Questo testo è stato riletto e controllato. |
◄ | I morti di Torno | Il Castello di Brivio | ► |
ISOTTA
In quei cari anni fra i diciotto e i venti, più volte, tra per diletto e per necessità, io doveva scorrere il Lario da Lecco a Colico. Non essendo neppure tracciata la strada che ora è compita per comodo e per maraviglia, nè tampoco udendosi menzionare di battelli a vapore, si dovea fare quel tragitto in una barca comune, che, partendosi la sera, giungeva sul mattino alla meta. Varia sempre era la compagnia: i più, negozianti che dal mercato ritornavano; qualche villico, qualche donna: di rado con chi discorrere; onde la notte si passava tacendo, se non veniva di quando in quando rotto il silenzio da una preghiera che ai poveri annegati alzava il più vecchio navalestro, e a cui tutti rispondevamo.
Una di quelle notti era più limpida del consueto, ed io, al chiarore della piena luna, stavami ritto in piedi sulla spalliera, abbracciato agli arcucci della coperta, porgendo ascolto ai mille rumori che popolano l’amico silenzio delle tenebre, e fantasticando come volontieri si suole a vent’anni, in una notte vegliata in mezzo al lago, e con tante vergini speranze, quante erano allora le mie. Oggimai le meno si adempirono: molte fermentano ancora in grembo all’avvenire: troppe altre si dileguarono, lasciandomi un amaro disinganno.... Scosso e rivolto, mi trovai a fianco un sacerdote, di mezza età, di quella presenza che indica il pensiero e l’azione; e che anch’esso guardava, fantasticava, taceva.
Fra due persone affette al modo istesso, agevole entrò il discorso; ed ora egli narrava a me le ricerche de’ sapienti e de’ curiosi intorno a quel lago, ora io mostrava a lui lo stupendo effetto delle fornaci di calce, sfavillanti come vulcani sulla bruna schiena dei monti della Valassina: indi egli m’additava sull’opposta riva le rocche in rovina, mi parlava de’ monasteri, di non so qual regina Teodolinda, che, egli dicea, fabbricò quella torre alta sopra Varenna e il sentiero che costeggia a destra il lago: ed io gli mostrava i solchi, da incognita cagione increspati sul tranquillo dell’onde. — Guardi (io gli diceva) com’è puro lo zaffiro dei cieli! Le stelle ond’è tutto seminato, non pajono elle tante isolette di luce nell’oceano dell’aria?»
— Sì» mi soggiungeva egli: «chi nel contemplarle non sente vivo il desiderio di salire più alto di esse, tuffarsi in una luce ancor più pura ed immortale?»
E tacemmo, e guardavamo il cielo, i monti, il lago.
Eramo fatti vicini ad Olcio, e di mezzo alle acque ci nereggiava il promontorio di Bellagio, che fendo in due il lago; e fra’ naviganti s’era messo discorso sul padrone del palazzo di colassù.
— Ma la gente che vi abitò (diceva un vecchio) non fu sempre così buona come il signor conte d’adesso; non è vero, signor curato?
— Eh! pur troppo (replicò il sacerdote) ne raccontano di strane: ma la misericordia del Signore è grande, ed avrà perdonato anche a coloro».
Non era io tale da accontentarmi d’un cenno fugace, e lo pregai volesse dirmene alcuna cosa. Ci eramo seduti; gli altri naviganti porgevano orecchio, e i rematori anch’essi, pur battendo la voga; onde il piovano, con quel fare da bene che va si a proposito ai sacerdoti del Dio dell’amore, incominciava:
— Chi, trecent’anni fa, avesse veduto il promontorio di Bellagio, ne avrebbe trovato eguale il riso della natura, non così l’opere dell’arte. La selva di tassi e d’abeti nereggiava anche allora, ma novella; e tra essa discernevasi una cinta di mura, scaccata da merli, traforate da feritoje, che spesso aveano lanciata la morte alle scialuppe scorrenti il lago, singolarmente al tempo delle guerre di Gian Giacomo Medeghino, castellano di Musso. La qual cinta chiudeva d’ogni parte il castellotto che ancora vi sta, eretto da Marchesino Stanga, creato dagli Sforza, signori di Milano; castellotto già di sì bell’agio che venivano ad alloggiarvi e duchi e re. Là presso vedovasi, e ancor si vede, un rozzo campanile, sotto al quale erano la chiesuola ed il convento dei Cappuccini. — Singolare contrapposto delle idee di pace benefica e di guerre struggitrici, di frati e di guerrieri, di patimenti e di consolazioni, di bronzi che vomitavano la morte, e d’altri che, fra la tempesta, avviavano lo smarrito navigante!
Però il tumulto di guerra taceva da che, acquietato il Medeghino e toltolo di là, Carlo V erasi impadronito del Milanese, ponendo freno alle fazioni, ceppi alla libertà.
Ma non erasi cheta la tempesta nell’animo della signora Isotta, padrona di quel castello. Bella e fresca, sebbene già sui trent’anni, l’occhio suo guizzante rivelava l’irrequietudine interna. Sedeva sola ad un verone, che guardava il prospetto della Tremezzina, non ancora seminata di ville, e perdevasi lontano sui monti popolosi della Valintelvi, osservando il sole che, nel chinarsi dietro la vetta del San Zeno, vibrava un ultimo raggio a colorire di tremulo rosato la placida laguna.
È l’ora della meditazione. Chi di voi non l’ha sentita? Chi non ha provato una dolce melanconia, un ritorno soave sopra di sè, sopra il passato, al contemplare l’astro della sera brillante d’incerto raggio?
Soave, io dico, per chi abbia fatto tesoro di piacevoli sensazioni e di virtuose; ma per Isotta era ben altro. La pace della natura, il canto lontano delle villanelle che tornavano dalla mietitura e dalla vendemmia il quieto procedere di qualche barca, le richiamava la mente a calmi pensieri, alla prima giovinezza. E si figurava il tempo quando, fanciulla innocente ed in ascosa, se non povera fortuna, vagava tranquilla nelle campagne ove l’Adda si mesce col Po, tra il forte Pizzighettone e la turrita Cremona: le tornava a mente la placida benevolenza d’un padre, d’una madre, d’una sorella, e i giorni d’uniforme tranquillità, e le sere passate a recitare una preghiera, che facea più calmo il sonno della notte. Poi eccole venire innanzi quel giorno che Lucillo, figliuolo di Marchesino Stanga, guidava da quelle parti la caccia fragorosa; e sopravvenuto dalla sera, fermavasi a pernottare nella casa paterna di lei. Quel giorno fu l’ultimo di suo riposo. Il signore sapeva le arti di piacere alle fanciulle: la fanciulla era incauta, nè la paterna cura era bastata a sradicarle di cuore i semi d’un orgoglio crescente. Egli parlò d’amore; fu ascoltato; addio alla virtù. La fanciulla de’ campi è dama nei palagi di Cremona, accarezzata, festeggiata.
Ma l’ambizione, non l’amore l’avevano data in balia al signore; onde, allorchè, svampata la passione col soddisfarla, egli sdegnò una donna di bassa nazione la prospose ad altre, ella, che presto aveva cessato di amare chi l’aveva rapita alla virtù, cercò distrazione ed obblio in nuovi peccati. Ben presto il palazzo dello Stanga fu pieno del racconto di scene sue scandalose; ma poichè l’onore, ultima virtù dei corrotti, non consentiva a lui di ributtare nel nulla donde l’aveva tolta, una fanciulla che pure egli stesso avea messa nel trionfo di una società viziosa, Lucillo fermò d’allontanarla sì, ma in luogo dove ella potesse vivere pari al grado; a cui egli l’aveva assunta.
Il castello di Bellagio era stato fabbricato da suo padre con comodità e magnificenza. Ma, dopo che il lago fu infestato dalle scorrerie de’ Cavargnoni e de’ partitanti dei Francesi e degli Spagnuoli, disputantisi il possesso della povera Italia, non offrì più un asilo d’ozj campestri, ma venne campo di quotidiane abbarruffate. E peggio ancora dopo che a Musso si fu annidato il terribile Medeghino, che contro alla sterminata potenza di Carlo V e di Francesco I seppe resistere tant’anni, e trionfare, forte nella postura dei luoghi e nella sua temerità.
Quel castello abbandonato assegnò dunque lo Stanga per abitazione all’abbandonata Isotta, che in ricco e liberale esiglio vi traesse la vita. E come la traesse bello è il tacerlo. Qual pro dal rivelare le nefandità? Dei bravi onde si era ricinto il Medeghino, e de’ gondolieri che egli aveva educati ad affrontar le procelle, s’era ella chiamati intorno alcuni, dopo che esso fu scovato dalla sua tana; e piacevasi di correre, come lui, il lago quand’era più tempestoso; come lui, far braverie e soperchiare; e forse lusingavasi di emularlo in scellerata rinomanza. Vedete là quel piano più elevato? Se mai visitate quel luogo deliziosissimo, vi mostreranno un profondo burrone, pel quale Isotta precipitava gli amanti quando sazia ne fosse. Così almeno diceva la fama, che sempre esagera il male ma che spesso l’indovina.
Or sopra questo vario corso di vita scorreva l’anima tediata di lei; riandava le sciagure e i delitti; e sentiva in cuore un rimorso, che pur avrebbe voluto dissimulare a sè stessa, ma che insistente le favellava.
Da alcun tempo pur vivamente provava essa questo corruccio; ed avvisava come, per rientrare con onore fra la società, non le rimanesse che od una penitenza austera, od un onesto amore. Ma la penitenza non s’affaceva al molle tenore di sua vita; una grave disgrazia, una perdita improvvisa ve l’avrebbe forse ridotta; ma la noja presente le infondeva l’incertezza del dubbio, non l’eficacia della risoluzione.
L’altro partito ancor più l’aveva lusingata da quando era apparso in queste vicinanze il cavaliere Gualberto Morone. Nasceva esso da quel Girolamo Morone, conte di Lecco, potentissimo a’ suoi tempi presso Francesi e Spagnuoli, il quale, rimestate a voler suo le cose politiche col senno e colla morale del Machiavello, aveva messo al vescovado di Modena uno de’ figliuoli; quest’altro avea destinato ai pubblici negozj. Pensatore ed animoso ne’ sacri pericoli della patria, questi, tra la miserabile lotta agitata in quel tempo, avea con ispasimo veduto i principi italiani combattere, non più pei diritti o per la vanità, ma al cenno di stranieri: aveva veduto Francesco II Sforza, ultimo rampollo d’una famiglia ereditiera della libertà e della tirannide lombarda, imbecille e soffrente languire sotto un peso soverchio alle sue spalle: avea veduto la ducea disputata fra raggiri di scaltri ed armi di potenti: sinchè al fermento del lievito italiano succedeva una pace indecorosa, nella quale ai figli, cui i genitori aveano creduto tramandare morendo un avvenire, una speranza da maturare, non rimarrebbe che d’avvilirsi o stordirsi. —
Qui uno sbadiglio che dal fondo della barca intendemmo, fece accorto il buon prete a chi parlasse; onde, calmato l’impeto sentito con che aveva pronunziato quell’ultime parole proseguì:
— Disperato del bene, il cavaliero si ritrasse allora dagli affari e dalla guerra, e, per cercare dimenticanza, venne a queste piaggie riposte. L’età sua era vicina ai trentacinque anni; sulla fronte gli si era scolpita l’abitudine di vasti divisamenti; ma questi, avendo cessato, lasciavano un vuoto affannoso nell’anima di lui. Errare pel lago, correre sulle cime dei monti armato del suo bastone, e far del bene ovunque potesse, ecco la vita sua. Allora anche gli rampollarono pensieri d’amore, che da prima non aveano avuto campo di svilupparsi: e giacchè non poteva ai grandi interessi della patria consacrare la vita, avea disposto l’anima a far sua una bella e soave creatura, e condurre con essa tranquillo i giorni, obliato, oblioso.
Sovente egli traeva al castello d’Isotta; ed anche allora uno staffiere, entrando con una fiaccola alla mano nel gabinetto ove stava meditabonda la dama, annunziò il cavaliere Morone.
Si risentì tutta la signora, ed, — Entri». Il turbamento interno le trapelava sulla fronte. Quest’era l’uomo ch’ella vagheggiava ne’ sogni del suo avvenire, l’uomo che poteva tornarla all’onore della società; e la frequenza ond’egli veniva al suo castello, e le cortesie onde la riguardava, la faceano lusingata di poter destarlo all’amore. Quindi, da che lo conosceva, erasi anch’essa ridotta ad abitudini più costumate, allontanando da sè il delitto o le apparenze, e mostrandosi buona quanto può chi buona non sia.
Non era ancora rinvenuta dal turbamento, quando il cavaliero entrò, e consegnando al valletto il bastone e il largo cappello, si fece incontro a lei baciandole la mano e salutandola.
Le prime accoglienze furono comuni e fredde, quali poteano fra una donna che ha troppo pieno il cuore, ed un uomo cui manca alcuna cosa. Ma esso alfine, reso più franco, — Dov’è (chiese) la signorina Estella?
— Essa attende a sue cose, la meschina.
— O che? è ella veramente meschina tanto? Sì bella, sì buona, meriterebbe pure d’essere felice. Perchè non me ne narraste mai la storia?
— La storia sua è corta e semplice. Essa nasce da Polidoro Boldone di Bellano. Nelle lunghe guerre trascorse, aveva questi armato una banda fra i monti per combattere gli stranieri, o spagnuoli fossero o francesi: aveva provato e trionfi e rotte. Non succedeva battaglia a pro della patria, ov’egli non fosse: a Como diresse le artiglierie contro i soldati del marchese Del Vasto quando venivano ad espugnarla: poichè n’ebbe veduto il miserabile strazio, corse a difendere Torno: ma questo pure superato, gustò almeno la soddisfazione di vedere il figlio del marchese cadere sotto a’ suoi colpi. Quando il Medeghino si pose da queste parti, sperando far causa comune con esso a salvezza della patria indipendenza, se gli congiunse: ma poichè quegli si diede a corseggiare e rubare, egli se ne distolse affatto, tanto che avendogli il Medeghino richiesta in nozze una sorella, gli fece risposta, che non voleva lega nè parentela con ladroni. Mal per lui: giacchè il Medeghino gli venne contro, ne sperperò i poderi, assalì la casa, sterminò la famiglia, di cui altri perirono, altri andarono dispersi. Questa povera fanciulla, raminga or qua or là, finalmente l’ho ricoverata io. Il padre dicono sia morto, ma i nemici suoi nol credono, dei quali il più ostinato è il marchese Del Vasto, che ottenne dall’Imperatore fosse bandito un premio a chi lo consegnasse vivo o morto, e reo di lesa maestà chi lo nascondesse».
Quanto ella diceva era vero; com’è vero che i gran delinquenti amano avvicinarsi alcun essere innocente, e rendersene protettori, o per fare inganno a sè stessi con questo facile atto di virtù, o per avere uno almeno che li benedica, fra tante maledizioni su loro scagliate.
A quel racconto più pensoso divenne il Morone, e nelle parole sue scorgevasi un’esitanza, che la signora voleva interpretare per l’incertezza di chi ama. Onde, per farlo pure ardito, — Mi pare, o cavaliero, che da alcun tempo voi mi nascondiate qualche secreto. Che non vi aprite con me? Non sono io donna capace di sentire gli affetti al pari di voi?»
Tanto l’amore, la speranza le facevano velo, che aspettava di vederselo cadere ai piedi, e confessarle come la amasse. Egli all’incontro, — Sì (le disse), pur vi rivelerò, o signora, un pensiero che da lungo tempo nutro in cuore. Io amo.
— E chi? Beata colei che avete prescelta?
— La fanciulla che voi proteggete: e, se voi ed essa acconsentite, intendo farla mia».
Un fulmine che le fosse scoppiato a’ fianchi non avrebbe tanto scosso la signora, quanto una tale rivelazione. Amore, invidia, orgoglio, rabbia tutt’insieme l’assalsero: avrebbe imprecato, ma la frenava il sicuro volto del cavaliero. Sorse, passeggiò più volte taciturna lungo la sala, poi s’arrestò in faccia a lui che mai non n’aveva dipartito gli occhi, e — Cavaliero, avrei creduto che un gentiluomo par vostro sapesse collocare gli affetti in parte più elevata. Una miserabile, figlia di un proscritto, senza nome, senza casato...
— Signora, non il nome, non il casato importano, sibbene la virtù».
Scesero queste parole nel fondo del cuore alla dama, che pur troppo, raccogliendosi in sè stessa, accorgevasi non avere nè gli uni nè l’altra; ma stizzita esclamò:
— Virtù, virtù! Ebbene, venite a chiarirvene voi stesso».
E sì lo condusse ad un terrazzo che dava sul lago, appunto dalla banda ove noi navighiamo. La luna batteva limpidissima come oggi sopra le acque, mostrando ogni nave che le solcasse. In una, che Isotta additò al cavaliero, vedeasi biancheggiare non sapeasi che, ma diverso da un pescatore o da un navalestro, ed avvicinata viepiù, vi si distinse una donna, la quale, trattala a riva, venne salendo verso il castello. Il cavaliero riconobbe l’Estella.
— Or bene» gli gridò la signora: «ella torna d’aver visitato l’amante. Eccovi la sua virtù, le vostre speranze».
E le si dipinse in viso il trionfo della vendetta, mentre il turbamento adombrava quello del Morone. Per ciò, allorquando l’Estella entrò, bella come un angelo, e con sorriso confidente si fece ad abbracciare la sua protettrice, questa, avezza a simulare, le rese più affettuoso che mai il bacio, e — Ben venuta».
Ma l’occhio della fanciulla girandosi sopra il cavaliero, lo conobbe torbido e ben altro da quel che soleva. Perocchè egli (non so se vel dissi) avea già lasciato comprendere alla fanciulla d’amarla, con quegli atti impercettibili a tutti fuorchè a chi n’è l’oggetto: nè essa poteva rimanersi indifferente alle belle e sode virtù di lui. Ora al vederne il fare contegnoso, non sapeva renderne ragione a sè stessa; e quand’egli partì lanciandole un’occhiata, non l’intese, ma le parve d’inesprimibile rimprovero. Il pensiero della vendetta frattanto accelerava i battiti del cuore alla signora Isotta, che, se non poteva essere lieta di questo amor suo, neppur voleva che altri ne godesse.
Scese l’altra sera, e come fu fatta buja, l’Estella si calò di nuovo alla spiaggia, ed entrata nel battello, diede mano al remo, e radendo terra terra quel sinuoso lido che ora noi abbiamo rimpetto, volgeva giù verso Limonta. La luna velavasi tratto tratto d’alcuna leggiera nuvoletta, onde la luce, ora piena, ora scema, dipingeva le più bizzarre figure sulle cline dei monti e sul velo del lago. Quando più chiara splendeva, sopra il fosco del lido facea spiccare la candida figura dell’Estella, avvolta in semplice vesticciuola, e cui, tra il remigare, svolazzavano all’aria notturna le più belle ciocche di cappelli corvini. Così vogava sinchè arrivò là dove scorgete addentrarsi quel seno, tra uno scoglio ed un cespuglio: ed ivi ricoverata la barca, seco tolse una fiscella, e su per l’erta.
Ma un occhio la spiava. Il cavaliero, desideroso di chiarirsi quanto si fosse ingannato nel crederne l’anima pura e bella, aveva appostata da lungi la navicella; ascoso dietro le fratte, l’avea vista approdare, e subito erasi avviato sugli snelli passi della fanciulla. Lungo tempo la seguì coll’occhio, poi la perdette di vista; onde breve egli vagò alla ventura, finchè un sommesso susurrare lo ferì. S’avvicina, ed ingombrato da rovi e scopeti, avvisa un piccolo tugurio, poco diverso dai capanni donde i cacciatori tendono la pania; s’accosta, ed affacciandosi a una finestrella, al tremulo lume di una lucerna a mano, vede, — oh che vede! Un uomo di forme maestose, a cui i patimenti aveano anticipata la vecchiaia, con lunga barba, con panni sdrusciti, stava seduto sopra uno sgabello; e sulle ginocchie di lui un’angelica apparizione, l’Estella che di un braccio gli cingeva il collo, traendoselo così dappresso, che i canuti crini ed irti del vecchio mesceansi colle nere treccie di lei, la quale intanto coll’altra mano venivagli porgendo il cibo, che traeva da una fiscella. Le dolci parole onde ella si accompagnava accoppiavano un non so che di carezzevole e di melanconico, siccome la memoria della patria lontana.
Stette il cavaliero alcun tempo, inteso allo spettacolo: indi si presentò alla porta socchiusa. Come l’Estella lo vide, senza che, involto qual era nel mantello, lo riconoscesse, trasalì, alzò un grido, precipitossi ai piedi dell’arrivato, gridando: — Pietà signore; non perdete mio padre».
Il cavaliero, certo allora di quel che si era immaginato, essere quello il padre della fanciulla, a cui ella venisse a recare vitto e consolazione, commosso nell’anima, la sollevò; e — Sta di buon cuore Estella; sono io, buona fanciulla: molta è la tua virtù, e ne avrai mercede».
Indi si converse al vecchio: e — Polidoro, la patria fu il pernio della nostra vita; sì, voi come io abbiamo combattuto per l’Italia nostra: eppure ella è perita. Ma voi le persecuzioni d’un prepotente ridussero in cotesta miseria: io resistetti ai nemici d’Italia con onore, e fui temuto da essi, come rispettato dai nostri. Quando vidi irreparabilmente perduta la lombarda indipendenza, qui mi condussi a vivere in disperata pace. Ma a Milano il nome mio è ascoltato ancora; se alcuna cosa può indurmi a farlo valere, e tornar a vedere quelle mura, tanto ahimè! cangiate, questa sarà l’andare a chiedere il perdono per voi. Ma un compenso ne aspetto, ed è la mano di vostra figlia, s’ella acconsente».
Se v’assentisse pensatelo, e più allora che alle ammirate doti del cavaliero s’aggiungeva il benefizio; e quando il padre ne la interrogò, l’Estella non rispose altrimenti che col gettargli le braccia al collo ed esclamare: Padre, quanto saremo felici!»
Ripartirono, ella per la sua barca, il Morone pel dirupato sentiero, dove l’attendeva il ronzino. Al domani egli si presentò alla signora Isotta, pregandola perchè volesse consentire che l’Estella fosse sua sposa. Nel sicuro e dritto operare di lui era un predominio, a cui la signora non sapeva sottrarsi, per quanto di malavoglia lo soffrisse: onde essa non ardì negare nè opporre. Disposto quanto alle nozze fosse mestieri, egli si partì per Milano.
In quello e nei giorni successivi non chiedetemi di che cuore stesse la donna. Quegli era stato il primo da cui cercasse, non pascolo all’ambizione ed alla voluttà, ma amore; lunga arte aveva adoperato a cattivarselo, ed ecco le sfuggiva; nè solo le sfuggiva, ma la posponeva ad una tapina, povera, sconosciuta, che altro non possedeva se non la bellezza. — Non altro che la bellezza; oh no: ella possiede un’altra cosa, ch’io non ho; la virtù. A lui non poteva io offerire una mano immacolata, un cuore innocente, siccome questa povera fanciulla Ma virtù!.... che virtù è la sua, che tutto deve a me, tutto; che l’accolsi deserta; che celo il segreto di suo padre, mentre con una parola il potrei, il dovrei perdere! e l’ingrata mi rapisce l’amante. Sleale! La mia vendetta ti coglierà, quanto meriti acerba. — Sebbene.... slealtà!.... vendetta!... Che sa lei di codesti miei amori? Ove sono le arti con che m’offese?... Deh potess’io tornare com’essa, fanciulla povera, ma senza pensieri, senza questi pensieri, che notte e dì ribollono qua dentro, e non mi lasciano pace mai, mai. Bella innocenza; chi me la può restituire! Qual cosa può eguagliare i piaceri dell’età ingenua, del primo amore? — E nè quelli tampoco io godetti senza colpa, io sciagurata!.... e costei se li godrà. Ma da parte mia ho gustato, e posso gustare ancora la sublime voluttà della vendetta. Oh! è pur dolce il contare i momenti che avanzano al vivere del tuo nemico; saperlo in agonia senza ch’egli stesso lo sappia: poi udire un gemito — e non più. Ah! v’è armonia che lo pareggi?.... ed io l’ho sentita, e chi mi toglie di sentirla ancora? di vedere conversi in pianto i trionfi di codesta orgogliosa? — Oh, ma ella è ospite mia, l’ho ricoverata; tutta si confida in me — e tradirla? Che? non ha ella prima oltraggiato me? Poi perchè il bene che le ho fatto dovrebbe a lei obbligarmi? — D’altra parte la legge non comanda essa più alto che non queste passeggiere affezioni? e la legge non ha bandito di consegnare queste Polidoro Boldone capo di ribelli, o guai? nol dovrei far io? non tradisco anzi l’imperatore coll’operare altrimenti?»
Questi o somiglianti pensieri venivano, sotto varia forma tempestando lo spirito di dama Isotta nei giorni successi; onde a vicenda, buona o corucciata mostravasi colla fanciulla. La quale, tutt’affacendata intorno al corredo e a quando al nuovo suo stato convenisse, interrompeva tratto tratto il lavoro, per lanciarsi al collo della sua signora, esclamando: — Oh generosa mia protettrice, quanto vi devo! ogni mia felicità la riconosco da voi».
La dama sorrideva d’un riso che mal celava la burrasca interna; compiangeva anche talvolta al pianto della fanciulla, ma in fondo al cuore la voce del maligno sorgeva esclamando, — Vendetta!»
Erano trascorsi i giorni, e quello promesso al ritorno e alle nozze era giunto; sul chinare del sole arriverà il cavaliero. La fanciulla, in aspettazione, erasi addobbata delle vesti sue migliori, e così rassettata comparve nel gabinetto della signora, e correndole incontro colla schietta gioja dell’innocenza, — Oh quanto sono felice, signora mia! il Cielo vi benedica».
Ma che? lungi dal ricambiarle l’abbraccio, Isotta se ne sottrasse; i segni d’un contento imminente esacerbarono i rancori di essa; da prima quasi inorridita la respinse da sè; indi anelante la ghermì per un braccio: dall’occhio irrequieto di lei, dal labbro convulso, dal petto in sussulto, dal pallore che le si alternava col rossore sulla faccia, avvisavasi lo scompiglio suo interno, mentre sul viso della fanciulla scorgevi l’incertezza, l’ingenua paura di chi non sa che cosa temere.
— O Signor mio!» esclamò. «Che cosa avete, o mia protettrice?
— Che Signore? che protettrice?» proruppe la dama, affoltando le parole in quello sfogo di rabbia tanto a lungo compresso. «Non è più tempo di dissimulare. Oggimai vedi in me la tua giurata nemica. Oggi, oggi stesso, o mesci questa bevanda (e trasse di seno una piccola fiala) al tuo sposo avanti che suoni mezzanotte: o svegliandoti, alza gli occhi ai merli della torre, e ne vedrai pendere il ribelle tuo padre».
Diede un grido la meschina, come chi sotto ai fiori scorga improvvisamente una serpe: barcollante appoggiossi al dossale d’una seggiola. — In quel punto entrava il cavaliero, e dove figurava trovar l’esultanza, udì lo strido: e postosi in mezzo alle due, prese con atto d’amore il braccio dell’Estella, che non ardiva levare lo sguardo su lui; fissò in volto la signora, per conoscere quel che di sinistro annunziava. Ella rivoltasi ancora all’Estella, digrignando i denti, e stretti i pugni, — Decidi: e se fai motto, l’uno e l’altro» e se n’andò.
A questo punto della narrazione del buon pievano noi eravamo arrivati a Varenna, dove si solea fare stazione e refiziarsi d’alcun cibo. Dopo il quale ci ricollocammo sui sacchi e sulle predelle della nostra barca, mentre appunto sonavano le sette ore di notte. Il buon curato le contò, e
— Le ore notturne sono amiche mie. Quando tutto è silenzio intorno, la loro voce parmi quella d’un benevolo che mi domandi come sto.
— Ma (soggiunsi io desideroso di ravviare il racconto) non le avranno contate no quietamente quelli di cui voi ci narravate testè.
— V’apponete» replicò egli. «Lo so ben io che oggi si ama il terribile, che lo vogliono i lettori, che lo profondono gli scrittori. E davvero, quand’io vedo gli uomini, singolarmente voi giovani, disgustati della società, voltarvi a dipingerla tanto peggiore di quel che, grazie a Dio, non sia, vi compatisco siccome un bambino che, lacerato da intestini dolori, morde il seno che lo allatta. Se questa mia fosse una novella, qual colpo felice di scena il mostrare la signora che li lascia sposare e andarsene: poi, quando sbarcano alla casa dei loro contenti, al primo bacio d’amore dato e non reso ancora, una mano ignota trafigge a morte lo sposo. Ovvero nel banchetto ella mesce il veleno a tutt’e due, che spirano fra orribili contorcimenti, e pronunziando le più nuove ed affettuose parole. Ma il mio racconto è vero, quale almeno l’ho raccolto da un vecchio, che lo tenea da suo padre, e questi dal suo, e così fino a coloro che vivevano allorquando il fatto successe.
Adunque seguitando vi dirò che, come i due sposi rimasero soli, il cavaliero s’adoperò a confortare la bella, a interrogarla; ma senza poterne altro ritrarre che gemiti, che esclamazioni: — Oh mio padre, oh padre mio! — deh partite — soccorretelo. — Ah! sono infelice per sempre».
Le nozze furono differite; gli abiti festivi surrogati da più dimessi; e tutto il tempo a piangere e sospirare. Il cielo pareva accordarsi colla tristezza dell’Estella; poichè erasi messa violenta tempesta sul lago, i venti s’attraversavano a turbo; pioggia a rovesci e lampi e tuoni, che misera la nave côlta nel mezzo delle acque! Mille consigli passavano per
l’animo della fanciulla; tutti fuggivano dinanzi all’immagine del padre e dello sposo, vittime d’una crudele. I delitti di costei, ch’ella avea pur sentito accennare, ma senza crederli mai perchè la trovava sì pietosa con sè, ora le ricorrevano in orrida sembianza alla mente; persuadendola che tutto poteva temere. Correre al padre, trarlo di là e fuggire con esso, era il primo suo pensiero. Ma il lago muggiva sì minaccioso da non potervisi affidare: il sentiero, che per terra poteva drizzare al suo nascondiglio, lungo e scabroso sempre, peggiore diveniva pei torrenti rigonfi e per le smosse di terra; e tra il bujo della notte ch’era discesa, come avventurarsi una fanciulla dove appena avrebbe osato il più ardito cacciatore? Procedevano intanto le ore, mezzanotte si avvicinava, — quella terribile mezzanotte, il cui scoccare doveva essere fatale della vita o della morte sua. Intorno a lei, con assidue cure, il cavaliere pur tentava subbillarne il segreto, ma indarno. Quando un lampo più degli altri prolungato, mostrò giù al basso una gondola, che spinta da molti remi, prendeva dell’alto, sorvolando ai cavalloni.
— Una gondola» esclamò egli: «quale mai potrebbe con questo tempo avventurarsi al lago, se non una sola?»
Ma l’Estella, come appena la vide, alzò uno strido di disperazione, e — Salvate mio padre»
— E da chi?
— Salvate mio padre!
— Dalla signora. — Ohimè! ho detto troppo — forse l’uccido».
La verità balenò allora sugli occhi del cavaliero; onde — Estella (disse) addio; vado a salvarlo o morire».
E volle togliersi da lei; ma per quanto facesse, non potè impedire ch’ella volesse venire seco a qualunque rischio. Caricatosi d’arme, oltre il pugnale che gl’Italiani d’allora mai non abbandonavano, salse una mula, e colla fanciulla in groppa, si mise pel sentiero montano. Non ve lo descriverò: che voi conoscete i monti, e potete figurarvi qual era, in tal ora, in tal luogo, con quel tempo. Solo una bestia docile ed esercitata come quella poteva continuare su così angusto calle in pendio, fra il barbaglio de’ lampi; solo amore poteva fare così arditi quei due, amore che non conta i pericoli. Fatti vicini al bosco e scavalcati, il cavaliero e l’Estella cominciano a discendere verso la capanna ove dorme il padre — dorme forse per l’ultima volta. Più s’avvicinano, più batte il loro cuore. — Saranno in tempo? Ecco al fine il tugurio. Tremante, l’Estella s’avanza, vi si precipita — è vuoto! Intanto, come i lampi rompevano la tenebria, vedovasi in mezzo al lago una gondola lottare coi flutti.
Era veramente la gondola d’Isotta. O miei buoni ascoltatori, nessuno di voi conobbe l’atroce gaudio della vendetta: nessuno sa come sia tempestoso il tempo che volge tra la deliberazione d’un delitto e il compimento di esso: onde farete le meraviglie come ella stessa, fra tanta burrasca, si avventurasse all’onde. Ma una burrasca tale volgevale sossopra l’animo, che fino il pericolo, fin la morte le pareva un nulla, per togliersi un istante a quella, per anticiparsi d’un’ora l’insana ebbrezza della vendetta. Scelti dunque i più sperimentati battelieri, quelli che tante volte, a ritroso del vento, aveano guidato alle sorprese il Medeghino, erasi diretta alla capanna del vecchio per rapirlo, ostaggio d’un tremendo dolore.
È vero che, quando fu discostata dalla riva, e la barca per robusta e ben regolata, tratto tratto minacciava capovoltare, e i più arditi remiganti impallidivano sotto al sudore che largamente pioveva dalla loro fronte, la dama tutta risentivasi, e rabbrividiva, e pensava: — Se un’onda mi sommergesse! — Ebbene? sarebbe finito — finito — finita questa agitazione d’inferno: finita la guerra fra me e gli uomini: — tutto finito. — Ma sarebbe veramente finito tutto?»
E qui l’animo suo veniva risvegliando pensieri da un pezzo disusi, offuscati, ma non disgombri mai; pensieri d’una qualche cosa di là dalla tomba; d’un potere più che mortale. — Trasaliva, gelava, sudava, chiudeva gli occhi, ma quando nessun oggetto più la distraeva, le si paravano innanzi più vive le immagini spaventose d’un avvenire sconosciuto: allora spalancava gli sguardi intorno alle ondate, ai lampi; nè il terrore per questo cessava.
Toccarono in quel mezzo alla riva destinata: due bravi, saliti, trassero a forza il vecchio, che, entrato nella gondola, — O signora, chiunque voi siate che usate meco tal violenza, vi ricordi che diverrete vecchia anche voi, che dovete morire.
— Zitto, vecchiardo imbecille! fu la corrucciata risposta della signora; alla quale dispostosi esso a tacere, volsero al ritorno.
Quetava a poco a poco la procella nel lago, ma più viva si faceva nell’animo d’Isotta. Le parole del vecchio eranvi sonate a fondo: — divenir vecchia! — morire! — e per quanto tentasse sviarle dall’orecchio, dal cuore, sempre vi echeggiava più profondo, più ostinato, quel divenir vecchia, morire.
Ed ecco dalla riva un suono incerto. Era la campanella de’ frati, che, nell’universale silenzio delle creature, batteva a rintocchi, annunziando al mondo addormentato che un’anima cristiana era per abbandonare la terra.
Come il vecchio l’intese, trattosi di capo, cominciò la preghiera insegnata da Cristo, indi il salmo della misericordia e le preci onde la Chiesa fa congedare dai fedeli un loro fratello, che li procede ad una vita senza fine. I barcajuoli rispondeano di conserva, e quell’uniforme pregare, risonando, unica voce umana, fra lo squasso degli elementi, pioveva sul cuore una mestizia soave al giusto. — Ma al malvagio! ma ad Isotta!... Rizzò sulle prime la fronte per impervi silenzio, le mancò la voce. — Quel pensiero dell’agonia, quella stanchezza del delitto, giganteggiava, ingombrava l’animo. — Non potè resistere — curvò la faccia tra le palme, e ruppe in una foga di lacrime. — Era salva.
Quando s’avvicinarono al lido, essa balzò la prima in terra, e senza pensare al vecchio che rimaneva nella barca, su, arrampicossi al castello, entrò taciturna, attraversò le sale, le stanze — oh che memorie! e venuta nel suo gabinetto, si lasciò cascare ai piedi d’una Madonna, reggente sulle braccia il Bambino celeste, e sorridente a quelli che la guardavano, quasi in atto d’assicurarli che la loro prece sarebbe esaudita. Ivi prostrata, pianse, pregò; — pregò con orazioni da gran tempo dismesse, ma che allora le si venivano sgrovigliando per la memoria, richiamando altri tempi, altra pace.
Il cavaliero e l’Estella, che, colla disperazione in cuore, empiendo le camere di strida, venivano per imprecarla, quali rimasero in trovarla colà, innanzi ad una Madonna, piangente, pregante! Ogni ira s’acquietò; tanto più che Isotta si precipitò al collo dell’Estella, esclamando: — Perdono, perdono; egli è salvo». In quella batteva mezzanotte.
E qui il buon sacerdote si tacque: tutti intorno tacevano d’un religioso silenzio: ed io guardava. Così passò un’ora intera, dopo la quale, come seguitando un pensiero non interrotto, una fanciulla tra i passeggieri domandò: E che cosa avvenne della dama?
— La dama?» esclamò il piovano, quasi riscosso da profonda meditazione. «Vedete cotesto paesello sporgente sur un promontorio, ed ivi una casa bianca, elevata? È Dervio, e dov’è quella casa stava un monastero di Umiliate. In quello si raccolse la signora Isotta, a vivere il resto dei suoi giorni in austerità, cara al Dio che computa il pentimento quanto l’innocenza.
— Oh perchè (diss’io) non rimase ella fra gli uomini a riparare con tanto bene il male cagionato?
— V’ho io detto forse (ripigliò il prete) che non facesse del bene? Innumerabili sono le vie della carità, come quelle della provvidenza. — Quanto agli sposi, le loro nozze furono, tra pochi giorni benedette dal guardiano del convento vicino, e nel castello festeggiate con gaudio, sebbene senza tripudio. La loro gioja non ve la descriverò io: non è facile descrivere la felicità; sì pochi la provarono. Tanto più che arrivò in quei giorni la nuova come Polidoro Boldoni, il quale era rimasto a ricovero nel castello, allora maggiore delle leggi, pei buoni uffizj del cavalier Morone, e per essere stato dato lo scambio al marchese del Vasto, personale suo nemico, rimaneva perdonato e sicuro. Poichè Carlo l’imperatore, assicurato omai nel possesso del milanese, concedeva il perdono a qualunque ribelle, e ristabiliva l’ordine e la pace in Lombardia...
— Ordine?.... pace?.... E così seguiremo a chiamare la tirannia dell’opprimere e la codardia del servire?» esclamava io, e proseguivo in modo di pur volgere il narratore ad altri discorsi, a patriottiche declamazioni. Ma all’avventato parlar mio nulla rispose il sacerdote: e recatosi in mano il logoro breviario, al lume del crepuscolo cominciò le mattutine orazioni al Dio, da cui vengono gli affanni e le consolazioni, i premj ed i castighi, l’impero e la servitù; io ritornai al fantastico silenzio, godendo l’ineffabile sentimento che diffondono gli ultimi raggi della luna impallidente.
1833 |