< Novelle (Bandello, 1910) < Parte IV
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Novella III - Un cortigiano va a confessarsi: e dice che ha avuto volontà di ancidere un uomo, benché effetto nessuno non sia seguito. Il buon frate, che era ignorante, noi vuol assolvere, dicendo che voluntas pro facto reputatur, e che bisogna avere l’autorità del vescovo di Ferrara: su questo una beffa che al frate è fatta
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IL BANDELLO

al gentil e molto magnifico signore

alessandro costa

signore di Polunghera

salute


Ritrovandosi il valoroso e splendidissimo cavaliere de l’ordine sacro di san Michele del re cristianissimo, il signor Cesare Fregoso, mio signore e tanto vostro, amico, qui in Moncalieri, dove attendeva a farlo fortificare, vennero una mattina molti signori capitani francesi a desinare seco, come spesso fare solevano. E mentre che si disinava, di uno in altro ragionamento travalicando, si venne a ragionare de le cose del re di Tunisi, di maniera che furono dette cose assai de la fiera crudeltá che Amida, figliuolo di Muleasse re di Tunisi, contra esso suo padre avea usata. E parendo pure una strana cosa che il figliuolo proprio contra il padre si acerbamente fosse incrudelito, che non solamente gli avesse rubato il regno con manifesta tirannide ma che anco l’avesse fatto accecare, molte cose si dissero de la bestiale e inumana natura di quegli africani, in vero barbarissimi. Era quivi a desinare Gioanni da Turino, famoso capitano di fantaria, il quale allora, interrompendo quei che ragionavano, disse: — Signori miei, io ho qui meco uno prode e buono soldato marchiano, Marcello da Esi, che nuovamente è venuto di Africa, ove lungo tempo ha militato con gli spagnuoli, e con loro era a la Goletta, il quale vi saperá minutamente di tutti gli accidenti a Muleasse avenuti informare. — Allora il marchiano, pregato da quelli signori a raccontare il fatto come era seguito, senza piú farsi pregare, narrò, subito che il dismare fu finito, l’istoria di che era richiesto. Io, che M. Bandello, Novelle. 98 PARTE QUARTA a tavola con gli altri era, la notai e quello ¡stesso giorno descrissi, e mi deliberai in mente mia che col nome vostro in fronte andasse in publico. E cosi per riconoscenza, in parte, de le infinite da voi ricevute cortesie, ve la mando e ve ne faccio uno dono; onde vi prego che vogliate accettarla con quello animo buono e gentile che sempre solete. State sano. NOVELLA III (IV) Crudeltà di Amida figliuolo di Muleasse re di Tunèsi coutra esso suo padre in privarlo del regno e fargli accecare gli occhi. Dapoi che Carlo, quinto di questo nome imperadore, per assicurare i liti de la Sicilia, Sardegna e Corsica e il paese litorale del Regno, de’genovesi e de le Spagne, fece l’impresa in Africa de la Goletta, e che cacciò, del regno di Tunesi occupato, Ariadeno, il quale Barbarossa è cognominato, ritenne l'imperadore per sé la acquistata Goletta e vi mise dentro il presidio de li soldati spagnuoli, con li quali io lungo tempo avea militato, e creduto da molti essere nato in Ispagna. Restituì poi con cerd patti esso reame di Tunesi al re Muleasse, che da Barbarossa con fraude grandissima ne era stato messo fora. Era Muleasse de la famiglia antichissima de li Correi, la quale ebbe origine de l'Ornare, cugino del perfido Maometto pseudoprofeta, che è durata più di novecento cinquanta anni senza mai essersi interrotta. Adunque ritornato Muleasse al patrio e avito regno, poi che si avide che le forze del Barbarossa erano, col favore di Solimano monarca de’ turchi, molto potenti e già in l’Africa ben fondate, avendo li seguaci di esso Barbarossa grandemente munita e fortificata Constantina, città mediterranea, che anticamente fu Cirta, patria di Massinissa, e altresi lungo la marina occupata e fatta inespugnabile la picciola Lepti, che oggidì gli africani chiamano Mahemondia e noi altri appelliamo Africa, e tenendo ancora Adrumeto, che Maometa si dice dal volgo, si deliberò il detto re Muleasse navigare in Italia per trovar Carlo imperadore, che allora ci era, per impetrare da lui uno gagliardo soccorso contra turchi. Ma per NOVELLA III (IV) 99 lasciare il regno di Tunesi provisto contra nemici per ogni cosa che potesse accadere, ordinò che uno chiamato Maumete, che allora governava il magistrato primario de la città, che si chiama « manifete », fosse governatore generale con autorità grandissima. In ròcca poi per castellano mise uno còrso rinegato, che di schiavo avea fatto franco, il quale, perché di natura era molto allegro e festevole, tutti chiamavano « Fares », che in quella lingua significa « lieto ». A l'esercito pose per capitano uno de li figliuoli, detto Amida, giovane audace, acciò che tenesse sicura la campagna e quella guardasse da le incursioni de li turchi e de li numidi. Portava egli per donare a l’impera- dore ricchi e preziosi tapeti e vari fornimenti da adornare letti, che erano lavorati per eccellenza a la morisca. Portava ancora alcune gemme di grandissimo prezzo, e faceva condurre dui grandissimi cavalli numidici, che mostravano essere molto generosi. Arrivato in Sicilia e volendo di lungo navigare a Genova, fu sforzato da impetuosi e fortunevoli contrari vend, lasciata Genova a la mano sinistra, tenere uno poco più alto e ritirarsi a Caieta e poi a Napoli. Era allora a Napoli per viceré il signor Pietro de la casa di Toledo, dal quale il re africano fu cortesissimamente ricevuto e con grandissima pompa in Castello capuano, magnificamente apparato, messo. Quivi fu abon- devole e sontuosamente di tutto quello che al vivere di uno soperbo re si conviene proveduto. Restarono tutti li napoletani pieni di grandissima meraviglia veggendo tanta eccessiva spesa che il re ne li suoi cibi faceva, e massimamente nel consumare si gran copia di preziosi e cari unguenti odorati, essendo cosa certissima che per acconciare e farcire uno pavone e dui fagiani il suo cuoco vi consumava sempre per l’ordinario in odori il valore di cento ducati di oro, ché il re cosi voleva. E di questi unguenti odoratissimi seco ne faceva portare grandissima copia; onde non solamente la sala ove egli mangiava, ma tutto il castello di Capuana si sentiva da ogni banda olire e spirare soavissimo odore, e d’ogni intorno tutta l’aria parea odorata. Era allora l’imperadore a parlamento a Busseto, castello de li marchesi Pallavicini, con Paolo terzo, sommo pontefice. Il perché, IOO PARTE QUARTA avendo Muleasse determinato più non si commettere a la instabilità del mare, e anco dubitando del suo nemico Barbarossa, che era con una potente armata fora, voleva per terra andare ove il parlamento si faceva. Ma l’imperadore, allora in affari di grandissima importanza col papa occupato, non volle che da Napoli partisse, deliberando muovere la guerra contra li sicambri, che sono popoli di Gheldria e di Cleves. Ora, per quanto si intese, non era Muleasse venuto d’Africa in Italia tanto per avere soccorso da Carlo, quanto per ¡schifare uno grandissimo e periglioso infortunio che sovrastare egli si vedeva. Era il re africano gran filosofo averroista e de la scienza astrologica giudiziaria peritissimo, e per l’arte di quella calculava le stelle, fieramente contra lui adirate, menacciargli il fine de la vita e la perdita del regno; e sovra ogni cosa temeva Barbarossa, ima- ginandosi che quella potente armata, che a Costantinopoli udiva che si adornava, contra lui si mettesse a ordine. Ma non seppe il pessimo influsso, come si dirà, schifare. Dimorando egli in Napoli, ebbe da certi nonzi aviso come Amida suo figliuolo sceleratamente tradito l’aveva e fattosi re di Tunesi, ammazzati gli amici e prefetti di esso padre, presa la ròcca e violate le moglieri e concubine che a Tunesi aveva lasciate. Intesa questa impensata e crudele nuova e ne l'animo fieramente perturbato, si deliberò non perder tempo, ma passare in Africa, sperando, prima che Amida potesse nel nuovo stato confermarsi, di poterlo opprimere e ricuperare il perduto regno. Indi con quella maggior celerità e diligenza che fu possibile, cominciò a fare gente e largamente dar danari, avendo il viceré publicata la immunità a tutti i condennati per cose capitali, agli esuli e altri simili malfattori, mentre volessero militare e seguire Muleasse a ricuperare il suo regno in Africa. Per questo congregò egli quasi uno giusto esercito. Di questa gente Gioanni Battista Lofredio fu fatto capitano. Era il Lofredio gentiluomo neapo- letano, di buono ed elevato ingegno e molto desideroso di acquistarsi fama in l’arte militare, oltra che sperava anco trarne gran profitto. Si accordò il Lofredio col re africano di servirlo tre mesi e condurre quelli fanti, che poteano essere NOVELLA III (IV) IOI poco più di duo millia, tra li quali furono alcuni nobili de la città de Napoli, che di brigata in Africa navigarono e a la Goletta con prospera navigazione pervennero. Saranno forse alcuni di voi, signori, che volontieri intenderiano quali furono le cagioni e li consiglieri che mossero e indussero Amida a cacciar del regno il padre. Lasciando adunque l'appetito del regnare, vi dico che con lo scelerato Amida erano alcuni de li principali de la corte, li quali conoscevano che l’ingegno di quello era facile da essere governato e rivolto a ogni parte che si volesse. Tra questi era Maomete, figliuolo di quello Boamare, che sotto il regno di quello re che regnava innanzi Muleasse fu manifete. E perché avea presa per moglie Raamana, giovane di incomparabile bellezza e figliuola di Abderomene, castellano de la ròcca de la città, de la quale Muleasse si trovava fieramente innamorato, come esso Muleasse fu fatto re, lo fece prima castrare e poi miseramente morire. Per questa morte del padre Maomete di odio più che vatiniano odiava il re, e lungo tempo avea nodrito in petto l’immortale odio, aspettando l’occasione che con eterna roina di Muleasse il potesse mettere in esecuzione. Vi era uno altro Maomete, cognominato Adulze, moro nativo di Granata, che di fare schioppetti era artefice miracoloso. Questi altresi voleva uno grandissimo male a Muleasse, perciò che il re in luoco di grandissima ingiuria sempre il chiamava « schiavo nequissimo e più di ogni altro nequissimo ». Questi dui, pensando che fosse venuto il tempo di cacciare via il re cotanto da loro odiato, fecero una congiura con alcuni altri, e con false novelle sparsero tra loro che Muleasse a Napoli fosse morto, ma che prima che morisse avea rinegato la fede mao- metana e fattosi cristiano. Con questa fizzione fu Amida da li congiurati esortato a insignorirsi del regno e non perdere tempo, acciò che suo fratello, che era ostaggio a la Goletta in potere di Francesco Tovarre, luogotenente de l’imperadore e capitano de la Goletta, col favore degli spagnuoli non si facesse re. Chia- mavasi questo Maomete, e poteva essere di diciotto in diece- nove anni; e perché rassimigliava grandemente a l’avolo suo, non solamente a le fattezze del corpo ma anco quanto a l'ingegno 102 PARTE QUARTA e a li costumi, tutto il popolo tunetano meravigliosamente lo amava. Mosso Amida da le esortazioni degli amici, lasciato il luoco a lui per le stanze assignato, se ne venne di lungo a Tunesi. Il popolo, che de le sparse novelle nulla avea intesa, veggendo questi movimenti, stava molto dubbioso, e molti assai si meravigliavano che cosi di liggiero egli avesse abbandonate le stanze. Il manifete, udito questo tumulto, subito corse a incontrare Amida, e fieramente de l'audacia sua e che fosse stato oso senza commissione del padre commettere cosi gran fallo molto il riprese, e li suase a ritornare a le stanze, e col favore del concurrente popolo fora de la città lo spinse. Amida, veggendo il suo consiglio non li succedere, non ritornò altrimenti a le stanze, ma si rivoltò verso le contrade ove è la regione Marzia, che dal porto di Utica al promontorio de la destrutta Cartagine si contiene. Sono in questa parte orti reali bellissimi con magnifici edifici. Il manifete, o sia governatore, presa una veloce barchetta, poi che ebbe fatto uscire fora di Tunesi Amida, con grande velocità per lo stagno navigò a la Goletta e parlò col Tovarre, capitano di essa, per intendere da lui se nova alcuna intesa avea del re Muleasse. E nulla sapendo il Tovarre, li disse la temeraria audacia di Amida. Poi parlò con Maomete figliuolo del re, che era ostaggio, come si è detto; e vi era ancora Abdalago, fratello di esso manifete, e uno figliuolo di Fares còrso, prefetto de la ròcca, che anco essi dui erano ostaggi. Indi con la medesima celerità il manifete se ne ritornò a Tunesi. Furono alcuni maligni cittadini sospettosi, come natura- lemente sono quasi tutti gli africani, li quali ebbero sospetto che il manifete col favore del Tovarre non avesse ordito alcuna trama di mettere Maomete figliuolo di Muleasse in Tunesi in luoco del padre. Quelli adunque cittadini, cui era odioso il governo del re, mandarono messi a Amida, che dentro gli orti marzi sospirava e piagneva la sua mala e contraria fortuna, e lo esortarono a non si perdere di animo, ma che volesse tornare a Tunesi. Egli a questo aviso fu confortato; e ripreso animo e intrato in buona speranza, avendo avuti alcuni buoni augùri, a li quali gli africani prestano molta fede, deliberò, NOVELLA III (IV) 103 essendo anco da Boamare confortato e da Adulze insieme con <r|i altri suoi spinto, tornar di nuovo a tentare la fortuna, la quale mai non istà ferma in uno tenore, sperando che se prima contraria gli era stata, che li saria favorévole. E non dando indugio a la sua deliberazione, a Tunesi se ne ritornò; ove, trovata la porta de la città aperta, andò di lungo a la casa del mani- fete, e noi trovando in casa, tutti li propinqui e famigliari di quello crudelmente tagliò in pezzi. E con la scimitarra sanguinolente in mano, accompagnato da li suoi seguaci, si inviò verso la ròcca, ne la quale volendo intrare, Fares, prefetto di quella, tirato il rastrello innanzi l’intrata, si sforzava animosamente proibirlo che non intrasse. Ma uno schiavo di Etiopia, che era con Amida, diede con una spada ne li fianchi a Fares e quello, passato da banda, gettò in terra più morto che vivo. 11 perché Amida, spinto il cavallo, passò su il corpo di Fares e intrò dentro; e quivi trovato Maomete manifete, commandò che fosse come una pecora scannato. E a questo modo ne Io spazio di una ora si impatroni de lo stato. Subito poi ne li menori fratelli suoi cominciò esercitare la sua ferina crudeltà con tanta insolenza e sceleratezza che, tutto pieno di sangue, senza vergogna, senza rispetto veruno, constuprò alquante concubine del padre. Fece poi divolgare che Muleasse avea rinegata la religione loro maometana e fattosi cristiano e che poco dapoi se ne era morto. Di tutti questi accidenti avvertito Muleasse, come detto si è, venuto era a la Goletta con speranza di ricuperare il regno. Francesco Tovarre, per essere uomo di perspicace ingegno, ' con diligentissima considerazione discorrendo tutto ciò che ragionevolemente accadere poteva, suase al re con evidenti ragioni che con quelle genti tumultuarie, che d'Italia condutte avea, non volesse andare a Tunesi se prima più minutamente non era informato meglio de le cose de la città e degli animi de li cittadini e popolani tunetani. Aveva egli gran dubbio de la fede africana e degli arabi temeva le insidie, per essere gente che facilmente d’ora in ora si cangia e segue chi più le offerisce e dona. Poi con maggior veemen- zia e più ardenti parole averti e più apertamente ammoni Gioan J04 PARTE QUARTA Battista Lofredio che non si mettesse cosi sfrenatamente a tanta impresa, sapendo che dal viceré di Napoli avuto aveva in iscritto, in li mandati, che non guardasse al desiderio del re, volontà- roso fora di misura di ricuperare lo regno; e che non dubitava che esso re non si mettesse a ogni periglio, ma che attendesse che egli avesse soccorso di una numerosa e forte compagnia di arabi, come promesso avea. Mentre su queste esortazioni si dimorava, alcuni baroni africani, simulando di essere buoni amici, erano usciti fore di Tunesi e con una loro barbara cerimonia, mettendosi le ignude scimitarre a la gola, come è peculiare costume loro, davano il sagramento di fedeltà. Costoro esortarono Muleasse andare animosamente innanzi, con ciò sia cosa che Amida, come vedesse suo padre armato, vinto da la vergogna e dal timore, subito abbandoneria la ròcca e la città e confuso se ne fuggirebbe. Credette a le false persuasioni Muleasse e non vi interponendo dimora alcuna, invocandolo e protestando indarno Tovarre, che da le fraudi e insidie puniche si guardasse, fece esplicare in uno momento gli stendardi e bandere e a la volta di Tunesi prese il camino, seguendolo allegramente con animoso core il Lofredio; il quale se tanta prudenza avuta avesse quanto aveva ardito cuore, le cose sue e del re senza dubbio prendevano altro assetto. Non mancarono perciò prefetti esperti ne l’arte militare, come furono Cola To- masio e Giacomo Macedonio, patrizio neapolitano, li quali si sforzarono con evidenti argomenti persuadere il Lofredio che, senza avere veduto o da’ suoi soldati esperti fatto vedere ed esplorare il sito del paese, non si mettesse cosi di liggiero a combattere, e non volesse dare fede a le parole de li fallaci africani; ma che si contenesse uno poco e intertenesse a bada il re, che senza lui non combatteria, e si aspettasse il soccorso de li propinqui numidi, promesso da esso re. A questi superbamente, per non dire con pazzia, rivolto, il Lofredio disse: — Voi, che di vergognosa paura séte pieni, cessate, cessate oramai di predicare queste vostre poco valevoli ragioni anzi ciancie puerili, e non vogliate sminuire l'audacia degli uomini forti, perciò che io vi assicuro che tanto è lontano da me il voler NOVEL!.A III (IV) rompere e guastare la sperata vittoria che in mano averno, quanto che penso che farei molto meglio punire voi altri, più pronti a spaventare con falso timore i soldati che a menare arditamente le mani. — A questo rispose il.Tomasio, con alta e ferma voce dicendo: — La Fortuna certo, non mai tarda ultrice de la temerità, o Lofredio, in breve, secondo che me pare comprendere, a tutti noi aprirà la via ¡spedita di testificare qual più di noi sarà stato de la vertù amatore. Io certamente al grado mio, con non vituperoso fine de la vita mia, onestamente mi sforzerò di sodisfare. Ma tu metti ben mente se a l’officio tuo e dignità de la prefettura tua sei per sodisfare, che cosi arrogantemente le sagge ammonizioni e ben sani ricordi de li tuoi commilitoni disprezzi e, male consigliato, rifiuti e fastidisci. — Detto questo, si rivoltò a li soldati e con lieto viso disse loro: — Fratelli, figliuoli e compagni miei, ecco il giorno che, piacendo a nostro signore Iddio, ci farà vittoriosi. — Andava innanzi Mu- leasse con una banda de li suoi famigliari a bandere spiegate. Dopo lui seguivano gli italiani, e già erano pervenuti a le Cisterne, ove pochi anni innanzi combattessimo con Barbarossa e lo debellassemo. Erano già iti vicini a Tunesi a tre miglia. Arrivarono alcuni spagnuoli a cavallo, che Tovarre mandava per avertire il re come dagli esploratori era avisato essere le insidie de li nemici tra gli oliveti, ove grandissimo numero di numidi stava in aguato. Ma questo aviso mandato dal Tovarre il re e il Lofredio facilmente sprezzarono, con ciò sia cosa che ne la loro manifesta roina a lunghi passi correvano, e tanto arditamente quanto incautamente caminavano verso quella parte che è sopra l’arsenale e il porto. Come Muleasse fu da quelli che erano sopra le mura de la città conosciuto, una banda di africani bene in ordine, con impressione ostile e gran romore uscita de la città, con quelli di Muleasse cominciò bravamente a scaramucciare. Essi regi egregiamente sostenevano l’impeto de li nemici. Muleasse, che de la persona era molto prode, con la sua lancia quanti ne incontrava tanti ne feriva, poco avedutamente combattendo; onde ebbe una ferita su la faccia. Il che grandemente li soldati regi smarrì, di modo che cominciarono io6 PARTE QUARTA voltare le spalle, a li nemici. Ecco che in questo saltarono fora degli olivi quelli numidi che in aguato ci erano, e in uno tratto circondarono li lofrediani con ululati e spaventevoli gridi, secondo la loro consuetudine. Li lofrediani scaricarono alcuni pezzi di artegliaria picciola contra nemici ; ma tanta era la moltitudine de li soldati africani che contra lofrediani combattevano, che dopo li primi tiri non ebbero spazio di ricaricare i loro pezzi che scaricati avevano. Cosi, veggendosi li male condutti lofrediani da ogni banda cinti da li nemici, di modo si lasciarono occupare gli animi da eccessivo timore che la più parte di loro, gettate le armi in terra, si buttavano dentro la palude, vituperosamente fuggendo. Quivi, pigliando di quelle navicelle che vi erano, per avere alcuni di loro conservati gli archibugi, tenevano più che si poteva discosti gli africani e soccorrevano li nostri, che a Tacque si gettavano per salvarsi. Lofredio, da li numidi circonvento, a uno uomo perduto e attonito simile, essendo su uno cavallo turco che nuotava come uno pesce, si cacciò ne la palude. Ed essendo l'acqua poco profonda, piena di pantano e vorticosa, e non potendo il suo cavallo levarsi a nuoto, lo volle ritornare in terra, acciò che, forse in se stesso tornato e ripreso animo, più onestamente e da par suo cadesse combattendo. Ma indarno affaticandosi, fu da li barbari ferito e, tratto da cavallo, ne le acque si mori. II Tomasio, il Macedonio, Antonio Grandillo e Lorenzo Monforzio, giovani e uomini ardili e nobilissimi, fortemente combattendo, poi che videro non essere ordine a restituire la battaglia, esortando li commilitoni che valentemente combattessero, acciò che invendicati non morissero, tutti insieme conglobati e come lioni scatenati si cacciarono tra li nemici e assai di quelli ne uccisero. A la fine, pieni di molte ferite, in mezzo a una gran moltitudine di nemici morti da loro, perduto il sangue, onoratamente cadèro. Fu anco morto col Lofredio Carlo Focco, di nazione greco, di sangue molto illustre. Francesco Sergente, Antonio Boccapiana e Lucio Bruto sani a la Goletta nuotarono. Il resto fu da li barbari morto, oltra quelli che ne la palude restarono affogati. Lo sfortunato Muleasse, del suo sangue e de l’ostile e de la NOVELLA III (IV) 107 polvere tutto sporco e imbrattato, fuggendo con alcuni pochi de li suoi, da nessuna cosa più tosto fu da li nemici conosciuto che da la soavissima e grande esalazione degli odoratissimi unguenti che a dosso portava. Egli fu preso e presentato a Amida vittorioso, il quale nessuna cosa più ebbe a core che fare accecare suo padre Muleasse, facendoli con uno scarpellino di ferro affocato guastare le pupille degli occhi. Questa medesima crudeltà usò il perfido Amida contro Naasar e Abdalà, suoi menori fratelli che il padre seguito avevano. Scrisse dapoi a Francesco Tovarre come aveva alcuni pochi prigioni cristiani e che li restituirebbe. Gli scrisse anco come a Muleasse suo padre, che meritava molto maggior supplizio, avea lasciata la vita. E secondo che esso Muleasse altre volte molti suoi fratelli avea accecati, che il medesimo avea fatto fare a lui, acciò che restasse esempio al mondo a li crudeli e sanguinari uomini i loro malefici non restare impuniti, gloriandosi lo scelerato figliuolo avere usato clemenzia verso il perfidioso padre lasciandolo in vita. Scriveva anco che era contento confermare con alquante condizioni l'amicizia che Tovarre teneva con Muleasse, ¡stimando quella ne le perturbazioni del novo regno devergli essere molto a proposito e di gran profitto. Tovarre tutto ciò che al presente commodo poteva servire non rifiutava; onde Amida gli appresentò certa quantità di denari, che si desse per lo stipendio a li soldati spagnuoli che erano a la guardia de la Goletta. Restituì alcuni prigioni, tra li quali erano alcuni cristiani che militavano per l’ordinario a cavallo, li quali egli aveva incarcerali perché seguivano Muleasse. Questi prigioni si dimandavano « rebattini ». Non sarà, penso io, forse fora di proposito che io vi dica che. gente sia questa che « rebattini » si chiamano, per quanto già, essendo io in Africa, ne apparai per relazione di molti. Devete adunque sapere questi rebattini essere reliquie di cristiani vecchi, che ne le antiche ¡spedizioni fatte da li nostri restarono in Africa; e perché erano uomini valorosi e leali, furono sempre in prezzo e onore appo li regi tunetani e a tutto quello popolo. Questi vissero sempre come cristiani, e fora de la porta di Tunesi verso il mezzodì, non io8 PARTE QUARTA troppo lungi da la città, se ne stavano in uno castello detto Rebatto, dal quale chiamati sono « rebattini », e durano in buono numero sino al presente giorno. Hanno le chiese e li sacerdoti e officiano a la romana. Ne la detta terra di Rebatto non abita nessuno africano, ma solamente essi cristiani. Tutti li regi tu- netani hanno sempre avuto per costume, come anco avea Mu- leasse, tenere una gran squadra di questi rebattini a la guardia de le persone loro, commettendo più volentieri la salute del corpo loro a li cristiani che agli altri di quello paese. Per questo gli aveano assignato quello luoco con possessioni e grandi immunità. E perché fanno il mestieri de l’armi a cavallo, li chiamano « cavalieri rebattini ». Ma tornando a dire di Amida, restituì egli tutti gli stendardi lofrediani col corpo di esso Lofre- dio, senza capo, ché stato gli era dal busto reciso da li soldati africani. Diede poi per ostaggio uno suo picciolo figliuolo, che era di nove anni e Schite se appellava, con questa condizione: se cotali tregue, che temporarie parevano, non si commutavano in pace, che il figliuolo incolume al padre suo fosse restituito. Questo nome «Schite» in lingua punica vuole dire «fortunato». Fece medesimamente Amida condurre a la Goletta tutta l’arte- gliaria che li lofrediani perduta aveano, la quale ancora che To- varre poco ¡stimasse, nondimeno non volle che agli africani potesse recare giovamento a nessuno tempo già mai. Questa tregua, ben che non iniqua e per molte cagioni necessaria ¡stimare se potesse, tuttavia Tovarre giudicava quella non convenire a la dignità cesarea, parendo cosa fora di ragione e indegna che Amida godesse il regno, che con immanissima perfidia e nefandissima sceleratezza contra il decreto imperiale avea rubato, e commessa contra il proprio padre si enorme crudeltà. Per questo Tovarre cominciò tenere nuove pratiche per tentare se poteva introdurre alcuno del sangue reale in Tunesi, che con volontà e autorità di Cesare regnasse, sapendo l'imperadore meritamente essere con grandissima còlerà adirato. Era appo li numidi Abdemalec fratello di Muleasse, che appresso Ahemisco, regulo, in Numidia sempre dimorato si era e da lui benignamente ricevuto, dapoi che da Biscari, mediterranea città, quando i turchi la occuparono, NOVELLA III (IV) 109 se ne era fuggito. Questo mandò Tovarre a chiamare per farlo re. Non mancò Abdemalec a se stesso e a la offerta occasione, massimamente esortandolo Ahemisco numida e predicendo molti astrologi che egli senzgt dubbio veruno saria re e che ne la regale ròcca di Tunesi di morte naturale re se ne morirebbe. Avenne, mentre questo trattato si maneggiava, che Amida era partito da Tunesi, acquetati li tumulti urbani, e ito verso Biserta, acciò che colà riscotesse la intrata di uno lago molto ahondante di pesce. Tovarre adunque, per non mancare a la data fede, rimandò a Tunesi il picciolo Schite. Arrivò poi di notte Abdemalec a la Goletta e fu da Tovarre graziosamente ricevuto. E parlato insieme di ciò che fare devesse, acciò che prevenisse le spie che non annonziassero a Tunesi la sua venuta, poi che ebbe lasciato uno poco riposare li cavalli, con la sua banda di numidi che condutti aveva se ne andò di lungo verso Tunesi, e per la porta Barbasveca intrò ne la città e andò di lungo a la ròcca. Non fu a la ròcca chi li facesse resistenza, pensando li guardiani che egli fosse Amida che da Biserta ritornasse. Si aveva Abdemalec a posta coperta la faccia con uno velo di lino, come è il costume degli africani, che ciò fanno per conservar il volto da l’intensissimo ardore del sole e da la fastidiosa polve. Intrò egli dentro il castello e si scoperse. Come i guardiani si avidero de l'inganno, diedero di mano a l’armi. Ma li soldati che erano con Abdemalec li diedero a dosso con grande impeto e il più di quelli ancisero, tra li quali Nanser Allá, siciliano di nazione e cristiano rinegato, che era castellano de la ròcca, fu de li primi, volendo far resistenza, a essere morto. Onde, smarriti, tutti gli altri non ebbero più ardire di opporsi a quelli che erano intrati, e cosi Abdemalec si insignori de la fortezza. Sparsa che fu questa nova per Tunesi, concorsero li cittadini a la ròcca e salutarono re Abdemalec, il quale subito sotto buona custodia fece porre Schite, figliuolo di Amida. Poi ne la istessa forma si accordò con Tovarre con la quale prima era colligato Muleasse, e pagò sei millia ducati per parte di stipendio a li soldati de la Goletta. Né guari dopoi stette che, gravissimamente caduto infermo, acciò che confermasse no PAKTE QUARTA le predizioni degli astrologi e matematici, il trigesimo sesto di del suo regno se ne mori e fu con regale pompa sepolto. Tovarre tenne diligentissima pratica con li principali del regno che creassero re Maomete, figliuolo del morto Abdemalec, che era di dodeci anni, ma garzone di buona indole; il che fu fatto, e subito si fecero alcuni de li primi che governassero la puerile età del re e tutte le cose de lo stato. Questi furono Abdalago manifete, fratello di Maomete manifete che fu da Amida crudelemente morto, e Mesuar Abdelchirino, che significa «servo liberale ». Dopo questi vi furono aggiunti Serreffo, gran dottore de la legge maometana, nato in Bugea, nobile città, ove sogliono essere le publiche scole degli studi arabici. Questa Bugea fu appo gli antichi Uzicata. Per quarto poi fu Gioanni Perdio tarentino, del numero de li cavalieri rebattini. Questi quattro da tutti erano ubediti. Ma Abdelchirino fora de proposito, volendo demostrarsi ben prudente, diceva che al regno tune- tano non era ispediente che si reggesse da uno fanciullo, ma che aveva bisogno di uno re di matura età, che non potesse essere da nessuno ingannato, ma per se stesso sapesse il tutto governare. Questo suo parere avendo egli divolgato, e investigando come uno di sangue reale si potesse avere, dispiacque molto a li suoi compagni, cui avere l’amministrazione del regno in mano grandemente piaceva e male volontieri se ne sariano levati. Onde, pieni di fellone animo contra lui, se deliberarono di non Io voler lasciare vivere. E non se ne accorgendo lo sfortunato Abdelchirino, lo ammazzarono tanto crudelmente, dicendo certa favola che voleva tradire la città, che non contenti né sazi de la morte di quello, che seco gran parte de li propinqui e famigliari di lui ancisero. Morto Abdelchirino e i seguaci suoi, gli altri tre governatori, dopo li perpetrati omicidi, tra loro constituirono uno triumvirato, anzi pure una aperta e crudele tirannia. Gian Perello, uomo, ben che cristiano, molto libidinoso, occupò il luogo segreto de le concubine di Amida, che, escluso da Tunesi, andò a Lepti, che da noi si chiama Africa e gli africani dicono Maemedia, e poi navigò a Menice, isola che oggi li Gierbi si chiama. Il Perello dunque in poco NOVELLA III (IV) di tempo si mischiò carnalemente con tutte le concubine ami- dane. Si querelavano pubicamente li tunetani che Abdelchirino, uomo da bene e padre de la patria, fosse stato perfidiosamente da li suoi compagni tradito e morto; né potevano sofferire che la città devesse governarsi da cosi maligni uomini, che nessuno modo mettevano a la loro avarizia, a la libidine e a la crudel- tate. Vedevano, se aspettare volevano la matura età al governare del re fanciullo, che il magistrato de li tre tiranni di giorno in giorno divenirebbe più crudele e vie più insopportabile. In questo mezzo, mentre che Amida andava esplorando il volere di molti popoli e da tutti soccorso ricercava, nove amicizie e confederazioni facendo, l’infortunato Muleasse, per la sua cecità, prigionia e calamità miserabile, dal nipote re, figliuolo di suo fratello, impetrò potere uscire di carcere e de la ròcca e di poter andare al tempio di Ameto Bonari, che già fu da quei popoli riputato santissimo. Detto tempio ne la città di Tunesi appo gli africani era in grandissima riputazione, e si aveva in quello inviolabile sicurezza come sacrosanto e divinissimo asilo. Indi non molto dopo, essendo arrivato a la Goletta Bernardino Mendozza, prefetto di una armata spagnuola, fu da Tovarre esso Muleasse con licenzia del re condotto a lo stagno e di colà per nave a la Goletta menato, acciò che fosse presente a le consultazioni, cercandosi prendere l’armi contra Amida, il quale poco innanzi avea fuggita la morte che alcuni tunetani voleano darli, servato da la pietà di una povera vecchia che, da anile compassione mossa, quello sotto molti mazzi di aglio aveva nascoso. Né con minore sorte di salute si conservò, quando opportunamente fu condutto a la Goletta; perciò che Amida, figliuolo suo crudelissimo e nefario, avea deliberato nel tempio ¡stesso di Ameto ucciderlo. Ora, per lo tristissimo governo de li tre governatori chiamato da’ tunetani, Amida arrivò a Tunesi che a pena il re fanciullo puoté fuggire. Onde, presa la città e la ròcca, ebbe ne le mani Gian Perello, il quale con fierissimi e inauditi tormenti discruciò; e fattogli tagliare il membro virile, Io fece vivo abbrusciare. Mori costantemente il Perello, e prima che fosse cruciato, essendoli promessa la vita se 112 PARTE QUARTA voleva rinegare Cristo, più tosto volle morire che rinegare. Ammazzò poi Amida tutti gli officiali del fuggito re e quaranta cavalieri rebattini. Né solamente Amida è di natura crudele, ma anco è tanto libidinoso che ha constuprato la propria sorella; e in ogni sesso e età, pur che voglia gliene venga, la sua fedissima lussuria esercita senza vergogna veruna. Ma avendo del modo come udito avete trattato il padre, che peggio se ne può dire?

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