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LIX. L’Uomo bisbetico
LVIII. L'artifizio riuscito vano LX. Inutilità del pensare a' casi avvenire

LIX.


L’Uomo bisbetico.


I cervelli de’ mariti sono talvolta sì lunatici e strani, ch’io non so qual consiglio si potesse dare alle loro mogli perchè si vivessero in pace con essi. Io non dico che anche fra quelle non si trovino alcune cervelline e fantastiche; ma per ora abbiansi ragione, poichè la novella ch’io dirò è della fantasticheria di un marito. Il costume di quest’uomo dabbene, a quanto mi viene riferito, si è il borbottare di ogni cosa, tanto che non sono a suo modo nè sole nè luna, e vuole che sia amaro lo zucchero e dolce il sale, ingrassando ne’ cavilli e nelle disputazioni. E perchè da tutti è fuggito come si fugge dal fuoco, e appena ha cominciato a parlare, che ognuno gli sparisce dattorno come le colombe al romore di un’archibusata, tiensi le quistioni in corpo, e per non iscoppiare, si sfoga in casa sua con la moglie e con una fanticella; le quali quanto più si studiano di fare a suo modo, meno vi danno dentro. Quando viene a casa, l’odono a borbottare, come il mal tempo, cento passi lontano, e stanno in fra due se debbano tirare la funicella dello saliscendi, o lasciar ch’egli apra l’uscio; e facciano o l’una cosa o l’altra, egli sale sbuffando come un istrice. Come che sia, pochi dì sono passati, ch’egli uscì di casa ingrognato, e di là ad un’ora picchiò uno all’uscio, arrecando un brancino di parecchie libbre. Scende la fanticella le scale, e domandato chi ne lo mandava, il portatore le rispose: Mandalo il padrone di casa alla moglie, e le fa un presente, dicendo che lo faccia cuocere, chè vuol mangiarlo a pranzo stamattina; e così detto sparisce. La fanticella torna su e grida: Oh meraviglia ch'è questa! il padrone vuol morire; è uscito del suo costume: oh padrona, oh padrona! Ch’è questo romore? se’ tu impazzata? dice l'altra. Come ch’è? non vedete voi bel pesce che vi manda a presentare il marito? Alla buona donna, che non era avvezza alle gentilezze, parve di toccare il cielo col dito, e ne fu lieta come suol essere chi riceve grazie da certi orsacchi che non ne fanno mai. E poich’ebbe rimirato il pesce e lodato, domanda alla fante: Che ne faremo? Risponde: Egli ha mandato a dire che si cuoca per l’ora del pranzo. — Buono; ma come si ha a cuocere? — Non so io: l’uomo non disse altro, se non che sia cotto per ordine del marito vostro. Oimè, grida la moglie, tu mi hai diserta: balorda, chè non gli domandasti tu s’egli disse lesso, affettato, arrosto o in altro modo? noi non lo cuoceremo mai a modo suo, e avremo una tempesta negli orecchi di rinfacciamenti, ch’io vorrei essere sorda. Alla fante parve aver mal fatto di non averne domandato il portatore; pure finalmente, parendole di avervi trovato il rimedio, disse alla padrona: Di che siamo noi così angosciate? questo pesce è sì bello e grosso, che se ne può cuocere in più forme e arrecarlo in tavola in tanti modi, che il bestione se ne contenti. Parve alla donna che dicesse il vero; onde la fanticella, dato di mano al coltello, assegnò capo e coda ad un pajuolo per farli lessi; parecchie fette ne apparecchiò per arrostirle, e un pezzo ne acconciò in un tegame con una certa sua salsa ch’era stata altre volte dal padrone nè biasimata nè lodata, indizio di approvazione. Mentre ch’ella faceva con gran diligenza le tre cuociture, la moglie che avea un bambino di forse due anni, tristo come il padre e che avea sempre aperta la gola per istridere, l’avea posto sopra il tappeto o celone della tavola, e stava scherzando seco e vezzeggiandolo perch’egli tacesse. Scherza di qua e cuoci di là, eccoti il fischio del marito: rizzansi gli orecchi. Oimè, ch’egli ne viene e non è ancora apprestata la mensa! Si apre: egli va a spogliarsi in una stanza terrena, gridando nell’entrarvi: A tavola. Corre la fante per istendere la tovaglia sulla mensa, e il fanciullo nello sforzarsi a stridere avea sozzato il celone di sotto a sè di un imbratto che non si dice. Che si ha a fare? tosto tosto si fa un fastello del celone, gittasi in un canto della cucina e stendesi la tovaglia sull’asse nuda, tanto che la tavola è in pronto. Sale il marito; siedono, viene la minestra: al primo cucchiajo il marito borbotta, chè la non dà altro sapore, che di acqua; dà una mano nel piattello e lo spinge via da sè. Vengono capo e coda lessi: guarda nel piatto, stringe le labbra, alza gli occhi e sbuffa. Lesso! vedi con chi ho a fare! Lesso, dice la moglie: come lo volevate voi? — Oh, non si sa egli, cervelli d’oca, che sì bel pesce voleva essere affettato e arrostito? E c’è anche dell’arrosto, dice la moglie. Lucia, arrecaci l’arrosto. Viene Lucia con un piattello che fumicava e mandava un odore che solleticava il palato. Il marito fiuta e gli pare che sappia di arsiccio, e grida come un invasato: Almeno avessi tu fatto quella tua salsa: che maledetto sia il punto in ch’io spesi i danari in questo sì bel pesce, per dovernelo gittare alla gatta: oh borsa mia dispersa al vento! Intanto eccoti Lucia col tegame; ma venne in mal punto, perchè avendolo la moglie pregato ad acquietarsi, egli era tanto più montato in furia e bestemmiava; sicchè venuta la fante e presentandogli il tegame, poco mancò che non gliene lanciasse in faccia; di che indispettita la fanticella, gli disse: Che diavol dunque volete voi, poichè non vale nè lesso, nè arrosto, nè altro modo di cuocere? lo voglio, rispose il padrone quasi fuori di sè, voglio della .... Al che la fanticella rispose: E c’è anche di quella, e andò pel celone acconcio già dal fanciullo.

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