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VIII. Le due pantofole
VII. Allegoria sull'Amicizia IX. I due Astrologhi

VIII.


Le due pantofole.


Era in Bagdad un mercatante vecchio, il quale avea nome Abou-Casem Jambourifurt, famoso per avarizia. Costui, benchè ricchissimo fosse, pure non avea indosso altro che vesti tutte rappezzate e rattacconate mille volte: il suo turbante, fatto di tela grossa, era così sudicio e sozzo, che non si sapea di qual colore più fosse; ma di tutt’i vestimenti suoi le pantofole erano le più degne di maraviglia e quelle che più meritavano di essere dai curiosi osservate: le suole erano di grossi chiodi armate: i tomai frano tutti commessi a pozzetti, di modo che non fu di tanti pezzi la nave di Argo, e da dieci anni ch’erano pantofole, i più arguti ciabattini di Bagdad aveano logorato l’ingegno e l’arte a rappiccare quei poveri rimasugli che non poteano più stare insieme. Per la qual cosa erano diventate di tanto peso, che andavano in proverbio; e quando si volea significare cosa di troppo gran peso, le Pantofole di Casem venivano poste in campo nella comparazione.

Egli avvenne un giorno che trovandosi cotesto mercatante a passeggiare nel mercato pubblico della città, gli venne proposta la compera di una grossa partita di cristallo: conchiuse il contratto perchè l’ebbe per vantaggioso, ed avendo udito di là a qualche giorno che ad un profumiere rovinato non rimanea altra speranza che in una buona quantità di acqua di rose da vendere, colse vantaggio dalla disgrazia di cotesto povero uomo, e comperò l’acqua di rose per la metà della valuta; onde ricreatosi per così vantaggiato negozio il cuore, e fattosi di umor lieto, in cambio di dare un convito, seguendo l’uso dei mercatanti di Oriente, gli parve spediente migliore l’andarsene al bagno, dove non era stato da lungo tempo.

Mentre ch’egli spogliavasi del vestito, uno degli amici suoi, o almeno da lui creduto tale (poichè gli avari sogliono averne di rado), gli disse che le pantofole sue lo rendevano la favola della città tutta, e ch’egli finalmente avrebbe dovuto comprarne un altro pajo. Egli è gran tempo che io penso a ciò, rispose Casem; ma in fine non sono esse tanto rovinate, che non possano ancora servire; e così ciarlando si trovò spogliato ed entrò nella stufa.

Mentre che si lavava, anche il Cadì di Bagdad andò quivi per lavarsi; ed essendo Casem di là uscito prima del giudice, entrò nella prima camera; ripigliò i vestiti suoi, ma cercò le pantofole invano: in cambio delle sue vecchie, ne vide bensì delle nuove. L’avaro nostro tenendo per fermo, poichè così bramava che fosse, che quelle fossero un dono fattogli da colui che lo avea ammonito, mette i piedi nelle belle pantofole che lo liberavano dal dispiacere del comperarne altre, e quasi fuori di sè per l’allegrezza esce del bagno.

Quando il Cadì ebbe terminato di lavarsi, gli schiavi di lui cercarono in vano le pantofole del loro padrone, nè quivi trovarono altro che quelle sozze pantofole che di subito vennero riconosciute per quelle di Casem: gli uscieri corsero incontanente dietro a lui, essendo egli creduto il ladro, e ne lo ricondussero preso per tale. Il Cadì per le scambiate pantofole lo mandò alla prigione. Convenne aprire la borsa per uscir dall’ugne della giustizia; e poichè Casem era tenuto tanto uomo ricco, quanto avaro, non n’ebbe, come si dee credere, buon mercato.

L’addoloratissimo Casem ritornato a casa sua, prese per dispetto le pantofole e le lanciò nel Tigri che correa sotto le sue finestre. Avvenne di là a qualche giorno che certi pescatori tirando su una rete, la quale pesava più che non solea, vi trovarono dentro le pantofole di Casem, i chiodi de’ quali erano fornite, aveano lacerate le maglie della rete.

I pescatori sdegnatisi contro Casem e contro le pantofole di lui, s’immaginarono di gittargliele dentro per le finestre da lui lasciate aperte. Onde venendo esse con gagliardo braccio lanciate, diedero nelle bocce collocate per ordine sulle cornici, e le riversarono, sicchè ne rimasero spezzate, e l’acqua di rose andò perduta.

Ora chi potrebbe immaginare quanto Casem rimanesse addolorato di quella rovina? Egli cominciò a pelarsi la barba ed a gridare ad alta voce: Maledette pantofole, voi non mi farete altri danni; e così dicendo prese una vanga e cavò la terra nel suo orto per sotterrare quelle ciabatte per sempre.

Uno de’ vicini suoi, il quale gli volea male da lungo tempo, lo vide a rivoltare la terra: corre di subito ad avvisare il governatore, che Casem ha disotterrato un tesoro nell’orto; nè più abbisognò per accendere la cupidigia del comandante. Potè ben dire quanto volle l’avaro, che non avea trovato tesoro veruno, ma che solamente era stata sua intenzione di seppellire le pantofole: nulla gli valse: il governatore s’era già fondato in sul cavargli di mano danari, ed il disperato Casem non ottenne la libertà, altro che sborsando una grossa somma.

Il nostro taccagno disperato, bestemmiando le pantofole con quanto cuore avea in corpo, va e buttale in un acquidotto lontano dalla città, e si pensò finalmente di non doverne più sentire a parlare: ma il diavolo, non sazio ancora di fargli de’ mali scherzi, avviò le pantofole appunto al cannone dell’acquidoccio, di che fu turata la venuta allo spillo dell’acqua. I sovrastanti alle fontane corrono subito per mettere riparo al danno, e trovano e arrecano al governatore le pantofole di Casem, narrando che da lui era derivato tutto il male.

Lo sventurato padrone delle ciabatte è di nuovo incarcerato e condannato ad una pena pecuniaria più gagliarda delle altre. Il governatore che dopo punito il misfatto non pretendea di ritenersi cosa veruna che fosse di altrui, gli restituì fedelmente le preziose pantofole. Casem per liberarsi una volta di tutt’i mali che gli aveano cagionato, deliberò di arderle; e perchè erano veramente troppo inzuppate di acqua, le espose ai raggi del sole sul terrazzo della sua casa.

Non avea però fortuna ancora terminate tutte le offese che volea fargli, e riserbarsi l’ultima per la più crudele delle altre. Un cane di uno che in vicinanza dimorava, adocchiò le pantofole, e dal terrazzo del padrone lanciossi colà dov’erano: una ne ciuffa colla bocca, e con quella facendo i suoi scherzi, lasciala dirittamente cadere sul capo di una femmina grossa che passava colà davanti alla casa. La paura e la percossa furono cagione che la femmina si sconciasse: il marito presenta la querela di ciò al Cadì, e Casem è condannato a pagare una pena proporzionata alla disgrazia di che era stato cagione.

Ritorna a casa prendendo le due pantofole in mano, va al Cadì e gli dice con una veemenza che mosse a ridere il giudice: Ecco, questo è l’ordigno fatale di tutt’i travagli miei: queste maladette pantofole mi hanno finalmente condotto alla miseria. Pregovi, abbiate la bontà di fare un editto, a fine che non possano più imputarsi a me le disgrazie di che saranno certamente ancora cagione. Il Cadì non potè negarglielo, e Casem imparò a sue grandissime spese quanto sia il pericolo di non cambiar le pantofole spesso quanto basta.

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