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LXXX. Le Donne cambiate
LXXIX. Osservazione sull'alterazione cagionata negli uomini dalle ricchezze LXXXI. Il Bevitore, o sia regola per dar giudizio di altrui

LXXX.


Le Donne cambiate.


Fu già in Londra un dabbene e ricco uomo, chiamato Giovanni, il quale prese per moglie la più bestiale e fantastica donna che fosse mai; e perchè nulla le mancasse da poter fare a modo suo in casa del marito, la gli arrecò una grossa e ricca dote. In pochi giorni quella famiglia, che prima sotto il governo di Giovanni parea l’albergo della contentezza, non sì tosto fu entrata in casa la novella sposa, che la divenne un inferno; tanto che parea non che femmina, ma centomila diavoli vi fossero andati ad abitare. Ella era oltre ogni credere superba, borbottona, spiacevole in ogni sua cosa, e di sì mal umore in tutto quello che dicea o facea, che non vi avea nè fantesca nè servo che non fosse disperato; e, per giunta, alle villanie che diceva loro grossolane e goffe, menava anche spesso le mani, e con ceffate e pugna gli percuoteva o lanciava loro nella faccia, secondo che si abbatteva, ora un piattello, e talvolta una tazza o altro; non pensando punto che la vera gentilezza non istà nella nascita o nelle ricchezze, e volendo mostrare la sua signoria nel tenere i servi suoi a guisa di schiavi. Comechè Giovanni spesso ne la rimproverasse, e cercasse con buoni e soavi modi di farnela del suo errore avveduta, era quel medesimo sempre come s’egli avesse taciuto. Anzi alle volte gli si volgeva incontro con un ceffo di cane, e con le mani in sui fianchi gli ricordava la buona dote che arrecata gli avea, e domandavagli s’egli intendea di farla stare soggetta ad un branco di bestie e ad una ciurmaglia; e che egli era uno scempio, un gocciolone che si lasciava menar pel naso da tutti; e ch’ella intendea di far che le faccende andassero a suo modo e bene. Il pover’uomo stringevasi nelle spalle, pregava i domestici suoi che avessero pazienza, mostrando quanta ne avesse egli stesso; e per non impazzare affatto, usciva spesso di casa, e passava le ore con gli amici suoi, maledicendo il punto in cui si avea posta quella vipera in seno.

Avvenne un giorno fra gli altri, ch’essendo ella andata ad una sua villetta poco lontana dalla città in compagnia del marito, i servi suoi rimasi in città vollero darsi un poco di buon tempo, e acconcia un’insalata, e presa non so qual cervogia, si diedero a fare una colezione, alla quale aveano per avventura invitato un certo calzolajo nominato Taddeo, delle cui qualità è necessario ch’io favelli per intelligenza dell’istoria. Era costui uomo di lietissimo umore, e quando egli avea bevuto un pochetto, cantava saporitamente alcune canzonette, che alla brigata, con la quale si ritrovava, davano non picciolo diletto; e perciò era da tutte le genti volentieri veduto. Egli è vero però, ch’essendo piacevole con ognuno, non riusciva tanto gentile alla Geva sua moglie, ch’era una bella giovane e di sì buona pasta, che non sapea fare nè più qua nè più là di quanto le comandava Taddeo. E con tutto ciò egli spesso ne la rimbrottava, e le dava delle busse, per modo che la mala arrivata Geva faceva seco una trista vita. Tant’è, comechè si fosse, Taddeo trionfava allora alla mensa co’ servi di Giovanni, e aveano invitato un cieco il quale suonava molto bene una sua viola, onde dopo cantate a coro molte canzoni e terminato il mangiare, faceano un ballo tondo con una festa e un’allegrezza che sarebbe stata una consolazione a vederli. Ma, o fosse che non prendessero bene la misura del tempo, o che la padrona giungesse prima dell’ora che assegnata avea, la gli colse in sul fatto, e poco mancò che non gli ammazzasse quanti erano, sì la prese la furia; perchè dopo di aver detto a tutti una gran villania, e dato a chi una ceffata e a chi un pugno, secondo l’usanza sua, la corse dietro a Taddeo, e spezzò sul capo al cieco la viola, facendo un fracasso che parea che volesse inabissare il mondo. Il marito, dopo di avere usate tutte quelle buone ammonizioni che sapea, vedendo che non facevano frutto, deliberò in suo cuore di rimandarnela a casa nel vegnente giorno, e di torsi quella tigre da’ fianchi. Mentre ch’egli stava in questo pensiero, mulinando fra sè la sua risoluzione, era già la notte venuta oscura, e pioveggiava, quando si presentò a Giovanni e alla moglie un cert’uomo che solea abitare di là non molto lontano, stimato da tutte le genti per la sua dottrina, come colui che pizzicava dell’indovino, e presagiva molto bene negli almanacchi quanto dovea avvenire; ma quello che niuno sapea, egli era anche stregone, e sapea fare molte maraviglie coll’arte sua, comechè di rado se ne valesse, e solo per far qualche giovamento agli amici suoi, e talora anche più per ischerzo, che per altro. Giunto adunque costui dinanzi a Giovanni e alla moglie, incominciò con bel modo a pregarli che per quella sera gli dessero albergo, perché essendo la notte molto buja e piovosa, e mancandogli un buon tratto di via per andare a casa, non sapea come arrischiarsi, e quasi temea di rompersi il collo. A pena Giovanni ebbe udita la domanda dell’indovino, che, sendo uomo cortese e amorevole, gli disse: E tu hai ragione, e però stanotte ti rimarrai qui con esso noi per andartene domani al tuo viaggio. Che? gridò allora la moglie: vada egli a starsi in inferno. E se tu non te ne vuoi andare con la pioggia e col bujo, statti in sulla via, ch’io non intendo che tu mi ti arresti in casa un momento. Fuori dell’uscio, fuori incontanente. Il Dottore, che così era nominato, udendo tanta bestialità, si strinse negli omeri, e giurando di farne vendetta, se ne andò ai fatti suoi; e poco lontano di là picchiando all’uscio della Geva, pensò di pregare Taddeo che, in quel modo che meglio potea, ne lo allogasse la notte. Non era Taddeo ritornato ancora a casa; ma, fuggito dalla furia della moglie di Giovanni, erasi arrestato in una stalla, dove avea perduto molto tempo in compagnia del cuoco a dir male della padrona, e parte ad annaffiare la gola con una boccia di cervogia che aveano trafugata nel punto del furore. Per la qual cosa il dottore, trovata la Geva sola, si raccomandò a lei; ed ella, che sapea lui essere da Taddeo conosciuto, ne lo ricolse nella casetta sua, e fecegli onore con quella cenetta che potè, e posesi seco a mangiare, come colei che non attendeva il marito, il quale, sendo invitato altrove, le avea detto che per quella sera cenasse da sè all’ora che più le fosse piaciuto; e le avea lasciato per ciò certi quattrinucci, secondo la povertà sua, da sguazzare nell’abbondanza. Mangiando dunque il Dottore con esso lei, incominciarono a ragionare della gran virtù dell’indovinare, onde a poco a poco egli domandò alla Geva di vederle le mani, ed ella gliele aperse: onde il dottore, studiate le linee, le parlò in questa forma: Geva mia, io sono venuto in buon punto, imperciocchè domani tu avrai una ventura grande; e pensa che tu non avrai più a stare in questa affumicata casettina, ma dei entrare in uno de’ più ricchi palagi di Londra, nel quale sarai corteggiata a guisa di reina. Questi poveri cenci, che tu hai indosso, saranno scambiati in ricchi e nobili vestimenti; e non solo non istarai più a filare e a sofferire le percosse del marito, ma tu avrai d’intorno staffieri e donne da poter loro comandare, e cocchio da andare intorno come una signora. E voi tu più? che tu avrai, oltre a tutto ciò, uno de’ più giovani e de’ più ricchi e garbati mariti che ci sieno; tanto che sarai la più ricca e la più beata donna che viva. Ricôrdati solo, che mutando qualità di vita, tu prenda anche, per quanto puoi, le maniere nobili: sappi adattarti ai costumi loro gentili, sicchè tu non sia mai scoperta per quella povera Geva che tu sei, perchè allora ti verrebbe meno in un subito ogni tua fortuna. Stavasi la Geva ascoltando le parole del dottore a bocca aperta, ed era tentata di non credergli: ma egli le indovinò tante delle cose passate, fino delle più segrete e note a lei sola e a Taddeo, che finalmente gli prestò fede, e le venne al cuore un’allegrezza che le mancava il fiato, e già le parea di nuotare nell’oro e nella seta, e di comandare a bacchetta ad una turba di famigli. Sbrigatosi intanto Taddeo dalla compagnia del cuoco, ritornava a casa, e giunsevi appunto in sul colmo dell’allegrezza della donna sua, la quale, come lo vide, parea quasi impazzata, e levatasi in piè gli corse incontra, e in poche e confuse parole gli raccontò che fra poco la sarebbe stata da più che una reina, e gli empiè il capo di quattrini, di vestimenti, di livree, tacendogli solamente del marito nuovo, che forse era una delle consolazioni da lei più desiderate. Taddeo, mezzo fuori di sè e parte arrabbiato, perché vedea quivi il dottore solo con la Geva, poco mancò che non la suonasse in quel punto con un buon bastone; pure ebbe pazienza; e salutato così in cagnesco l’ospite suo, domandò a lei se la era briaca, e che volessero significare tante pazzie ch’ella stava dicendo. Allora il Dottore voltatosi a Taddeo, gli contò com’egli era stato discacciato dalla moglie di Giovanni, e ricoveratosi in casa sua, e che avea predetta una gran fortuna alla Geva; di che ell’era contenta come la vedea, pregandolo insieme a contentarsi che per quella notte egli trovasse ricetto in quella casetta con esso loro, donde si sarebbe pertempissimo la mattina vegnente partito. Taddeo udendo il nome della pestifera moglie di Giovanni, entrò in tanta collera contro di quella, che dimenticatosi ogni altra cosa e i sospetti suoi medesimi contro alla Geva e al Dottore, dopo di aver detto un gran male della superbia e della caparbieria di lei, fece quell’accoglienza che potè migliore allo strologo, e gli diede alloggiamento.

Ma il Dottore, che non dormiva, anzi pensava a tutto suo potere di dar qualche gastigo alla moglie di Giovanni per farnela ravvedere della mal osservata ospitalità, e dall’altro canto beneficare la Geva della grata accoglienza che fatta gli avea, prima che spuntasse il giorno si levò, e andato in un luogo solitario, gittò l’arte sua, costringendo non so quali spiriti a fare una subita mutazione della moglie di Giovanni e della Geva. Il tempo si rabbujò, fu un grandissimo fracasso di tuoni e folgori, che parea che ardesse il cielo, e in fine la cosa andò per modo che la moglie di Giovanni trasformata in Geva, quanto alla faccia, ma quanto all’animo rimasa quella di prima, venne traportata dormendo in casa e sul letticello, o piuttosto canile di Taddeo; e la Geva all’incontro, con l’effigie della moglie di Giovanni, fu anche essa dormendo trasferita al palagio di Giovanni, e quivi riposta in un morbido ed ampio letto e in una stanza reale.

Erasi già levato Taddeo, parte risvegliato dal romore del mal tempo, e parte stimolato dal bisogno di lavorare; onde aperto il finestrino della sua stanza, si acconciò dinanzi alla sua picciola panca a terminare certe pianelle; e non volle per allora destar colei che credea la Geva, parendole che la sera avesse troppo bevuto, e che la dovesse smaltire la cervogia. Per la qual cosa, presa in mano la lesina e gli spaghi, incominciò a traforare e a tirare, e di quando in quando a picchiar col martello sulle suole e sulla cucitura per fare un buon lavoro; e per ricrearsi da sè a sè cantava una canzonetta, tanto che il rumore destò la creduta Geva. Costei non ancora ben desta, e non sospettando punto di non essere nella stanza sua propria, incominciò con gli occhi ancora chiusi a gridare, e a dire: Che maladizione è questa? che romore? quale insolenza? Chi ha questo ardimento di cantare a tale ora così da vicino alla camera mia e di svegliarmi? È questo il rispetto che si ha alle dame? ma non sia più io, se non fo spezzar il capo e le braccia a quest’asino che raglia allo spuntare del dì, e se non gli fo mozzare gli orecchi. Buono, disse Taddeo ridendo, costei crede di essere già divenuta quella che le predisse lo strolago, e farnetica: andiamo avanti; e così detto canta. La donna apre gli occhi, e vede Taddeo; chiama infuriata a nome quanti servi avea: nessun risponde. Dà un’occhiata alla camera, vede un bugigattolo da topi; un’altra alle lenzuola, le trova di capecchio; e non sapendo che cosa ciò fosse, piena di maraviglia e di furia, cominciò a svillaneggiare Taddeo, dicendo che forse di accordo con Giovanni le avea tesa quella trama per mortificarla, ma ch’ella era dama, e non se ne curava punto, perchè tosto si sarebbe vendicata del marito, e avrebbe fatto andare il calzolajo sulle forche. Taddeo arrabbiato a questo nome di forche, perdette la pazienza, e chiamandola pazza, briaca e peggio, incominciò a minacciarla, che se la non si levava tosto, avrebbe dato di mano ad un bastone, e tentato di guarirla dalla pazzia per quel verso. Ella gli rispondea malamente, tanto che Taddeo fu sforzato di assalirla con le pugna; ed ella non sapendo che altro farsi, tacque pel suo meglio, e piena di maraviglia e di rabbia si pose indosso la gonnelletta e la gammurra della Geva, e si pose disperata a sedere sopra una sedia zoppa impagliata. Taddeo non volea che la stesse in ozio: ella tornava a borbottare. Egli le presenta la conocchia; ella la gitta in terra: Taddeo ripicchia, dicendo: Che credi tu? che le predizioni di uno strologo ti abbiano fatta diventare reina, di una trista femminetta che tu eri jersera e che tu se’ stata in vita tua, nata per istentare finchè sei viva? Fila tosto, o io ti farò vedere chi tu sei, e qual reame sia il tuo, reina di cenci, ch’io non so a che mi tenga che non ti dia oggimai tante busse, che tu vegga una volta che si ha ad ubbidire a chi porta i calzoni. Fila, che maledetta sia tu, e non mi far perdere la pazienza. Queste ultime parole furono dette da Taddeo con due occhiacci così stralunati e con tale vociaccia, che la nuova Geva, tremando a verga a verga tra per la paura di fuori e per la stizza di dentro, si diede a filare come sapea, perchè il mestiere era per lei disusato, o forse non l’avea mai tocco in sua vita.

Mentre che queste cose nella casa di Taddeo si facevano, la Geva dall’altro lato nel palagio di Giovanni si destò anch’ella, e cominciò a borbottare fra’ denti: Oh che bello e dolce sogno ho io fatto stanotte! Egli mi parea che fossi traportata fuori di questo mondo, e posta in un letto di rose e di viole col più bel marito a lato che fosse veduto mai (nota, per onestà dell’istoria, che Giovanni, sdegnato la sera per li mali portamenti della moglie, era andato a dormire in un’altra stanza). Ma dove son io, proseseguiva la Geva? Non vi ha giardino di primavera che uguagli lo spettacolo ch’io veggo. Sono io in un letto? Al certo queste lenzuola sono di raso. Non vi ha tela di lino così morbida. Io sogno; non vorrei più destarmi. Sta a vedere ch’io son morta, e sono in un altro mondo. Così dicendo dunque la Geva, senza punto sapere che si facesse, pose la mano al cordone della campanella, e per caso tirò; onde una cameriera, temendo, secondo la usanza, di avere un gran rabbuffo dalla maladetta padrona, entrò sulle punte de’ piedi e si presentò al letto, che quasi non ardiva di fiatare. La Geva, vedutala così ben vestita, le diede un dolcissimo saluto, di che la cameriera uscì quasi fuori di sè per l’allegrezza, e le domandò qual vestito volea quella mattina. La Geva impacciata, ricordandosi che l’indovino le avea detto stesse in contegni da signora, non sapendo chiedere, le disse che la volea quel medesimo dell’altro giorno; e la fu abbigliata a suo modo, con tanta maraviglia, che non sapea dove si fosse. Bello fu ch’entrò un’altra cameriera a dire alla prima che il cioccolatte per la signora era pronto; e la Geva studiando pure fra sè che cosa fosse cioccolatte, e confermandosi che fosse qualche abbigliamento, le disse: E bene, mettetemelo. Ma poichè la intese ch’era versato nella chicchera, e ch’era cosa da bere, la ripigliò: Io volli dire che me lo metteste là sulla tavola, che lo berò fra poco. Le due cameriere sparsero per tutta la famiglia che la loro padrona non si conoscea più, che la era divenuta un agnolo, tanto che tutti i domestici la vollero vedere; e dove prima fuggivano da lei come dal fuoco, parea che ognuno non sapesse più spiccarsi da lei, e si faceva un’allegrezza per tutta la casa come se le nozze si fossero fatte in quel giorno.

Ma la vera consolazione e maggiore di tutte le altre fu veramente quando Giovanni, intendendo da tutti i domestici suoi la gran mutazione che si era fatta nell’animo di sua moglie, andò alla stanza di lei per visitarla e vedere così gran maraviglia. Stavasi appunto la Geva in grandissima curiosità di vedere, fra le altre fortune a lei dall’indovino predette, anche il novello marito, quando le fu annunziato da uno de’ servi che veniva. Io vi so dire che alla poverina batteva il cuore come ad una tortorella, e più le battè ancora quando la vide un sì bello e garbato giovine che le comparve dinanzi. La non sapea più che dire, nè che fare. In un tratta diventò pallida, vermiglia e di più colori. Giovanni si rallegrò seco lei di avere udita da tutta la sua famiglia che la era così amorevole e buona. Ella all’incontro protestò che gli sarebbe stata ubbidiente in ogni cosa, gli baciò la mano, e gli si pose in ginocchioni dinanzi. Lagrimava Giovanni di tenerezza, e uscivano le lagrime dagli occhi di tutti i circostanti, quando la creduta Geva, non potendo più comportare la furia e le percosse di Taddeo, si fuggì da lui, e avviatasi correndo alla casa di Giovanni, la entrò appunto in quel momento in cui si facevano tante congratulazioni. La prima che fra tutti vide, fu la Geva; e uscì quasi di sè per lo stupore a vedere che la era ella medesima, e che tutti la corteggiavano come padrona; ma mentre che ella attonita non sapeva aprir bocca, e che tutti le domandavano: Che vuol dir, Geva? che buon vento ti ha qui guidata? eccoti, che Taddeo entra; di che la vera Geva temendo di essere battuta da lui, si tirò spaventata due passi indietro. Taddeo chiedendo perdono a Giovanni e a colei ch’era creduta moglie di lui, raccontò loro che la sua Geva era divenuta pazza per le parole di uno strolago, e ch’ella si credea gran signora, anzi stimavasi di essere moglie di Giovanni, e che gli era fuggita. Giovanni lo pregò che avesse buona cura di lei, e la trattasse caritativamente, perchè ella ancora ne sarebbe forse potuta guarire, e Taddeo diceva che non avea altro rimedio, che il bastone. Stavano confuse le due femmine e non sapeano che dirsi, nè che fare, quando il Dottore, o strolago, o negromante che vogliamo chiamarlo, entrò, e alla presenza di Giovanni chiedendogli perdono del suo ardimento, dichiarò qual fosse stata l’opera sua, e che tutto avea fatto per gastigare la moglie e farla de’ suoi falli ravvedere, minacciandola che l’avrebbe scambiata in peggio che nella Geva, se non avesse mutato tenore di vita: e dall’altro canto testificando che avea così bene côlto il punto dell’operazione, che Taddeo si era all’ora della tramutazione levato di letto, e Giovanni era stato quella notte in un’altra stanza. La creduta Geva cominciò allora a piangere dirottamente, e a chiedere perdono della passata superbia a Giovanni, e la Geva daddovero avrebbe volentieri tratti gli occhi di capo allo strolago che gli avea procacciata tanta felicità per così breve tempo. Il Dottore co’ suoi incantesimi restituì la propria immagine all’una e all’altra delle donne; e Giovanni fece un dono di cinquecento scudi a Taddeo, il quale divenne con essi un ricchissimo calzolajo: e da indi in poi, non avendo più la povertà che gli pungesse il cuore e il cervello, amò affettuosamente la Geva, e lasciò stare il bastone.

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