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LXXXII. La Speranza
LXXXI. Il Bevitore, o sia regola per dar giudizio di altrui LXXXIII. Il Pittore di ritratti

LXXXII.


La Speranza.


Meglio è fringuello in man, che in frasca tordo.


Io non so che diavol tentatore sia la speranza. Entra costei nel corpo quasi ad ogni uomo. Non ci è chi non si lusinghi di avere un dì qualche cosa più di quello che possiede. Quanto egli ha in mano di buono e di certo, non lo stima punto; sempra gli par più bello e migliore quello che gli stimola e punge il cervello. Oh! gli è pure più grosso quel boccone ch’io veggo colà, di questo che porto in bocca, dicea quel cane che passava il ponte, e vedea specchiato nell’acqua un pezzo di carne che avea fra’ denti. Gli è pur meglio ch’io lasci questo, prenda quello, e mi tuffi. Così fa, e rimane a denti asciutti. Io credo che il meglio sarebbe misurare quanto l’uomo ha, e prendere consiglio piuttosto da’ giorni dell’anno, che dalle sue voglie, le quali nascono l’una dall’altra, e non nascono come gli uomini, che dal grande n’esce uno piccolino; anzi ne avviene il contrario, che da una vogliuzza ne sbuca una maggiore, e da questa un’altra più grande; sicchè io non so come le abbiano fatto il ventre, chè la più picciola è gravida della maggiore, e non rifiniscono mai di partorire: nè ci è coniglio, nè colomba, nè porcellino d’India che sia tanto fecondo, perchè le son gravide sempre, partoriscono ogni dì, e non so di che ingrossino. Vuole la buona ventura che le sieno come quelle vescichette che fanno i fanciulli nella saponata, sicchè la prima scoppia presto e da luogo alla seconda; che se le fossero tutte durabili, in poco tempo ogni uomo parrebbe idropico, e avrebbe il corpo rigonfiato e tirato come un tamburo. Sia come si vuole, noi dunque siamo sempre travagliati da questa maledetta semenza che germoglia continuamente, e chi vuole una cosa, chi un’altra per migliorare la sua condizione. Oh se io potessi avere tale o tal cosa, dice uno, io sarei beato! E se talvolta la fortuna gliela concede, e fa i suoi conti in capo all’anno, trova ch’egli ne avrà avuto quello che avea prima, e che tanto gli era se fosse rimaso a quelle condizioni nelle quali si trovava; perchè tanti saranno stati i suoi pensieri, e forse le spese per averla, ch’egli avrà mandato a male molto tempo e danaro, e si sarà scioperato e disagiato; e avrà dall’una parte perduto tanto, che i calcoli si pareggiano. come avvenne a quel principe di cui si racconta la seguente novella.

A que’ tempi ne’ quali era grandissima la riputazione de’ Cavalieri della Tavola Ritonda, e quando gli uomini di grande animo, abbandonato l’ozio della famiglia, salivano a cavallo, e con una lancia sulla coscia andavano per le selve in traccia di avventure, fu già un nobilissimo principe il quale s’invogliò di aggirarsi per la terra, e di fare quello che faceano cotesti erranti cavalieri. Ma avendo egli udito, che quando ritornavano alle case loro, ragionavano delle grandissime imprese che aveano fatte del liberare donzelle dalle mani de’ ladroni, dell’uccidere giganti, del combattere co’ diavoli dell’inferno, e fra tante faccende non si diceva mai, o almeno di rado, a quale osteria avessero mangiato; e parendogli, oltre a ciò, che venissero a casa magri e sparuti che pareano graticci da seccar lasagne al sole, disse fra sè: Questo so io bene che a me non interverrà. Egli è una bella cosa acquistar gloria, e intendo anch’io di fare come gli altri; ma poichè il cielo, oltre l’avermi dato un gran coraggio, mi ha conceduto anche di che poter empiere la borsa, io non voglio correre pericolo di pascermi di foglie come i bruchi, o di nebbia, e intendo anche di non dormire sulla terra. Per la qual cosa, fatti grandissimi provvedimenti di danaro e di robe, incominciò il suo viaggio, e cavalcando un giorno lungo una montagna, alzò gli occhi ad una certa balza, e vide in un greppo intagliate queste parole:

O tu che passi, s’esser vuoi beato,
     Nelle viscere mie cerca un tesoro:
     La fata Dragontina l’ha allogato,
     Sarà del tuo valor tutto quest’oro.
     Non istancarti quando hai cominciato,
     Chè ti converrà far molto lavoro:
     Ma non senza fatiche, arti e perigli
     Giungono ad alto di Fortuna i figli.

Così dicea la scritta, e bastò per invogliare il magnanimo principe a quell’impresa, il quale pensando fra sè, disse a questo modo: Io so bene che un altro cavaliere errante che non avesse danari, perderebbe qui un lungo tempo a voler da sè rompere questo grandissimo sasso, ma a me la pare un’opera piuttosto da manovali e da facchini, che da uomini dabbene. S’egli si avrà a fare altro, toccherà poi a me; ma per ora io starò a vedere. Così detto, mandò incontanente intorno pel paese alcuni de’ suoi i quali accordarono a opera mille uomini a tanti danari per capo ogni dì, fino a tanto che avessero spezzato quel monte e fossero giunti al luogo del tesoro. Scarpelli, zapponi e strumenti di ogni genere incominciarono a far risuonar l’aria d’intorno; picchia, ripicchia, fece tanto quella genia, che aperse una strada nella montagna, e in poco tempo la fu traforata fuori, sì che si passava dall’una parte all’altra. Ma quando il principe fu giunto dalla parte di là, trovò un profondissimo stagno, e un’altra scritta che diceva:

Innanzi è l’oro; se vuoi far guadagno,
Dei passar oltre, e non a nuoto o a remi,
Ma di sassi riempier questo stagno.

Bene; e quest’anche non tocca me, disse il principe, e aperte nuovamente le borse, fece una bella diceria a que’ villanzoni, gli pagò il doppio, e furono ruotolati tanti sassi, greppi, ceppi e altro, che in pochi giorni fu ripieno lo stagno, tanto che si poteva passar oltre a piedi asciutti. Poco mancò che il principe non licenziasse i lavoratori, credendo finalmente che dopo tante fatiche il tesoro fosse già aperto e pronto alle sue mani; con tutto ciò volle che seco passassero tutti, acciocchè si trovassero presti ad ogni occorrenza, se per avventura fosse abbisognato. E la pensò bene, perchè quando fu di là dallo stagno, fatti pochi passi, all’entrare di una folta e grandissima selva, ritrovò intagliate nel tronco di un pino non so quali altre parole che significavano che per giungere veramente al luogo dove il tesoro era riposto, si aveano a tagliare gli alberi della selva ed atterrarla del tutto. Oh! disse il principe, l’opera è più lunga di quello che avrei stimato nel principio, e oggimai tanto ho speso, che poco più mi rimane di che spendere. Ma che si ha a fare? questa fia l’ultima sperienza. Ad ogni modo, se la mi riesce, io ne acquisterò un grandissimo tesoro, che ben dee esser tale, dappoichè la fata Dragontina l’ha qui celato con tanta cura, e mi ristorerò finalmente di tutti i dispendj che ho fatti fino a qui. Vadane ogni cosa, che m’importa? E così detto, accenna quello che si dee fare. Si taglia, si sbarbica, si fa romore che assorda; e appunto eccoti la selva a terra in un giorno, e terminata l’opera a tempo; perchè se la prolungava un altro giorno, non avea più il principe di che pagare gli operai; e la faccenda sarebbe rimasa imperfetta, ed egli forse sarebbe rimaso inabissato dalla maledetta fatagione, e chi sa qual gastigo avrebbe avuto dalla sua prosunzione dell’avere stuzzicata la fata e non compiuto l’opera. Ma per sua buona ventura, quando egli fu fuori della selva, eccoti che gli si presenta un’aperta e larga campagna, nel cui mezzo vide un orribile dragone, il quale al primo apparire del principe rizzò il capo, e gittando fuoco dagli occhi e dalla bocca, come facevano i dragoni a que’ tempi, gli disse: O di tutti gli uomini che vivono, il più baldanzoso e temerario, dove se’ tu ora venuto a morire? Qui è il tesoro della fata Dragontina collocato, ed io sono custode di quello. E però, dappoichè tu hai avuto coraggio di penetrare per tanti rischi fino a questo luogo, vedi se hai anche animo di affrontarti meco a battaglia. Dice la storia che quando il Principe udì il dragone a favellare, gli si arricciarono i capelli in capo, e gli corse un certo ribrezzo di freddo per tutte le vene; tanto che, s’egli avesse potuto farlo con suo onore, gli avrebbe mandati incontra i mille uomini che avea adoperati negli altri lavori; ma ricordandosi che quella era pure faccenda che toccava a lui, e che giunto era il punto di acquistare il tesoro, fece cuore, e calatasi in sugli occhi la visiera, pose mano alla spada, e andò incontro al dragone. Si appiccò una zuffa, che non fu mai veduta la più bestiale; perchè il povero Principe non avea solamente a combattere co’ denti della bestia, ma col fuoco e col fumo. Quella maladizione parea una fornace, e sputava carboni accesi con tanta furia, che pareano gragnuola, e di quando in quando gli dava strette co’ denti ad una spalla o ad un braccio, che se non fosse stato di finissime armi guernito, gli avrebbe sgretolate le ossa come cannucce. Egli all’incontro menava di taglio e di punta senza saper quello che si facesse, quasi cieco dal fumo, e una volta fu vicino a perire, perché menando un grandissimo riverso con quanta forza potè, fu portato dal peso della spada, che non trovò in che percuotere, colla faccia in terra, sicchè il dragone gli fu addosso, e se non era presto a rizzarsi in piedi, l’avrebbe strangolato. Non morì, ma non si levò però sì tosto, che non ne riportasse due o tre morsi che gli spiccarono via certi pezzi di carne dal diretano rimasugli scoperto dall’armatura; tanto che il sangue gli piovea come un rigagnolo da più lati. Finalmente, quando piacque al cielo, più per caso, che perch’egli sapesse quello che si facea, la spada calò sul nodo del collo al dragone e gli spiccò il capo; di che si avvide piuttosto alle grida di allegrezza de’ suoi i quali si stavano a veder la zuffa da lontano, che per saper egli quello che avesse fatto, perché non conosceva se fosse notte o giorno. Intanto dov’era caduto il dragone si aperse la terra di sotto, e quello ne fu inghiottito, e di là a poco uscirono della medesima apritura sei donzelle vestite di bianco, bellissime quanto sono tutte quelle degli antichi romanzi; cinque delle quali aveano in mano certe urne piene di monete coniate, e la sesta un’ampolla con dentrovi uno squisito balsamo per guarire ferite, le quali andate innanzi al principe, gli presentarono ogni cosa come sua per parte della fata Dragontina loro signora, e gli cantarono una canzone in lode del suo mirabile valore. Il principe le ringraziò, ma contorcendosi, perché le ferite gli cagionavano molta doglia; e le pregò che per parte sua facessero i dovuti convenevoli colla fata; e quelle sparirono. Allora il principe, ricolte le urne e l’ampolla, si fece stendere a’ suoi un agiato padiglione, e postosi a letto ordinò di esser unto col balsamo, e stette parecchi giorni a guarire, e parecchi altri a ristorarsi delle forze perdute. Quando egli fu sano, volle rivedere i conti di quello che avea speso nell’acquistare il tesoro, e dall’altra parte noverare le monete che avea ricevute dalle donzelle, e trovò che il conto era pareggiato, che e non avea vantaggio di un quattrino; e oltre a ciò, vide che il balsamo era appunto stato quella quantità che gli era bastata per risanarsi dalle ferite, e che non glie n’era sopravanzata una gocciola. Per la qual cosa ne trasse questa morale: «Molte fatiche fa l’uomo, nè però migliora la sua condizione di prima. Può ringraziare il cielo se le sue speranze non l’hanno fatto più povero.»

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