< Novelle (Bandello, 1910) < Parte IV
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Novella XXVII - Il Gonnella fa una Inula alla marchesa di Ferrara, e insiememente alla propria moglie: e volendo essa marchesa di lui vendicarsi, egli con subito argomento si libera
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IL BANDELLO

a monsignor

monsignor guglielmo lurio

signor di Lunga, senatore regio a Bordeos,

signor suo onorando

salute


Io mi persuado, monsignor mio osservandissimo, che ne li giudici, che tutto il di nel vostro Senato si fanno, si debbiano ne li casi criminali trovare molti eccessi enormi meritevoli di gastigo straordinario, sia pure tanto grave quanto che ogni crudelissimo tiranno imaginare si sapesse. E de la gravissima pena che si dá a le sceleraggini de gli ribaldi, che tutto il di fanno le sconcie e esecrabili cose, assai sovente in diversi luoghi di questo gran regno se ne veggiono chiarissimi esempi. E questo non ostante, tanta è la pessima malvagitá di molti, o venga da la loro per vizi corrotta natura, o vero da la viziosa educazione e nodritura che da fanciulli avuta hanno, o da che che si sia, che non si vogliono o non sanno — io non dirò mai che non potessero — ammendarsi. Con questi adunque non giovano le forche, non vagliono li ceppi e le mannare, non lo squartargli a brano e spesso arrostirgli, a modo di perdici e di altri augelletti, a fuoco lento. Onde dico che non si può metter loro una dramma di terrore, che non perseverino ogni ora operando di male in peggio, mercé del guasto e corrotto mondo, non solamente per la cristianitá, ma anco per le regioni degli infedeli. Ora io non so giá se da molti anni in qua tanto inaudito e orrendo caso sia stato dedutto al vostro parlamento, come qui si nomina il senato, quanto questo anno passato è in Fiandra dentro la famosa terra d’Anversa avenuto. 288 PARTI! QUARTA Il che non è molto che ci narrò qui a Bassens, a la presenza di madama Gostanza Rangona e Fregosa, Nicolò Nettoli, mercatante fiorentino. Veniva egli da Parigi per andare a Bordeos- e dimandato se nulla avea di novo, ci narrò l’istoria come era successa, ritrovandosi egli allora in Anversa. La cosa ci empi tutti di meraviglia e d'orrore. Io, per aggiungerla a le altre molte mie novelle, la descrissi, e subito mi deliberai al vostro generoso e dotto nome dedicarla. Non mi sono già mosso a mandarvela, perché io giudichi che la cosa sia degna del vostro , valore, ché non sono cosi poco giudicioso che io non conosca voi essere per nobilita di sangue riguardevole, per le cesaree, p0n- tificie e municipali leggi de la Francia dottore consumatissimo, per la esercitazione de li giudici peritissimo e segnalatamente | prattico e espertissimo e di ciascuna azione vertuosa ornatis- | simo. Che dirò io poi de la cognizione de le buone lettere latine i e del vostro facondo e castigatissimo stile, in cui pochi vostri | pari e nessuno superiore avete? Meritavate adunque, monsignor : mio, per le vostre native e acquisite rarissime doti e per l’amore J che di continovo verso di me a mille segni dimostrate, cosa assai più degna di cotesta. Ma chi altro non ha e dona ciò che | è in potere suo, cotestui molto dona. Aveva io questa iste ne la terza parte de le mie novelle mandata a Lucca a stani--] pare. Ma alcuni parenti di Simone Turco cittadino lucch non contenti che io avesse loro concesso che fosse stam; che esso Turco non fosse del vero legnaggio di quella famig fecero inibire a lo stampatore da quella eccelsa Signoria di Lu< che detta istoria non imprimesse, ¡stimando che a la famig loro molta infamia apportasse, quasi che il vizio di uno debbia] infamare uno altro che nel vizio non partecipi : la scelerata vita e pessimi costumi di Domiziano a la bontà di Tito punto no# nocquero. Essi nel vero di gran lunga si ingannavano, se devano che cosi segnalata sceleraggine come Simone Tu: in Anversa commise, luoco in tutta Europa anzi ne l’univ nominatissimo, potesse occultarsi. Il dottissimo Cardano nell libro De la suttilità de le cose con due righe ne fa menr e meritevolemente il vitupera. Ora che io ho d’Italia alq: NOVELLA XXVII (i) 2S9 mie novelle ricuperate, oltra molte che appo me erano, mi sono resoluto mettere la quarta parte di esse novelle insieme e darle forc, e fare che questa del Turco per ogni modo vi sia. Accettate adunque, monsignore, il mio picciolo dono con quello animo che io ve lo mando, e degnatevi tenermi ne la vostra buona grazia. Feliciti nostro signore Iddio ogni vostra azione, dandovi il compimento di ogni vostro disio. State sano. NOVELLA XXVII (I) Simone Turchi ha nemistà con Geronimo Deodati lucchese. Seco si riconcilia, e poi con inaudita maniera lo ammazza, ed egli vivo è arso in Anversa. Voi m'invitate, madama illustrissima e voi signori, che, essendo io venuto ora da la grande, popolosa e abondante di ogni cosa al vivere nostro non solamente necessaria, ma che ci possa recare giovamento, delicatura e piacere, la città, dico, di Parigi, che io voglia narrarvi alcuna cosa di novo. Ché in vero vi pare quasi impossibile di partirsi fora di Parigi, a chi ogni pochetto di tempo ci dimora, che egli non ne esca pieno di novelle. E lasciando per ora le nove di quella gioiosa corte che, come si scrive de l’Africa, sempre alcuna cosa ha di novo, né volendo dire de li maneggi, che adesso vanno attorno tra li nostri prencipi cristiani, e tanto variamente se ne parla da chi forse meno ne sa, io vi vuo’ dire uno pietoso e degno di compassione accidente, perpetrato con tanta sceleraggine quanta possiate imaginarvi. Questo caso è seguito tra dui mercanti de la gentile città di Lucca, colà ne la Fiandra, ne la nominatissima, molto ricca, mercantile e festevole terra d’Anversa. In quello luoco è quasi come uno mercato generale a tutti li cristiani de l’Europa e d’altrove, e vi è una maniera di vivere molto libera e vie più dimestica assai che in molti altri luochi. Ora tra l’altre dimestichezze che in Anversa sono, una ce ne è che ora vi narrerò. Costumano le figliuole da marito, come diventano grandicelle, per l’ordinario avere tutte alcuni giovani loro innamorati, li quali da esse si chiamano « servitori ». Quella dopoi è più ¡stimata che più ne ha. Quelli che le corteggiano e si M. Bandello, Novelle. 19 PARTE QUARTA dichiarano loro servitori, vi vanno ne le case liberamente tutto il di, e ancora che ci siano il padre e la madre, non cessano visitarle e corteggiarle e ancora starsi a parlar seco mattina e sera. Le invitano anco bene spesso a disinari e cene e, come qui si dice, a banchettare a diversi giardini, ove le fanciulle e giovanette, senza guardia di chi si sia, liberamente con gli amanti loro vanno; e colà se ne stanno tutto il di in canti, suoni, balli, mangiare e bere e in giuochi, con quella compagnia che l’amante averà invitata. La sera l’amante prende la sua signora e a casa di lei l’accompagna e la rende a la madre, la quale amorevolemente ringrazia il giovane del favore e onore che ha fatto a la figliuola. Egli, riverentemente baciata la fanciulla e la madre appresso, se ne va per li fatti suoi. Il baciarsi colà in ogni luoco e tempo è lecito a ciascuno. Questa vita fanno le fanciulle da marito. Ma come sono maritate, non è più lecito loro a fare amore con persona, almeno apertamente. Che ciò che poi le maritate facciano, io non ne sono stato molto curioso a investigarlo, essendo cose che in segreto si fanno. Ponno ora essere cerca quattordeci anni o quindeci, che in j Anversa era per nobilita, oneste ricchezze e dimestica e gentilissima prattica in grandissimo prezzo, e ancora è, ben che sia di età matura e non maritata già mai, la signora Maria Vervè, che è de le prime di Anversa. Ella per le sue bellezze e per la grata e piacevole sua conversazione e altre buone qualitati, | aveva più servitori e innamorati che qualunque altra fosse in I Anversa, perciò che fiammenghi, tedeschi, francesi, inglesi, ita- J liani, spagnuoli e giovani di ogni altra nazione, che in Anversa; praticavano, tutti le facevano il servitore e ogni di la cor giavano, onoravano e servivano; di modo che la sua casa pareva j di uno governatore del luoco, cosi da ogni tempo era dagli amanti frequentata. Filiberto prencipe di Orange, che fu gene-| rale de l’imperadore in Italia e mori ne la ossidione de la città1 di Firenze, fu uno de li suoi amatori, di modo che per quale tempo era generale openione che egli la devesse prender per ] moglie. Era in que’ tempi in Anversa Simone Turchi Iucche agente de li Buonvisi, mercanti famosi di Lucca. Prese egli 13 NOVELLA XXVII (l) 291 pratica de la signora Maria Verve cerca quattordeci anni sono, c cominciò con tanta assiduità a corteggiarla e servirla che mai non si partiva da lei, lasciando ogni altra faccenda da canto, di maniera che la signora Vervè mostrava averlo molto caro. Soleva ella in una sua sala, ove dimorava quando era corteggiata, tenere li ritratti dal naturale di tutti quelli che le facevano servitù- Onde ciascuno, come si metteva a fare seco l’amore, le mandava il proprio retratto, fatto per mano di nobile pittore, ed ella con gli altri in sala il faceva attaccare, e ve ne aveva più di quaranta. Dopo quattro anni che Simone Turchi era giunto in Anversa, Geromino Deodati lucchese ci andò anco egli con buona somma di danari, e colà a trafficare si fermò, e intrò in pochi di nel numero de li servitori de la signora Vervè. Quivi pigliò egli stretta conversazione con il Turchi, il quale, come detto vi ho, non era molto diligente a li negozi pertinenti a li Buonvisi. E avendo Simone bisogno di danari, ne richiese al Deodati, il quale in più volte li prestò cerca tre millia scuti. Intendendo li Buonvisi il mal governo che il Turchi aveva de le faccende loro, gli levarono di mano la ragione e il maneggio del tutto e più di lui non si volsero servire. Esso Turchi, da sé non avendo il modo di negoziare, se ne tornò a Lucca, per appoggiarsi ad alcuno mercatante che praticasse in Anversa. Avenne in quello medesimo tempo che il Deodati anco egli a Lucca se ne ritornò, acciò che ragguagliasse li suoi fratelli di quanto negoziato avea. E mostrando loro li suoi conti, si trovò che Simone Turchi era debitore di cerca tre millia scuti. Il perché fu Geronimo astretto da li fratelli che se facesse pagare e non perdesse più tempo. Andò il Deodati e, trovato Simone, li disse come non poteva saldare la ragione con li fratelli, se egli non pagava il debito de li danari a lui in Anversa prestati, come appariva per le cedule di mano sua. II Turchi si scusò a la meglio che puoté, e iva fuggendo il pagamento e prolungandolo d’oggi in dimane. Ora, stimolando li fratelli esso Geronimo che non badasse a le ciancie del Turchi, la cosa andò di modo che, avendo Geronimo prodotte le cedole in giudicio, fu Simone da’ sergenti di corte su la piazza di Lue 292 l’ARTE QUARTA sostenuto e posto in prigione. Fu adunque necessario, se egli volle uscire di prigione, che sodisfacesse al debito che col Deodati avea. E reputandosi essere fore di misura ingiuriato, cominciò ne l’animo suo generarsi uno fiero e inestinguibile odio contra Geronimo, ben che di fora via non si dimostrasse. Tuttavia non cessava di continovo investigare e imaginare alcuno modo e via per vendicarsi con danno infinito del Deodati. Fra questo tutti dui, ma non già di compagnia, tornarono in Anversa. E per essere tra loro già cominciata la nemistà, non si dimesticavano più insieme, come prima solevano; nondimeno erano assidui a lo corteggiare la signora Vervè. E parlandosi uno di tra molti di Simone e de le cose sue, Geronimo, come in dispregio di quello, disse che non sapeva ciò che il Turchi si potesse fare in Anversa, se non diventava « curatieri », che noi italiani com- munemente dimandamo « sensali », perché da lui stesso non aveva modo di negoziare, non avendo né danari né credito. Questa cosa accrebbe grandemente l’odio che il Turchi al Deodati portava, e fece come fanno li carboni da li mantici affocati, che, se l’acqua sopra gli è spruzzata, più si infuocano e prendeno maggior forza e vigore. E cosi di novo risvegliatosi l’odio del Turchi contra Geronimo, divenne vie più grande e più acerbo, ben che celato si tenesse. Diceva uno de li sapienti de la Grecia, che se si potesse vedere dentro il core de l’uomo e ciò che ne l’animo suo va farneticando e chimerizzando quando è irato e tutto intento al vendicarsi e pieno di mal talento, che proprio si vederia uno ardente vaso, come una olla piena quando gran fuoco le è acceso sotto e, raggirandosi sossopra, l’acqua ardentemente bolle. Cosi andava sossopra l’animo del Turchi, e ora una cosa pensava e ora una altra, travagliando tuttavia; e tutti i pensieri suoi erano pure a morte e roina del Deodati. Dissimulava però, come uno altro Simone, il suo pessimo animo e fora di ogni misura arrabbiata volontà di fare del male, ej diceva che Geronimo si ingannava, perché egli era ben buono a negoziare da sé. E perseverando tutti dui con molti altri a; corteggiare la signora Vervè, a poco a poco cominciarono a', repacificarsi, e pareva che fossero divenuti buoni amici. Essa¡ NOVELLA XXVII (l) 293 signora Verve, a ciò che apertamente dimostrava, faceva più favore al Turchi che agli altri, o fosse che più le piacesse o perché largamente quanto aveva le donava; ché in effetto egli vi spendeva assai e più che il grado suo non comportava. Credevano alcuni che Simone godesse del suo amore, secondo che gli uomini sono più facili a credere il male che il bene. E per dire ciò che io ne udii essendo in Anversa, tutte erano sospezioni di invidiosi e maldicenti. Ora, che che se ne fosse cagione, il Turchi tanto seppe dire e fare e si bene cicalare che persuase essa signora e le fece vendere una parte de li suoi beni e mettere li danari in banco a guadagnare, mostrandole con efficaci ragioni il gran profitto che ne caverebbe. Si lasciò ella consigliare e pose in vendita del suo per quattro o cinque millia scuti, e tutto, avuto contanto, diede in mano al Turchi. Simone, avuta questa buona somma di danari, fece compagnia con Vincenzo Castrucci lucchese e cominciò fare qualche traffico. Ma per potere meglio corteggiare la signora Vervè, lasciò la cura del banco a Gioseffo Turchi suo nipote. Durò la detta compagnia cerca tre anni, e per la morte del Castrucci si disfece. In que’ tempi, essendo Simone reintegrato assai, per quanto appareva, ne l'amicizia col Deodati, non dopo molto esso Turchi il richiese che fosse contento prestarli tre millia scuti per ispagna. Il che Geronimo, che andava buonamente e, come si dice, a la carlona, fece molto volontieri, e al tempo statuito ne ebbe il debito pagamento. In questo mezzo il Turchi fece compagnia con i Gigli lucchesi, che in Anversa avevano banco, e di giorno in giorno Geronimo aspettava la moglie che presa avea, che era figliuola di Gian Bernardini nobile lucchese; e tuttavia andava a visitare la signora Vervè, che li faceva assai buona accoglienza, trattandolo da amico e non da servitore, poi che intese lui avere presa moglie. Venne essa signora Vervè, non so come, in non picciola sospezione che le cose del Turchi non andassero troppo bene, veggendolo attendere negligentemente a li maneggi de la mercatanzia, e temeva assai de li danari che ne le mani dati gli aveva a trafficare. E essendo stata avertita da alcuni de la nazione 294 PARTE QUARTA lucchese e anco da altri, stette molti di sospesa tra due di fargliene motto. A la fine ella si deliberò parlare col Deodati e seco consigliarsi, e pregarlo caramente che in questo le dicesse il parer suo e ciò che egli, trovandosi a tale terniine, ne farebbe. Onde uno di con molte parole, in segreto seco ragionando, gl¡ aperse l’animo suo; a la quale Geronimo in questa guisa rispose: — Signora mia, perché voi la vostra mercé ricercate in questo vostro urgentissimo caso il parere mio, a me parrebbe commettere uno grandissimo errore se io liberamente, essendovi quello leale e fedelissimo servitore che vi sono stato e sono, non vi dicesse quanto a me sinceramente ne pare che ricerchi l’utile vostro, e quanto io, se mio interesse fosse, ne farei. Voi mi affermate che molti de la nazione mia e altri ancora vi hanno avertita che voi debbiate assicurarvi de li danari vostri che al Turchi commessi avete. Io sono certamente de lo ¡stesso parere, e quanto più tosto, tanto meglio. Onde una de le due cose vi consiglio che debbiate fare, cioè che vi facciate dare essi danari, o vero che li Gigli, mercatanti reali e da bene, tutta la somma di essi, col guadagno seguitone questi anni, riconoscano da voi. — Piacque sommamente il savio consiglio a la signora Vervè e si deliberò metterlo in esecuzione. Onde, presa la opportunità, scoperse a Simone il desiderio suo, dicendoli che a questo era stata consigliata da molti, e massimamente da’ lucchesi. E per quanto affermano alcuni, ella nominò il |~ Deodati. Errore invero grandissimo è nessuna cosa, che essere debbia segreta, dirla a donne, perché in effetto il più di loro male sanno tacere, ove elle veggiano nulla di profitto. Onde Catone Censorino soleva dire di nessuna cosa aversi più da dolere che se cosa alcuna, che devesse essere tenuta segreta, I l’aveva a una donna detta. Si sa che ordinariamente quasi tutte le donne sono ambiziose e si persuadeno tutte di saper vie più di ciò che sanno, e tutte bramano essere credute che siano di grandissimo governo; e spesse volte alcune di loro si lasciano uscire di bocca che, se avessero la bacchetta in mano, che saperiano assai meglio reggere uno stato che gli uomini. E io voglio credere che tale volta dicano il vero, a la barba NOVELLA XXVII (i) 295 di molti uomini di cosi poco ingegno e poca capacità ne le cose vertuose, che non vagliono l’acqua che essi logorano a lavarsi le mani. Ma io non vuo’ ora entrare a sindicare né gli uomini né le donne, con ciò sia che mia madre fu donna e io sono nato uomo. Bastivi per adesso dire che Geronimo non fece troppo bene a dir male del Turchi a la signora Vervè, perché non poteva esortarla a levare i danari de le mani a quello, se non perché male li governava, e non era sicuro, e cosi il vituperava come uomo che non sapeva governarsi. Ma da l’altra banda fece male e peggio la donna a dicelare a lo Turchi chi fosse stato colui che consigliata l’avea. Era bene assai averli detto che alcuni mercatanti, uomini da bene, l'avevano avertita ad assicurarsi del suo, e non venire a particolare nessuno. Questo tanto ve ne ho voluto dire per ciò che, reputandosi il Turchi essere offeso per la pregionia di Lucca e in Anversa poi, allora che Geronimo disse che non sapeva ciò che quello potesse fare se non diventava sensale, ancora che reconciliato si fosse, avendo nondimeno deliberato tra sé farne la vendetta, l’essere poi stato servito de li tre millia ducati per Ispagna, aveva di modo addolcita l’acerbità de l’odio antico che quasi era in tutto estinto, secondo che esso Simone, devendo essere arso, confessò. Ma questa ultima ingiuria, che egli grandissima e acerbissima ¡stimava, fu cagione di svegliare e riaccendere in modo le sopite fiamme de la vecchia nemistà, che al tutto Simone si propose levarsi Geronimo dinanzi dagli occhi, avenissene poi ciò che si volesse. Arrogi a questo che egli in questa mala ope- nione si confermava tanto più, quanto che alcuni di innanzi, andando di notte attorno, gli era stato fatto in viso da uno suo nemico uno brutto sfregio; onde credeva che Geronimo fosse stato colui che l’avesse ferito. Ma di gran lunga si ingannava, come dapoi si discoperse e si venne in cognizione di colui che sfregiato l’aveva. Voi devete sapere, per dirvi ciò che da molti degni di fede intesi, che Simone era uomo di pessima natura e di malissimi costumi, e tra l’altre sue taccherelle aveva la più mordace e velenosa lingua che si sentisse già mai. Onde per mettere discordia tra dui amici era artefice meraviglioso, 296 PARTS QUARTA e ordiva si maestrevolemente gli ingannevoli lacci suoi che li faceva parere verisimili. E insomma egli era una sentina di ogni vizio e malignità, e secondo che del male del prossimo ciascuno condolere si deve e del bene di quello rallegrarsi, egli faceva tutto il contrario. Lodava molto le crudelitati fatte da diversi tiranni e cercava d’imparare il modo di fare alcuna crudeltà. Aveva poi sempre in bocca non essere al mondo cosa di maggior dolcezza che de le ricevute ingiurie prendere crudelissima vendetta. Essendogli adunque questo strano ghiribizzo di vendicarsi entrato in capo, deliberò di ancidere Geronimo e farne si memorabile strazio, che in memoria d’uomini se ne parlasse; e sovra il tutto vendicarsi di modo che da la giustizia non potesse essere offeso, e nondimeno restasse negli animi di tutti che egli fosse stato l’autore de l’omicidio. Fatta questa iniqua e ferma deliberazione, gli occorse in mente di usare il veleno; ma non sapendo come ne potesse avere che non si fosse saputo, si levò da cotale pensiero, come difficile e periglioso, e conchiuse tra sé col ferro fare l’effetto. Ma perché era poda- groso e debole de le braccia e de le mani, conosceva le sue forze non essere gagliarde a perpetrare l’omicidio, e che era necessario avere compagno in simile effetto. Lasciava egli la cura del banco, come detto vi ho, a Gioseffo suo nipote, del quale non si volle confidare. Onde si rivoltò a uno servitore che teneva, che era romagnuolo, chiamato Giulio, al quale disse di voler ancidere il Deodati. Il perfido e scelerato romagnuolo, che era simile di natura al Turchi, si offerse di far tutto. Li Gigli per onorare Simone, non conoscendo la sua malvagia natura, avevano in quei giorni datogli il compimento del banco e mandatogli sovra ciò la carta di procura. Il perché Simone, come procuratore de li Gigli, fece fare a nome di quelli, per mano di notaro publico, una scrittura, come li Gigli riconoscevano da la signora Vervè quella somma di danari che ella al Turchi data aveva del che ella rimase sodisfatta. Ora, crescendo il desiderio nel Turchi ogni di più di ammazzare Geronimo, avenne uno di che, essendo egli in casa di una cugina de la signora Vervè, vide una strana foggia di una sedia, la quale, NOVELLA XXVII (l) 297 come l’uomo su vi sedeva, subito il fondo di quella si calava in giù, e tantosto da le parti dinanzi, ove l’uomo suole appoggiar le braccia, uscivano dal legno fora duo ferri grossi e forti, li quali discendevano tra le CQseie del sedente per si fatto modo, che l’uomo vi rimaneva talmente inchiavato, che non si poteva movere né a patto veruno uscirne fora, se non ci era la sua propria chiave. Cotesta sedia si fece prestare il Turchi e la fece portare a uno giardino che teneva, ove spesso banchettava la signora Vervè e altri. Avendo dunque deliberato prevalersi de la detta sedia, uno di parlando col Deodati, li disse che al suo giardino egli aveva li più belli cavoli fiori che mai in Anversa si fossero veduti. Geronimo li domandò se ne poteva avere per mettere anco egli nel suo giardino, cui il Turchi rispose che venisse quando voleva, e che ne sceglierebbe quelli che più li piaceriano. Ora non si curò il Deodati altrimenti andarvi, impedito forse da altri negozi. II che veg- gendo Simone, uno giorno disse di assai buono mattino al Deodati: — Gieronimo, egli è venuto da Lione uno mercatante, che non vuole per ora essere conosciuto in Anversa, e si è retirato al mio giardino. Egli per me ti prega che tu venga fino là, ché ti ha da parlare di cose di grandissima importanza. — Credette Geronimo al Turchi e disse di andarvi. E cosi, subito che ebbe disinato, solo vi andò. E non trovandovi il mercatante, dimandò ove fosse. Il Turchi rispose che era ito in uno suo servigio, ma che tantosto ritornerebbe. Si misero tutti dui a passeggiare per la sala terrena, ove la ingannevole sedia era posta. In quello intrò il ribaldo romagnuolo e disse loro che il mercatante veniva. E veggendo che il Deodati era vicino a la artificiosa sedia, non vi mettendo mente egli, il prese di peso e lo mise dentro quella a sedere. Credeva Geronimo che il romagnuolo scherzasse, ma non fu si tosto assiso che si senti d'ogni intorno essere inchiavato e prigione; e quasi fora di sé, non sapeva che dirsi. Usci lo scelerato romagnuolo fora de la sala e serrò l’uscio de la stanza. Stava il Deodati come trasognato, quando il traditore Turchi, preso uno pugnale pistoiese che colà aveva messo, disse: — Geronimo, tu ti devi ricordare de 29S PARTE QUARTA le gravissime ingiurie che a Lucca e qui mi hai fatte. Ora non siamo a Lucca, ove tu possa farmi incarcerare. Tu sei in mio potere. O tu ti delibera farmi uno scritto di tua mano del tenore che è questo da me scritto, o io con questo pugnale ti levo la vita. — Lesse il misero Deodati lo scritto, per lo quale si confessava debitore di alcune migliaia di scudi al Turchi, e disse che ne faria uno simile, e di propria mano ne fece uno e lo sottoscrisse, facendo la data di alcuni mesi innanzi. Ci sono molti che affermano lo scritto essere stato di altro tenore, cioè che Geronimo confessava avere proceduto malignamente contra il Turchi a Lucca ed essere stato egli che sfregiato lo avea su il viso, acciò che paressi che esso Turchi avesse giusta cagione di ammazzarlo. Ma sia come si voglia: può essere l’uno e l’altro. Avuto che ebbe il Turchi lo scritto e ripostolo in seno, cacciò mano al pistoiese e diede su il capo al Deodati una ferita. Ma perché era debole, lo feri alquanto su la testa e in una guancia. Il misero Geromino dimandava con pietosa voce: — Mercé, per Dio! mercé! non mi ancidere! —, II Turchi, o si movesse a pietà o non si sentisse forte, che più si crede, o che che se ne fosse cagione, gettato il pugnale in terra, se ne usci fora; e trovato Giulio che l’attendeva, li disse: — Io gli ho data una ferita, e non mi dà il core di occiderlo. Che faremo noi? — Che faremo? — rispose il ribaldo roma- gnuolo. — Poi che, padrone, siamo intrati in ballo, egli ci conviene ballare e ammazzarlo, altrimenti, se il fatto resta cosi, egli ci farà morire noi. — Va’ dunque tu e levali la vita — soggiunse il Turchi. Giulio allora, che deveva in Romagna, per quelle loro maladette parzialità, ove ammazzano sino i fanciulli ne la culla e per le chiese, devea, dico, essere stato a cento omicidii, intrò dentro in la sala, e preso il pistoiese, andò a la volta del sfortunato Deodati. Il quale, come vide venirselo addosso, pietosamente li disse: — Deh, Giulio, per l’amore di Dio, non mi ancidere! Io già mai non ti offesi. Se tu quindi cavare mi vuoi, io ti farò or ora uno scritto di mia mano di dui o tre millia ducati, e di molti più, se più ne vuoi; e ti prometto la fede mia di non mai offenderti né in detto né in fatto. — NOVELLA XXVII (i) 299 E volendo altre parole dire, il crudele romagnuolo gli diede su il capo una mortale ferita e due e tre pugnalate nel petto, di maniera che lo sventurato Geronimo miseramente se ne morio. Fatto cosi orribile omicidio, Simone intrò dentro e, da Giulio aiutato, dischiavò la sedia e cavò il cadavero fora. Tutti dui poi. noi potendo portare, lo strassinarono per terra fino dentro la cantina, e quivi in uno cantone il sepellirono. Andarono poi a fare i fatti loro cosi lieti e con buoni visi, come se avessero fatta una lodevole e santa impresa. La sera fu indarno da li suoi aspettato Geronimo a cena e a letto. Il giorno seguente poi, non comparendo Geronimo da nessuna banda, fu cagione che per Anversa molte cose si dicessero. Erano li dui luoghi- tenenti giudici, il civile, dico, e il criminale, cugini de la signora Vervè, e di tutti e dui il Turchi era forte dimestico, e spesso erano soliti familiarmente di mangiare insieme. Il perché esso Turchi, il secondo giorno dopo il perpetrato omicidio, andò a cena col luogotenente civile, per spiare ciò che del Deodati si diceva. Onde venendo a parlare de l’occorrenza del caso, e che gran cosa era che non si trovava indizio veruno di Geronimo ove fosse andato, disse il Turchi: — Egli si vuole, signore mio, usare ogni diligenza per vedere, se possibile è, di spiare alcuna cosa di lui. — Noi avemo — soggiunse il giudice — oggi conchiuso in consiglio di ricercare dimane tutti gli orti e le case che sono a la tale banda, ove anco io ho il mio giardino, e non mancare di investigare per ogni luoco ove egli era uso di bazzicare. — Simone disse che era benissimo fatto, e li pareva una ora mille anni di partirsi. Cosi, cenato che si fu, trovate alcune sue scuse, si parti, e come fu a casa, a Giulio disse: — Egli, Giulio, ci conviene avere gli occhi di Argo e provedere che questa notte facciamo di modo, che dimane non siamo còlti a l’improviso. — E li disse la deliberazione che in consiglio si era fatta. Poi li soggiunse: — Tu sai che la sedia ancora è piena di sangue. Egli bisogna che adesso adesso tu te ne vada al giardino e che tu lavi molto bene essa sedia, di modo che non ci rimanga una minima gocciola di sangue. Medesimamente la parete del muro, ove essa 3oo PARTE QUARTA sedia era appoggiata, secondo che i! sangue su vi è spruzzato, ne è tutta schiccherata. li perché ancora il muro bisogna nettare, e guardare bene e minutamente per lo mattonalo se, quando noi strascinavamo il corpo a la cantina, le piaghe insanguinarono il luoco, acciò non vi si veggia uno minimo segnaluzzo di sangue. Ché questo avermi detto di voler ricercare tutti quelli luoghi, mi fa dubitare che non ci sia qualche indicio o sospetto del fatto, o vero che la mente del giudice non sia presaga del caso. Fatto tutto ciò che ti ho detto, e' ti conviene poi dissotterrare il corpo e prenderlo in spalla e gettarlo dentro il pozzo, che è su la crociata de le tre vie. La notte sarà buia, e nessuno a quella ora va per la strada. E cosi verremo ad assicurare i casi nostri. — Giulio rispose che farebbe il tutto con ogni diligenza, eccetto che non li bastava l’animo di poter portare quello corpo, perciò che era di troppo gran peso, e che si ricordasse che allora che lo sepellirono, che a pena tutti dui di brigata il potevano per terra strascinare. — Orsù — soggiunse Simone, — va’ e fa' il resto in questo mezzo, e io ti manderò poi il Piemontese, e gli imporrò che egli faccia quanto tu li dirai. Ma avertisci, come averete buttato il corpo nel pozzo, se tu puoi con inganno fare che il Piemontese caschi dietro al corpo. Il pozzo è molto profondo, ove egli, cascandovi dentro, resterà in uno tratto suffocato. E se per sorte la cosa non ti reuscisse, tu sai che egli non porta arme ed è più vile assai che uno coniglio. Cingeti a lato il pistoiese e con quello ammazzalo, e lascialo colà su la strada. E chi sarà che possa presumere che egli da noi sia stato morto? — Ora vedete se questo Turchi era scelerato in cremesino, che non, li bastando avere crudelissimamente assassinato e morto il povero Deodati, adesso voleva che si occidesse il Piemontese, che era un altro suo servitore e da lui non era offeso. Fatto adunque accordio cotale con Giulio, esso Giulio andò di lungo a nettare e purgare la casa, si come gli era stato imposto. Simone poi, quando il tempo li parve opportuno, chiamato a sé il Piemontese, li commandò che allora andasse al giardino e tutto quello facesse che Giulio gli ordineria. Andò il Piemontese e, picchiato a l’uscio e NOVELLA XXVII (i) 301 fattosi, parlando, conoscere chi era, fu da Giulio introdutto. Aveva Giulio uno lume in mano, e andando innanzi, disse al Piemontese che lo seguitasse. E di già si era ¡spedito di purgare la sedia e lavare per tutto il sangue, e quasi dissotterrato il cadavero. Come furono nel vólto del vino, Giulio, messo su una panca il lume, disse: — Piemontese, aiutami a cavare questo corpo fora di questa fossa. — Oimè — rispose egli, — che morto è cotesto? — Non ricercare più innanzi — li gridò Giulio, — ma senza far più motto aiutami, ché io vuo’ che lo portiamo al tale pozzo e dentro ne lo gettiamo. — Il Piemontese, che era buono uomo e timido e conosceva il romagnuolo essere di pessima natura e bravo e manesco, fece quanto quello voleva. E cosi cavarono fora il corpo, il quale subito al volto e ai panni fu dal Piemontese per lo corpo del povero Deodati riconosciuto. Del che forte si meravigliò, ma nulla fu oso dire. Preso adunque il cadavero, uno per li piedi e l’altro per lo capo, uscirono del giardino. Come furono fora de la porta, lasciò il Piemontese cascare in terra il corpo e si diede, quanto le gambe il portavano, a pagare di calcagni e via fuggire; di modo che Giulio, còlto a l’improviso, non fu si presto a seguirlo, come l’altro era stato a prendere l'avantaggio. Vi corse dietro buona pezza Giulio, ma per l’oscurità de la notte perdutane l’orma e più non sentendo la pesta di quello, se ne tornò al giardino e fece ogni prova per portar il morto al pozzo, ma non fu possibile. Onde strassinatolo in casa, che non era quattro braccia fora de la porta, e serrato l’uscio, tutto sbigottito e di malissima voglia, andò a trovare Simone e li narrò quanto era seguito. Restò il Turchi quasi disperato e non sapeva che farsi, veg- gendo la manifesta sua roina. Giulio allora in questa forma a parlar cominciò: — Io non so ove questo poltrone Piemontese sia ito. Ma poi che egli sa che io ho dissotterrato il corpo di Geronimo, che senza dubbio averà riconosciuto, io resto in pericolo de la vita. A me pare essere necessario che io me ne vada con Dio, perché se il Piemontese mi accusa, essendo io fuggito e voi restando qui, sarà aperto indicio che non voi de la morte di Geronimo, ma io sono il colpevole. — Parve 302 PARTE QUARTA al Turchi che il consiglio del romagnuolo fosse buono. 11 perché li diede tutti quelli danari che in borsa avea, e di più due catene d’oro che ne la tasca si trovò, che potevano essere di peso di trenta in trentatré scudi l’una; e li promise che ovunque andasse, sempre lo soccorreria di danari. Giulio, ne l’aprire de le porte, de la terra se ne usci e andò a la volta di Acquisgrani. Il Piemontese andò tutta la notte errando ora qua e ora là, tra sé chimerizzando ciò che devesse fare. Simone, pieno di vari pensieri, né poteva dormire nc sapeva che farsi. Deliberò più volte, come veniva il giorno, fuggirsene; ma li pareva poi che si faceva sospettissimo e colpevole del perpetrato omicidio, e che essendo andato via Giulio, che era più sicuro a restare. Il Piemontese, come fu di, andò a trovare quelli del Deodati e narrò loro ciò che gli era accaduto. Il che, non so come, subito fu raportato a Simone. Egli, inteso questo, andò a casa il luogotenente criminale e li denonziò come inteso aveva che Giulio suo servitore avea anciso il Deodati e fuggito via. Il luogotenente, avuta questa informazione, se ne andò a trovare uno suo zio, uomo vecchio e ne gli giudici molto pratico, che gli aveva rinonziato l’ufficio del luogotenente, e li disse ciò che de la morte del Deodati gli era stato denonziato. Li dimandò il vecchio se avea ritenuto il Turchi. Egli disse di no. Di che il zio agramente il ripigliò e gl’impose che subito il facesse sostenere. In questo mezzo quelli di Geronimo, inteso il gravissimo e nefando caso, andarono a trovare alcuni de la nazione loro, amici di Geronimo, per consultare ciò che fare deveano in questo caso; di modo che per Anversa l’atrocità del nefario assassinamento cominciò divolgarsi. Il luogotenente criminale mandò subito per Simone, al quale, come fu giunto, commandò che di quella casa più non si partisse. Egli rispose che saria ubediente. Notò il giudice che il Turchi, avuto il commandamento, tutto si cangiò in viso, e sospettò non mezzanamente di lui che fosse colpevole. Avea Simone ne la tasca lo scritto di mano di Geronimo. Presolo adunque, si accostò al fuoco che in la caminata ardeva, e ve lo gittò dentro. Il luogotenente, veduto questo atto, il dimandò che cosa egli avesse arsa, ed NOVELLA XXVII (i) 303 ebbe per risposta che era uno poco di carta che non montava nulla. Mentre che questo si faceva, vennero gli amici del Deodati e con loro condussero il Piemontese, il quale, segretamente dal luogotenente esaminato, li narrò .di punto in punto quanto gli era occorso. Egli disse agli amici del Deodati che stessero di buono animo e che si faria tutta quella giustizia che cosi enorme caso ricercava. Tenne appo sé il Piemontese, il quale, poi che gli altri andarono via, fece venire viso a viso col Turchi. Non seppe Simone negare che non avesse commandato al Piemontese che andasse al giardino e ubedisse a Giulio; ma che ciò fece, perché Giulio gli avea detto che bisognava movere alcune lettiere e accomodare, che solo fare non poteva. Nondimeno egli cosi freddamente il diceva, che diede grandissimo sospetto di sé. Il perché fu ristretto in carcere. Rimase il Piemontese in casa del giudice. Si mandò a pigliare il cadavere del Deodati e fu messo innanzi al Turchi, più per sodisfare a molti che dicevano che, se Simone l'avesse anciso, che le piaghe stillariano sangue. Ma questa openione è poco vera, e tanto più nel proposito nostro, quanto che già in quello corpo non ci era rimaso più sangue. Fu interrogato il Turchi se conosceva di chi fosse stato quello corpo: rispose che li pareva quello del Deodati. Congregato il lor consiglio, li giudici disputarono ciò che era da fare cerca il Turchi, se potevano darli tormenti o no. Ed essendo vari di openioni, procedevano lentamente, parendo a molti che non ci fosse indicio a la tortura. E andando il fatto alquanto in lungo, Giulio, che era in Acquisgrani, si deliberò mandare uno messo in Anversa, si per avisare il Turchi dove era e si ancora per farsi portare alcuni panni che teneva in Anversa in casa di una meretrice sua dimestica. Onde scrisse a Simone come era in Acquisgrani e che, se era interrogato de la morte di Geronimo, che rispondesse che nulla ne sapeva e che essendo il corpo trovato nel suo giardino, che fermamente credeva che Giulio fosse stato il malfattore; del che il fuggire di lui ne dava indicio apertissimo. Fatta questa lettera, informò uno contadino come si devea governare a trovare il Turchi, e lo mandò in Anversa. Andò il contadino, e scordatosi il nome 304 PARTE QUARTA del Turchi, né sapendo leggere, e investigando di quello, non so come, nominò Giulio romagnuolo. E perché si diceva per tutto che il romagnuolo a vea assassinato il Deodati, vi fu uno borghese, dimestico del giudice criminale, il quale condusse il contadino a casa il giudice. Quivi il povero uomo, esaminato, diede la lettera al giudice che portava al Turchi. Letta il giudice la lettera e tornato di novo ad esaminare Simone, lo fece porre al tormento. Ma lo scelerato Turchi, secondo che era stato animoso a far morire Geronimo, piagnendo come uno sferzato fanciullo, il suo assassinamento, senza aspettar tortura, timidissimamente confessò. Fatto il giuridico processo e dal reo ratificato, fu data la deffinitiva sentenzia e fu il Turchi condannato a essere arso publicamente su la piazza d’Anversa a fuoco picciolo e lento. Intesa che ebbe lo sciagurato Turchi la crudelissima morte che deveva sofferire, stette buona pezza come di sé fora, e quasi come disperato, non si sapeva disporre a morire, e pur sapeva essere necessario che in brevi morisse. Li fu mandato per disporlo a confessarsi e pazientemente sofferire la meritata morte in parte di sodisfazione de li suoi peccati, per la vertù de la passione del nostro Redentore; li fu, dico, mandato uno frate di santo Francesco, italiano, uomo di buonissimi costumi e molto eloquente. Egli, con l’aita del nostro signore Iddio, li predicò di modo e si ferventemente l’esortò che il povero Turchi si confessò generalmente con grandissima contrizione, e si dispose patire la morte con tutta quella pazienza che fosse possibile. Lo pregò il santo frate che quando saria arso e che egli dicesse: — Simone, ora è il tempo de la penitenzia, — che volesse rispondere: — Si, padre. — Promise il Turchi di farlo. Fu al determinato giorno inchiavato Simone su 1’¡stessa sedia ne la quale era Geronimo stato anciso e, posto su uno carro, fu per tutte le strade di Anversa condutto, e sempre era seco il buono frate, che l'andava confortando. Ma come si giunse a la piazza, fu deposta la sedia con Simone dentro inchiavato,, e da li ministri de la giustizia attorno li fu acceso il fuoco non molto grande. E cosi andavano aggiungendo de le legna secondo che bisognava, tuttavia perciò di modo che il NOVELLA XXVII (i) 305 fuoco non divenisse troppo veemente, ma tale che a poco a poco, per maggior sua pena, il misero Turchi si arrostisse. Gli stava messer lo frate tanto vicino quanto da l’ardore del fuoco gli era concesso, e assai sovente dicea: — Simone, ecco il tempo fruttuoso de la penitenzia. — 11 povero uomo, fin che ebbe lena di parlare, sempre rispose: — Si, padre. — E per quanto egli si può per gli atti esteriori giudicare e comprendere, dimostrò il povero Turchi una grandissima contrizione e pazienza, e prese in grado si acerba e vituperosa morte, come era quella che lo sfortunato sofferiva. Come poi lo conobbero morto, prima che si finisse di essere dal fuoco in tutto disfatto, presero il mezzo arso corpo e lo portarono fora de la terra e il misero sovra una alta trave incatenato con catene di ferro, e li cinsero a lato il pugnale pistoiese col quale il Deodati era stato morto. Piantarono poi la trave in terra ben fondata su una corrente e maestra strada, acciò fosse da tutti veduto di che vituperosa morte fosse stato punito colui che il tale omicidio avea crudelemente commesso. Ora a me giova di credere che, trovandosi il misero Simone pentito de li peccati suoi e, come si dimostrò, ben disposto a morire, poi che necessario gli era essere morto, che poco si curasse di qualunque morte finisse la vita, pur che senza vergogna e vituperio fosse stato morto; con ciò sia cosa che non la qualità del supplicio, ma la cagione è quella che rende la morte abominevole e ignominiosa. Può bene la vertù onorare qualunque sorte di morire; ma la morte, in quale modo si sia, non può ne la vertù porre macchia alcuna già mai. Quando il contadino, che Giulio mandò con la lettera, fu dal giudice sostenuto, mandarono li magistrati d’Anversa uno ambasciatore in Acquisgrani al magistrato de la giustizia per avere il perfido romagnuolo e acerbamente punirlo. Ma quelli signori noi volsero dare; e acciò che non restasse la sua sceleraggine impunita, fecero prendere esso Giulio, il quale confessò l’omicidio come era seguito. Onde, avendoli fatto scavezzare le braccia, le coscie, le gambe e rotto il petto, lo tesserono in una ruota, ove fra dui di meritamente se ne mori. Ma per ultimare, si può dire che chi ben pensa la fine de le azioni sue, di rado M. Bandello, Novelle. 20 306 PARTE QUARTA opera male; e chi non ci pensa, vive e more come una bestia. Onde si può affermare questa nostra vita essere uno fluttuante oceano pieno di ogni miseria. Mi piace anco di dirvi che messer Gioanni il Biondo, che tradusse di latino in francese le croniche del Carione, ne le addizioni sue fa brevemente menzione di questo orrendo caso, nominando Simone Turchi e Geronimo Deodati; acciò non si creda che io solo narri questo esecrabile assassinamento.

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