< Novelle lombarde (Cantù)
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Agnese, o la veglia di stalla Il Ritorno

GIOCONDA


Io non passava mai da..... nel condurmi alla fiera di Bergamo (così mi narrava un buon mercante) che non mi fermassi un tratto a far posata a quella bettola, posta all’estremità delle abitazioni; e mentre il cavallo rodeva una manciata d’avena, io dava una volta, come si suole, per la cucina, ad osservar la gente che veniva a bere il fiasco e godersi una zuppa. Ma sovra tutto piaceami osservare l’allegra sveltezza della Gioconda, figliuola dell’ostiero; una giovinetta di sedici in diciotto anni, bella di quella bellezza vivace, che distingue le brianzuole, con certi occhi neri sgranati, due guance come melerose, contornate da nerissime ciocche di capelli, fra i quali appuntava per lo più un garofano, che non la vinceva in freschezza e in quell’incarnato pieno di serenità. Ed era una gioja il mirarla pronta, attenta, con garbo, dar recapito agli avventori, eseguire i comandi a modino, sciaguattar i bicchieri, pillotare l’arrosto, ricever al banco, rendere l’avanzo, rispondere alle domande tra franca e modesta, tanto che tutti diffilavano volentieri a quella osteria. Quando poi le occupazioni domestiche le lasciassero un respiro, l’avreste veduta a far un bello spicco fra le camerate; baliosa, giuliva, cantare, ballare, ridere di quel riso spensierato che si disimpara a vent’anni. Onde i paesani dicevano che la stava appunto il nome di Gioconda; e suo padre e sua madre andavano in solluchero al mirarla, al sentirla lodata, all’udire da tutti esclamare ch’ell’era la vita di quell’osteria.

— Ella sarà (mi dicevano) il conforto di nostra vecchiaj a. È proprio la nostra man diritta. Se non ci fosse lei, come si potrebbe continuare così fiorito il negozio?»

Una volta notai ch’essa faceva gli occhietti ad un garzonotto, che seduto in capo al desco, centellava una mezzetta; ed una vicina (le vicine san tutto) m’informò come quello fosse il damo della Gioconda; un giovane di propositi, soggiungeva, il più savio figliuolo che si possa incontrare a dieci miglia: attento a’ fatti suoi: sortisce seta e guadagna di bei denari; ha una casetta; comprò poc’anzi un poderuccio, che governa in casa; e vuole sposare la Gioconda, e n’ha già passato parola ai parenti di lei, che non poteano desiderar di meglio. Se la cosa va, la Gioconda può segnarsi col gomito: e lo merita, perchè anch’essa è viva sì, ma buona, buona davvero.

L’anno appresso ripassando, trovai l’ostina sparuta, intristita; non pareva più dessa. Dava in parte agli avventori, ma non più colla gaja ed ingenua alacrità di prima. Dall’altra banda, sopra un canto di tavola, stavasi quel giovane setajuolo, anch’egli sovra pensiero; mangiava un boccone, ma che pareva fargli nodo alla gola; sospirava; sorso la sua mezzina, poi se n’andò senza fare parola.

— Gioconda (diss’io alla fanciulla), m’avete cera di non essere del solito umore».

E la Gioconda, alzando una spalla, e balestrando certi occhi insoliti, mi voltò il dorso dicendo, — Ella ha buon tempo».

Incuriosito cercai la vicina. E questa, — Oh (mi disse) quanto è mutato ogni cosa! La Gioconda stava per diventare felice; tutti le avevano invidia; quando la tristarella cominciò a dar ascolto ad un cervello svolazzatojo che villeggia qui presso, e che capita sovente da queste bande per cacciare alle beccaccie. Egli non ha nulla da fare, onde ogni tratto è qui; s’ella va a messa, c’è; al mercato c’è. E porta la giubba; veste a smanceria, spesucchia, e non ha i calli alle mani, e sa darle pasto di paroline melate, che i nostri campagnuoli non conoscono. Ma quelle dei campagnuoli sono parole sincere come l’acqua: le altre chi sa? Fatto è che alla Gioconda venne a noja il setajuolo, come insipido e rozzotto, cominciò colla freddezza, poi sgarbi, abbondando invece in cortesia col forestiero; e non la sa parlare che di lui, e la s’è fitta in capo, la leggiera che è, di diventargli sposa. In tutto il vicinato fu che dirne; e che essa perde il credito e gli avviamenti e le danno della pazza pel capo: ma ella non bada a nessuno, e s’accora, ed à fatta bizzosa e superba, scontrosa con tutti, piena di portamenti bisbetici. Suo padre e sua madre le hanno detto quel mai che seppero; fino dal signor curato la fecero ammonire, tutte parole al vento. Battista il setajuolo fu dei primi a sospettare, fu l’ultimo a credere. Fece ogni suo possibile per distornarla, ma invano: onde cominciò a girar largo; e a pensarla giusta giusta, e’ non dovrebbe tornar più. Ma le vuole tanto bene: ed anche jeri protestò a me che, quand’ella mutasse, egli sarebbe ancora quel di prima. Anch’io che pure era la sua fidata, quel che non feci, che non dissi? ma qual pro? Le s’arruginì il sangue, ed appena se or la mi guarda in viso. Quanto al signor forastiero, piaccia a Dio che non siano buone parole e cattivi fatti».

Compassionai la fanciulla, nè sino a buon pezzo m’accadde di più capitare da quelle bande. Allorchè ricomparvi, mi diedi a girellare per le stanze, e non trovando la Gioconda, ne chiesi a suo padre. Povero vecchio! scosse il capo, mi mescè, e voltò via. M’accostai a sua madre e — Che n’è della Gioconda?» Ella sospirò, alzando gli occhi al cielo, e tacque.

— È forse morta?» chiesi io collo spavento che ci tocca all’udire d’alcuno che finì sul fiore degli anni.

— Eh! sarebbe forse il meno male», replicò la vecchia, nè altro.

Parendomi allora scortesia l’insistere, cercai della vicina, e ne la richiesi. Anch’ella non più che con un sospiro mi fece dapprima risposta, poi — Venga (mi disse), venga e vedrà».

Così mi trasse ad una camera sulla cui soglia stava seduta al sole una povera creatura, il volto ingiallito e macilente, le labbra cascanti, l’occhio luccicante d’un fuoco non naturale: d’un fazzoletto bendato il capo, con le mani sotto al grembiule, stavasi tutta accovacciata come se gelasse, ed era l’agosto. Io diedi indietro, allorchè in quella grama ravvisai la bella, la viva Gioconda. Alla quale dirizzandosi, la vicina — Oh (disse) guarda: conosci tu questo signore».

La tapina alzò gli occhi, mi fissò incantata come chi cerca con fatica nella mente una lontana ricordanza, poi rispose: — Sì», e mi nominò, indi lasciò ricascare il capo sul seno.

— Che non gli dici tu qualche cosa?» replicò la vicina, vedendo ch’io non poteva formare parola, tant’ero accorato. E la poveretta parve ravvisarsi, e cominciava: — Quanto tempo che non la vedo. Ma ora stò così lontano! E lei, posto ch’è qui, verrà alle mie nozze? Oggi l’aspetto, sa? Vede? mi son messa in chiccheri per questo. M’ha già donato gli anelli»; e con un amaro sorriso mi sporgeva le mani scarnate, le cui dita aveva innanellate di stame. — Certo (proseguiva), sebbene egli sia un gran signore, mi sposa me, me povera fanciulla.... Oh sì, sì! io sono una povera fanciulla, io....»

E ruppe in dirottissimo pianto, di mezzo al quale più d’una volta ripeteva: — Ha ella mai avuto per amico un signore? non gli creda, non gli creda».

Poi di tratto cessò, e rimessa sul suo delirio, — Verrà ella a trovarmi? Lontan lontano, sa? e non parlano come quì, ma una grande città, un magnifico palazzo! Ha da vedere. Lì un giardino: e non prenda paura dei cani che abbajano. Sono i suoi. Egli torna a casa dalla caccia, e mi dice: Addio, cara Gioconda; come stai? e mi bacia, bacia me, poi il mio bambino: e mi presenta i regali da sposa perchè, non sa? domani ci sposiamo».

E qui rideva, e mi destava maggior pietà che piangendo.

Tacque, ripiombò nel suo letargo; e allora la vicina mi raccontò siccome gli amori della fanciulla con quella praticaccia fossero proceduti, non ostanti consigli ed ammonizioni. Esso la pascolava di speranze, tenendola a ciance finchè l’ebbe tirata al suo intento. Allora leggiero, come sempre, e vago di novità, voltò la vela, nè di lei si curò più che tanto. La fanciulla cominciò ammalazzire. Si credette che prima non ne fosse cagione se non l’abbandono del suo vago, che più non vedevasi ronzarle d’attorno. Ma.... seduttore scellerato! ho da rivelare tutta la costui infamia? — Dopo alcun tempo non potè la meschina celar una schifosa infermità. Quel che divennero il padre e la madre non occorre dirlo. Ella, dopo che lungo tempo soffrì, Dio sa quali spasimi, quando vide non potersi nascondere più... tentò precipitarsi dal balcone. Fu trattenuta, ma da quel momento la ragione sua andò smarrita: la cura stessa accrebbe la debolezza di sua mente: che più? ecco l’avanzo della vivace Gioconda, ecco la vittima della seduzione.

Chi avrebbe frenato le lagrime? Io piangeva, piangeva la vicina, e la Gioconda fissava me, fissava lei con occhio stupido e cristallino, quando repente si sentirono poco discosto alcune fucilate. La delira sorse repente coll’impeto e colla rigidezza d’un automa allo scattare della molla; gli occhi le lampeggiarono d’una feroce serenità, e divenuta di mille colori, inarcò le braccia e tutta la persona, spalancò la bocca quasi ad un grido che non uscì. Poco appresso replicaronsi gli spari: ed allora l’infelice dandò in un ah! dove sonava tutto l’accento della disperazione, prese la rincorsa verso il letto e buttatasi sopra quello boccone, e coprendosi il capo colle coltri e coi guanciali, stette gridando, piangendo, divincolandosi.

Non ressi. Mi strappai allo spettacolo sciagurato, ed uscendo sulla porta, bisognoso di respirar aria, eccomi passar dinanzi quello straniero villeggiante, in abito ed arnesi da cacciatore, con larga preda e molti amici intorno, allegro con essi allegri, rideva, gavazzava; — rideva, gavazzava, passando avanti alla casa della Gioconda, senza tampoco voltar in colà un’occhiata.

Se più compassione mi mettesse la dissennata, o più orrore il suo seduttore, noi saprei definire. Fuor quasi di me, entrai nella bettola e mi gettai pensieroso presso il focolare. I terrieri stavano bevendo contando ognuno la sua: e un ultimo capitato narrava come quel giorno fosse stato sentenziato un povero artigiano, che tutti conoscevano, il quale, per pagare la pigione del canile ove ricoverava della pioggia la moglie e quattro figliuoli, aveva rubato uno zecchino.

1835

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