sudditi vie più crudeli che non ho fatto fore di qui li nemici. Quando si fece il fatto di arme là ad Andrinopoli, io, valorosamente combattendo per l'onore de la patria mia e di quei cittadini che al presente mostrano non mi riconoscere e cosi contrari e ingrati contra me si discopreno, perché l’evento de la battaglia suole essere dubbio, avendo io fatto officio di provido capitano e non meno di prode soldato, cominciarono li miei commilitoni voltare vituperosamente le spalle e fuggire. Per questo io fui còlto nel mezzo de li nemici, e per essere da tutti li miei abbandonato, NOVELLA I (li) 83 poi che vidi che indarno me affaticava o per restituire la battaglia o per levarmi vivo fora de le mani de li nemici, fui forzato, avendo già alcune ferite ricevute, rendermi prigione. E in quella misera calamità tanto di bene pure mi avenne, che la maiestà del mio volto e l’essere conte di Fiandra mi salvò, e di modo a quelli da li quali fui preso venerabile mi rese, che io da loro non ebbi né ingiuria né disonore alcuno, anzi per lo spazio di anni diciotto fui, de la libertà in fuori, assai ben trattato. Volsi più e più volte mettermi a pagare la taglia per liberarmi, ma non ne volsero parola ascoltare già mai, e meno mi volsero dare commodità che io potessi a nessuno de li miei scrivere. A lungo poi andare, veggendomi non essere più con tanta solenne custodia tenuto come da principio solevano, mi deliberai fuggire. Indi, pigliata uno di la occasione, là, cerca mezza notte, che ogni cosa era quieta, me ne fuggii. Ma di novo fui da alcuni barbari, che non mi conoscevano, fatto prigionero. A me non parve di scoprirmi loro ciò che io mi fossi. Cosi eglino mi condussero in la Asia e mi vendettero per vile schiavo a certi soriani, con li quali per ispazio di dui anni dimorai, lavoratore di campi, lavorando e zappando la terra, tagliando legna, attignendo acqua e altri servigi rusticani a la meglio che poteva facendo; di modo che con queste mani, con le quali tante fiate avea onoratamente combattuto e vinti gli avversari e con imperiale scettro tanti popoli governato, facea tutti gli esercizi de la villa. Finalmente, avendo nostro signore Iddio compassione a la mia lunga e faticosa servitù, passando per quei luoghi, ove io in uno boschetto tagliava legna, alcuni mercanti todeschi, perché era tregua tra latini e orientali, mi raccomandai loro; li quali, mossi del caso mio a compassione, non mi conoscendo per altro che per uno povero fiammengo, con picciolo prezzo mi riscattarono e mi donarono anco danari da poter più commodamente ridurmi a casa. Ma, lasso me! quanto mi era meglio che io la mia vita avesse in quella cattività finita, che essere venuto in casa mia a udirmi dire da li miei soggetti su il viso che io sono uno truffatore c che non sono il vero Baldoino. Questo non aspettava io già S-l PARTE QUARTA mai. E tuttavia sento qui dirmi vitupèri e cose tanto ingiuriose, che mai non ebbero ardire dirmi in modo alcuno li greci, cui contra le vittoriose armi io più volte mossi. Medesimamente li popoli de la feroce Tracia finitimi al mio imperio, né gli sciti fieri e crudelissimi che più del ferino tengono che de l'umano, né i barbari de la Soria cui, venduto per ischiavo, si lungo tempo ho servito, furono mai si sfrenati di lingua contra me come io al presente provo li miei sudditi, li quali, quando altri mi ingiuriasse, se ragione, se umanità, se riverenza e se punto di civilità fosse in loro, deveriano in mio favore contra tutto il mondo prehder l'arme per difendermi e mantenermi ne lo stato mio, ne la mia nativa patria. Ma spero in Dio che vi aprirà gli occhi. Io non vuo' correre a furia in porre mano a l’arme. Ora ditemi: quando fu chi mai vedesse le cose de la Fiandra più fiorire e appo tutti li finitimi e ogni altra nazione essere in maggiore stima, in più riputazione e credito e in più riverenza, di quello che erano quando io quella reggeva e governava? Mai più non fu la gloria del nome fiammengo in tanta sublimità né in tanta eccellenza in quanta si è veduta al tempo che io il tutto amministrava. Ahi patria veramente a me ingrata! ingrati e perfidi vassalli miei! Sono queste le grate accoglienze, l’onorato e caro ricevimento che al vostro prencipe fate? cosi mi ricevete? Adunque io ritorno con si infausti auspici, con cosi contraria fortuna che debbia, dopo tanti miei perigliosi viaggi, dopo tanti danni, tanti infortuni e travagli e dopo superate tante difficultà, essere da li miei propri sudditi oltraggiato? Non sono già questi gli antichi buoni e lodevoli costumi, le benigne usanze e gli antichi modi e ospitali carezze che al partire mio di qui io ci lasciai. Gli uomini cangiati e tralignati si sono da la integrità e modestia de li santi avoli. Non è meraviglia adunque se io trovo la Fiandra cosi afflitta e male anzi pessimamente governata, poi che non uomini qui ritrovo, ma fiere crudeli, soperbe, inumane e scelerate. — Egli nel dire si riscaldava e pareva che in malediche parole fosse per disnodare la lingua e commovere qualche tumulto, quando il presidente del consiglio gli impose con agre e minacciose parole silenzio, dicendogli: NOVELLA I (il) »5 __ Io con questi signori senatori riferirò il tutto che detto ci hai a madama la contessa Gioanna, nostra signora e padrona, senza il cui parere il nostro consiglio nulla determineria. Ma considera bene il caso tuo, ché altre, prove ci vogliono a farci credere che tu sia il vero Baldoino. Tra tanto sotto pena de la vita ti commandiamo che tu ti ritiri in qual si sia luogo de l'Annonia e non attenti cosa alcuna di nuovo, fin che chiaro non sia se tu sei Baldoino o no. A voi altri che lo seguitate, io vi commando, sotto la detta pena e confiscazione de li beni, che debbiate ritirarvi a le case vostre e non pratticare più con costui, che non sappiamo ancora chi si sia, né darli favore in conto veruno. — A questo commandamento molti si partirono, chi in qua, chi in là. Alcuni pochi villani, che arebbero voluto vedere la provincia in tumulto per dirubare e fare del male, restarono con lui. Andò il presidente con li senatori a parlare a la contessa, e le disse il successo del tutto. Ella che sapeva di certo il padre essere morto, avendo già gustata la dolcezza del governare tanti popoli ed essere signora, non averebbe voluto se non per morte deporre cosi bella signoria. Intendendo poi che molti nobili fiammenghi, cui non piaceva di essere governati da una donna, andavano spargendo per la plebe che colui di certo era il vero Baldoino loro signore naturale, di modo che già quelli popoli, che di natura sono inclinati a far movimenti, cominciavano a tumultuare; il che vedendo la contessa, subito ispedi al re Lodovico ottavo a fargli intendere il tutto. Il re, che sapeva certo Baldoino essere morto, fece con prestezza per uno araldo citare il nuovo falso Baldoino a la corte innanzi a sé con pene gravissime, e mandògli salvocon- dutto di andare e di tornare. Avuta il simulatore la citazione, si mise in camino e menò seco assai onorata compagnia di fiammenghi e anco di annòni. Presentossi poi innanzi al re e come a suo signore li fece riverenza. Il re allora cosi li disse: — Se noi non ti raccogliamo come conte di Fiandra e signor di Annonia, non ti devi meravigliare, perché ancora non sappiamo con quale nome, a noi e a te convenevole, debbiamo appellarti né con quale accoglienza riceverti. Baldoino, conte di Fiandra e di Annonia e imperadore conslantinopolitano, fu mio zio e de’ tempi suoi uno de li piú nobili e vertuosi cavalieri che si trovassero, cosí ne le opere de la milizia come de la cortesia e altre maravigliose doti che in lui fiorivano. Onde io, per essere suo nipote, certificato de la morte sua, amaramente il piansi. Ben mi saria di grandissima contentezza se possibile fosse che questo mio zio, padre di madama Gioanna mia cugina, a casa se ne tornasse, se non è morto. E se morto è, come si sa che miracolosamente resuscitasse? Ora tu che vuoi darci ad intendere che tu sia il vero Baldoino, egli ti conviene con evidenti e chiari argomenti sgannarne e farne capaci che non morisse e che tu sia il vero Baldoino giá imperadore di Constantinopoli, perché a noi non potrebbe avenire cosa piú grata, piú lieta e di maggior contentezza che conoscere chiaro che noi abbiamo pianto quello Baldoino fora di proposito, che in vero quanto padre amavamo e onoravamo. Ma attendi e rispondi a ciò che noi t’interrogaremo, ché forse questo nostro quesito adesso ti renderá testimonio e giudice in tanto importante negozio e sgannerá il mondo cerca li casi tuoi. Orsú, rispondeci: chi fu che ti investi del feudo de la Fiandra, e con quali condizioni fusti fatto feudatario di si onorata provincia? in che luogo ricevesti il feudo? a quale tempo? chi ti portò li reali privilegi? quali furono li testimoni? chi ti fece cavaliero aurato e ti pose gli speroni? quale fu la madama che prendesti per moglie? chi condusse questo tuo matrimonio? ove si fecero le nozze? che solennitá? che feste? che bagordi? Tutte queste cose il vero Baldoino mio zio saperia molto ordinatamente dire. Che pensi? che strani movimenti sono quelli che fai? — Il povero, che come il corbo voleva vestirsi de le belle piume del pavone, ansando e sospirando, si storceva né sapeva a cosa veruna, che il re interrogato l’avesse, dare risposta. Il re li replicò che rispondesse, dicendogli: — E come ti sono giá queste cose uscite di mente? — Vòlto poi il re a li circostanti: — Eccovi — disse — come piú tosto il bugiardo si giunge che non fa il zoppo, perché le bugie hanno corti li piedi. Questo tristo uomo non solamente vacilla e si cangia di colore, ma non sa dire uno motto. Io ti prometto, truffatore che tu sei, che se non ti avesse assicurato col mio salvocondutto, che io ti farei dare tale gastigo quale la tua temeraria presonzione e le tue menzogne mertano. — La contessa avertita del successo, come il ribaldo fu in Annonia, subito fu da la giustizia con alcuni de li suoi seguaci, che seco erano, preso; e fatto il processo e confessato che non era Baldoino, fu vituperosamente impiccato, e seco molti de li suoi. La contessa poi destramente oggi uno, dimane dui faceva pigliare di quelli che avevano il falso Baldoino seguitato e favorito; di modo che in poco tempo si levò dinanzi dagli occhi tutti quelli che le erano stati contrari. E cotale fu la fine del bugiardo.

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