< Novelle (Bandello, 1910) < Parte IV
Questo testo è incompleto.
Novella VIII - Accorto avvedimento di una fantesca a liberare la padrona e l’innamorato di quella dalla morte
Parte IV - Novella VII Parte IV - Novella IX

IL BANDELLO

al gentilissimo e poeta latino

soave e dotto

messer paolo pansa

salute


So che vi soviene, Pansa mio soavissimo, che essendo noi in Milano ne l’amenissimo giardino del signor Lucio Scipione Attellano a deportarsi con una onorata compagnia di alcuni dotti e gentili spiriti, che ci sovravenne il facondo dottore di leggi messere Ambrogio Zonca napoletano. Egli, essendo dimandato se nulla aveva di nuovo, ci rispose: — Signori miei, io vi reco, se ancora non l’avete intesa, una grande e strana novellaccia che forse non crederete, e pure è vera. Il magnifico messer Gian Francesco Ghiringhello, ricco gentiluomo di questa eccellente cittá, ha sposata per moglie Cattarina da San Celso. Non è egli una gran nova questa? Si è, per giudicio mio, certamente. Tutti conoscete senza dubbio essa Cattarina, essendo stata famosa cortegiana. La quale, ben che abbia molte buone parti, perché ella è vertuosa in sonare e cantare, bella recitatrice con castigata prononzia di versi volgari, di grande e bella presenzia, e di bellezza tale da la maestra natura dotata che può fra le belle di questa cittá comparire, ha poi qualche taccarella che guasta il tutto. Ella, figliuola di una madre poco onesta e pudica, non ha tralignato punto da le vestigia e costumi materni, perché non contenta di aver fatto copia del corpo suo spesso a uno, si è sottomessa libidinosamente a molti altri. E se la cosa fosse, non dirò segreta, ma non tanto publica, io non ne parlerei, perché non mi piace dire male de le donne, essendo nato di donna e marito di donna; ma, canzonandosi di lei per le barberie, la cosa è troppo publica. Esso Ghiringhello, che PARTE QUARTA era suo innamorato, sapeva chiaramente che uno altro in questo ultimo insieme con lui la godeva. Ma che ! egli non si può porre leggi agli amanti. — Parve di strano udire questa nova a la brigata, e varie cose se ne dissero. Allora il gentilissimo messer Nicolò da la Croce pregò che ciascuno tacesse, e ci narrò una breve istorietta, volendone mostrar che le forze de l’amore inducono gli uomini e le donne a fare di molti strabocchevoli errori. Voi mi diceste, come la istoria fu finita: — Bandello, questa non istarà male tra le novelle che tu scrivi. — Onde, avendola io scritta, ve la mando e dono, e voglio che sotto il nome vostro sia letta in testimonio de la nostra amicizia. Vi piacerà mostrarla al signor Ottobuono e al signor Sinibaldo Fieschi e fratelli, miei signori, e tenermi ne la buona grazia loro. State sano. NOVELLA Vili (IX) Romilda duchessa del Friuli si innamora di Cancano re de’ bavari che il marito occiso le avea. Si accorda seco di darli la cittì!, se la piglia per moglie. Il fine di lei, degno de la sua sfrenata lussuria. Voi vi meravigliate, signori miei, di quello che ha fatto messer Gian Francesco in ¡sposando per moglie Catarina da San Celso, con ciò sia che la meraviglia si soglia causare da cose insolite, e questa non è punto insolita. Ché chi volesse, non dico per Italia, ma discorrere solamente per questa nostra città, se ne troverebbero assai, e grandi e nobilissimi, a li quali troppo irregolato amore ha di maniera abbagliati gli occhi, che di mezzo il chiasso hanno preso le moglieri. Ma ora non vuo' io discoprire gli altari, ché solamente il giovedì santo discoprire si sogliono. Mi occorre bene dirvi uno motto de la madre di esso messer Gian Francesco, la quale fu ne li tempi suoi generalmente tenuta la più bella e onesta donna di Milano. Dimandatene a la signora Giacoma Macedonia, madre di questi nostri signori Attellani, se, quando ella da Napoli venne con la duchessa Isabella di Ragona a Milano, fu veduta la più bella e aggraziata donna in luoco veruno di quella. Onde per tutto NOVELLA Vili (IX) 165 Milano si soleva andar da tutti cantando questo motto: — Tre belle cose sono in Milano : il domo e il castello e la mogliere del frate Ghiringhello. — Si dimandava il padre di messere Gian Francesco «frate», perciò che essendo fanciullino fu per voto vestito da frate. E veramente egli e la moglie erano benissimo insieme congiunti, perché furono due bellissime persone. Mi soviene adesso una breve istorietta a provare che in effetto lo irregolato e lascivo amore benda quasi e accieca coloro cui si appiglia. Ma non vi parrà per ventura cosi meraviglioso come il fatto del Ghiringhello, tenendosi communemente che le donne, per essere di temperamento più delicato, amino assai più focosamente che gli uomini. Vi dico adunque che non molto dopo la morte di Foca imperadore avenne ciò che narrarvi intendo. Cancano re de li bavari con grosso esercito tumultuosamente intrò ne la provincia del Friuli, con troncata e corrotta voce cosi chiamata dal Foro di Giulio, città nobilissima, de la quale era duca Gesolfo longobardo. Sentendo esso Ge- solfo la venuta de li bavari, congregò quanti longobardi puoté avere e animosamente col suo esercito andò contra Cancano. Fecesi una crudele e mortale battaglia, ove da ciascuna de le parti morirono molti e fu fatta effusione di sangue grandissima. I longobardi ebbero il peggiore e il duca Gesolfo nel sanguinoso fatto d’arme fu morto. Il bavaro, avuta la vittoria, ancor che gente molta nel conflitto perduta avesse, cominciò, per la provincia del Friuli discorrendo, roinare e abbrusciare tutti que’ luoghi, che pigliare poteva, barbaricamente, in ogni età e in ogni sesso usando la sua ferina crudeltà. Romilda, moglie che fu di Gesolfo, si ritirò con Rodoaldo e Germoaldo, suoi e di Gesolfo figliuoli, dentro la città del Foro di Giulio, la quale era inespugnabile, e quivi aspettava il soccorso de li longobardi, che per tutta Italia faceano de le genti sue uno grossissimo esercito. Cancano con la più parte de li suoi andò ad assediare quella città, con molto maggiore sforzo che speranza di poterla acquistare, sapendo come era di sito e da l’arte meravigliosamente fortificata, e da numero conveniente di fortissimi commilitoni diligentissimamente guardata, e abondevolmente di vittovaglia fornit a ¡66 PARTE QUARTA e proveduta, di modo che il bavaro si trovava in gran fastidio e desperato di potere il luoco espugnare. E tanto più de la espugnazione dubitava quanto che intendeva, per diversi avisi, tutti del sangue longobardico essere in arme per venire ad assalirlo. Onde era per tornarsene indietro a li paesi suoi. Ora, ciò che nessuna forza poteva fare, il disordinato e libidinoso appetito de la scelerata e crudel nova Scilla figliuola di Niso, dico Romilda, aperse le porte de la città inespugnabile al crudelissimo nemico. Cavalcava uno giorno Cancano attorno a le mura de la città e fu da Romilda visto. La quale, veggendolo giovane bellissimo nel fiore de la età, con capelli crespi e barba rosseggiante, si fieramente in uno subito di quello si innamorò, che una ora le parea mille e mille anni che ne le braccia sue amorosamente ritrovare si potesse. Onde, scordatasi che il barbaro gli aveva il suo marito anciso, e gettato dopo le spalle l’amore che a li figliuoli era da la natura spinta a portare, mandò uno suo fidato cameriero a Cancano, promettendoli dar quella fortissima città ne le sue mani, mentre egli le desse la fede di sposarla per moglie. Il barbaro, che altro al mondo allora non desiderava che impatronirsi di quello luoco, largamente con fortissimi giuramenti le promise e giurò prenderla per moglie. Non diede troppo indugio a la cosa la malvagia Cernina-, ma la seguente notte introdusse il nemico dentro. Li figliuoli di Gesolfo, sentendo il nemico aver occupata la città, ebbero modo, fuggendo, di salvarsi. Cancano, impatronitosi de la città, acciò che in tutto non mancasse de la data fede, tenne per una notte seco in letto come sua moglie Romilda ; la quale non si poteva saziare degli abbracciamenti del re e si ¡stimava beatissima di cotale marito. Ma egli, conosciuta la insaziabile libidine di quella, levatosi la mattina, chiamò a sé dodici robustissimi de li suoi soldati e commandò che tutto quello di e la vegnente notte prendessero carnalmente piacer di lei, non la permettendo mai riposare. Dapoi vituperosamente, al modo turchesco, la fece impalare e miseramente morire, acciò fosse in esempio che non debbiano le donne preponere la libidine a la ragione né uno piacer carnale a l'utile e a l’onesto. A la fine saccheggiò il luoco, e andò NOVELLA Vili (IX) a ruba tutta la ricchezza, che già gli eruli, li goti e ultimamente li longobardi de le spoglie e saccheggiamenti de l’Italia per più di cento cinquanta anni colà dentro aveano, come in luoco sicurissimo, accumulate. Cacciò poi fora tutto il popolo e la città arse e di modo roinò e distrusse, ehe non si sa chiaramente ove tanta città fosse edificata, scrivendo gli scrittori molto variamente. A cosi miserando fine condusse si nobile e famosa città l’appetito disonestissimo di Romilda; né ella passò senza gastigo, come udito avete. IL BANDELLO al magnifico ed eccellente dottore di leggi pontificie e cesaree tnesser I.ODOVICO DANTE ALIGHIERI salute Era il clarissimo signore Giovanni Delfino, podestà di questa inclita città, avendo in compagnia lo splendidissimo e valoroso signor Cesare Fregoso, ge

Questa voce è stata pubblicata da Wikisource. Il testo è rilasciato in base alla licenza Creative Commons Attribuzione-Condividi allo stesso modo. Potrebbero essere applicate clausole aggiuntive per i file multimediali.