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Autori e comici
I.
In Italia vi sono tre maniere di scrittori drammatici, o teatrali, come si voglia dire.
Vi sono quelli che scrivono perchè si figurano (è una fissazione come tutte le altre) di avere avuto da madre natura il bernoccolo della commedia.
Vi sono di quelli che, da un giorno all’altro, si dànno a scrivere per il teatro per una circostanza singolarissima; perchè, metti caso, incontrarono qualcuno che gli disse: «Curiosa! a vederti di profilo somigli tutto al Goldoni! Perchè non scrivi? Secondo me, il teatro dev’essere il tuo elemento!».
Gli ultimi finalmente, sono i più: e sono quelli che, non essendo passati agli esami di fattorino della posta o di collettore delle tasse, si buttano per disperazione a scrivere una commedia o un dramma.
In questo mondo, le due cose più facili a farsi eccole qui: i peccati di desiderio e le commedie.
Chi è quell’analfabeta, in Italia, che non sappia scrivere una commedia? Chi è quel galantuomo fra noi, che possa chiudere gli occhi nel bacio del Signore, senza il rimorso di aver commesso un peccato mortale in quattro o cinque atti?
*
Appena lo scrittore drammatico ha finito di mettere insieme il suo primo lavoro, lo ricopia subito sur un bel quaderno di carta rigata, e scrive sulla copertina il titolo della commedia; per esempio: Amore e Morte, commedia in cinque atti di me Nespolino Citrulli.
Quella furia di metterci sopra il nome e il casato si direbbe quasi che è la paura di vedersi rubare la paternità del neonato.
Se lo scrittore è figlio di famiglia, chiama a raccolta per una data sera tutta la parentela, invitandola a sentire la lettura del primo tentativo teatrale.
Posto che il lavoro sia di genere serio, drammatico, affettuoso e sentimentale, allora tutta la famiglia sbadiglia e piange. Peraltro, facendo a fin di lettura un po’ di bilancio, si verrebbe a vedere che gli sbadigli sono stati più delle lacrime. Ma in famiglia c’è questo di buono, che gli sbadigli non si contano.
Se poi il lavoro, per dir come si dice, è di genere brillante, in questo caso la scena è tutta diversa.
Al primo frizzo che scappa fuori, sia pure una freddura da svegliare il singhiozzo, la madre, povera donna! comincia a ridere, il babbo si sveglia e, pover’uomo! ride anche lui; e siccome il riso è contagioso, così, dopo il segnale dato dai genitori, ridono le sorelle, ridono i fratellini, ride la serva, ride il cane, ridono i canarini, ridono i mobili, tutta la stanza ride.
Finita la lettura, il padre abbraccia teneramente il figlio, e asciugandosi gli occhi, gli dice:
— Mi sono divertito, come se fossi stato allo Stenterello! Quando la fai rappresentare?
— Presto: ma non consegno il copione, se non me lo pagano almeno duemila lire!
— Saranno un po’ troppe!
— Troppe? Se ci sono dei capicomici che hanno pagate mille e duemila lire perfino le commedie del Ferrari, del Marenco e del Cossa!... Non toccherebbe a me a dirlo: ma il Ferrari, una commedia come la mia, non se l’è mai sognata! —
*
Il giorno dipoi, il nostro autore novellino, col suo bravo copione in tasca, va a casa di un amico intimo e nel quale ha pienissima fiducia.
— Sai la notizia? Ho scritto una commedia!
— Bravo!
— Ma prima di darla sul teatro, voglio fartela sentire. —
L’amico impallidisce, e, facendo boccuccia, risponde:
— Troppo onore!
— Senza farti la corte, io ti credo l’unico che sia competentissimo a dare un giudizio in materia di produzioni teatrali. Dammi il tuo giudizio franco: fammi tutte le osservazioni che credi; perchè io sono venuto apposta da te per far tesoro de’ tuoi consigli. —
E mentre dice così, tira fuori il copione e comincia a leggere.
L’amico ascolta con religioso silenzio i cinque atti, e di tanto in tanto prende con un lapis alcuni appunti sopra un pezzo di carta.
— E così, che ti pare della mia commedia?
— Tu vuoi che sia franco, non è vero?
— Franchissimo. Io voglio il tuo giudizio schietto, aperto, perchè il giudizio tuo è quello di un uomo che di cose di teatro ha moltissimo gusto, e io mi levo tanto di cappello.
— Allora, con tutta franchezza, ti dirò che la scena quinta del prim’atto mi pare un po’ lunghetta e noiosa....
— Noiosa?... Perdonami, amico; ma t’inganni. Si vede che non ci sei stato attento.
— M’ingannerò; ma, secondo me, quella scena anderebbe scorciata.
— Neanche per sogno! se la scorciassi, la sciuperei.
— E allora lasciala stare.
— E i caratteri dei personaggi come ti paiono disegnati?
— Quello della Contessa, per esempio, mi pare il più scadente, il più antipatico....
— Quando si dice i gusti! E io, invece, ne sono innamorato. Fra tutti i caratteri della commedia, è quello che m’è riuscito meglio. Piuttosto che ritoccarlo, mi taglierei un dito della mano.
— Non ci mancherebb’altro!
— E i finali degli atti? che cosa ti pare del finalone dell’atto terzo?
— A dir la verità, mi par freddino, freddino, e mi fa una gran paura!...
— Allora, scusa se te lo dico, ma non capisci nulla. Se la commedia si salva, si salva per merito del finale del terz’atto. Dei lavori ne farò degli altri: ma un finale come quello non lo azzecco più.
— Vuol dire che avrò sbagliato io.
— Oh! hai sbagliato di certo, e non ti fa torto, perchè tutti, si sa, in questo mondo si può sbagliare. Del resto ti sono obbligatissimo dei consigli che mi hai dato, perchè io amo la franchezza. Io capirai bene, non sono come tanti, che vanno a leggere agli amici i propri lavori per sentirsi dir bravo sul viso. L’autore novizio, l’autore che si presenta per la prima volta sulla scena, ha bisogno di un amico intelligente e schietto, come te, che gli dica senza complimenti e a faccia tosta: «il tuo lavoro è un bel lavoro! coraggio, e rammentati che tu puoi far molto per il risorgimento del teatro italiano!». Ecco la vera critica, ecco la critica franca, che non guarda in faccia a nessuno: ecco la critica, come piace a me e a tutti quelli che non amano sentirsi adulare. Dunque, amico mio, grazie di cuore, e scusa tanto l’incomodo....
*
Lasciato l’amico, il nostro autore novellino va subito in cerca di un capocomico.
I capicomici, in generale, sono persone intelligentissime, o almeno se lo figurano: lo che per essi torna tutt’uno.
Non c’è capocomico, pur modesto che sia, che non la pretenda a profeta e che non abbia la presunzione d’indovinare, alla semplice lettura, se l’esito di una commedia sarà felice o disgraziato.
E invece!...
Quando un capocomico, dopo aver letto e accettato il vostro lavoro, vi piglia per la mano e vi dice con accento profetico: — «questo è un successo sicuro! glielo dico io, e basta!» — voi potete contare che, novantanove su cento, il vostro fiasco comincia fin da quel momento a spuntare sull’orizzonte. Si direbbe quasi che la Provvidenza divina si diverte a punire l’orgoglio di questi falsi profeti sulle spalle innocenti dei poveri autori. La Bibbia si riproduce: è sempre il povero Egitto che paga le spese della cocciuta superbia de’ suoi Faraoni.
I capicomici si dividono in due categorie: in capicomici, che fanno buoni affari (l’arte teatrale in Italia si serve sempre del dialetto dei bottegai) e in capicomici che fanno cattivi affari.
Il capocomico che fa buoni affari sta, per il solito, sulle sue. È sofistico e di difficile contentatura, e quando gli càpita fra i piedi un autore novellino, lo riceve con un certo sussiego, lo ammonisce paternamente sui pericoli della scena, sulle grandi difficoltà dell’arte e sui disinganni serbati alle false vocazioni, e finisce il più delle volte col consigliarlo in buona maniera a dedicarsi piuttosto alla fotografia o alla fabbricazione delle calze espulsive e dei cinti erniarj.
Durante questo colloquio, il capocomico ha la delicatezza di chiamare il neonato autore coi vezzeggiativi carezzevoli di «figlio mio» e di «figlio caro»: se poi arriva fino al punto di chiamarlo addirittura «mio ottimo e buon amico» allora è segno che ha proprio l’intenzione di levarselo subito di torno e di dargli un congedo definitivo.
Viceversa poi, il capocomico che fa cattivi affari è sempre di maniche larghe, anzi di maniche larghissime, come i confessori delle donne giovani e devote: fa buon viso a tutti e accetta a occhi chiusi tutti i componimenti drammatici, che gli vengono presentati, buoni, mediocri, o fischiabili che siano, purchè possa levarsi il gusto di scrivere su i cartelloni affissi alle cantonate: Commedia novissima, originale, l’Autore assisterà alla rappresentazione.
Se poi, disgraziatamente, il povero autore è fischiato, pazienza! Un morto di più o di meno sulle tavole del teatro non fa caso; specie sulle tavole del teatro italiano, dove l’apoplessia drammatica è una malattia indigena, come la febbre gialla nelle provincie messicane.
A sipario calato, il capocomico parla della commedia caduta, e ne parla con grandissima tranquillità di coscienza, perchè i capicomici, su per giù, sono come i medici e i chirurghi: ragionano su i cadaveri, ma non si commuovono mai.
*
L’autore esordiente o novellino, mirando, com’è naturale, a dare la sua prima commedia a una buona compagnia, e studiandosi, com’è naturalissimo, di scansare per quanto è possibile un rifiuto, si provvede di una eloquente lettera di presentazione per qualche capocomico di quelli di prima categoria, o, in altri termini, di quelli che fanno buoni affari.
Il capocomico, per riguardo alla lettera di presentazione, non potendo far altro, si rassegna a prendere il copione; ma lo prende con quel sorriso ineffabile di compiacenza, col quale prenderebbe una cambiale scaduta o un foglio falso di Banca.
Preso il copione, promette, sbadigliando fino agli orecchi, di dare il suo responso di benestare fra una quindicina o una ventina di giorni.
Venti giorni sono lunghi; ma finalmente passano: ed ecco il povero autore, che col viso acceso e colle mani gelate, si presenta nel camerino del capocomico, per sentire il suo verdetto di vita o di morte.
— Si accomodi! — gli dice il capocomico con quella buona grazia, con cui si direbbe a un cane importuno «va’ a cuccia!».
— Grazie infinite!
— La prego: non perdiamo il tempo in complimenti.
— Troppo buono.
— Ho letto il suo lavoro. Magnifico! —
L’autore, commosso, cambia subito di colore.
— Buono l’intreccio, i caratteri disegnati e coloriti stupendamente da vero maestro. —
L’autore, confuso, vorrebbe sputare, ma non può, perchè la lingua gli è rimasta attaccata al palato.
— Il dialogo è vivacissimo e scintillante di spirito.... e spirito di buona lega. Peraltro accetti un mio consiglio.
— S’immagini.... con tutto il cuore! — risponde l’autore con voce tremante dalla gran contentezza.
— La sua commedia è di cinque atti, non è vero? Ebbene, se io fossi in lei, la ridurrei in due atti soltanto, e meglio in un atto solo. Quando l’avrà ridotta in un atto, me la rimandi subito e fra quattro o cinque mesi, se avrò tempo, le prometto di mettergliela in scena: badi bene, se avrò tempo! —
Dopo questa antifona il povero diavolo torna a casa più morto che vivo; ma invece di perdersi di coraggio, si rassegna ad aspettare pazientemente che capiti alla piazza (altro vocabolo del dialetto furbesco del palcoscenico) qualcuno di quei capicomici di maniche larghe, compresi nella seconda categoria.
Alla fine, come Dio vuole, il capocomico pita; e l'autore novellino, senza mettere tempo in mezzo, va a cercarlo fino a casa e gli presenta il copione.
Col fare disinvolto dell’uomo avvezzo, il capocomico dà subito un'occhiata al numero dei personaggi, che entrano nella commedia, e un’altra occhiata all'ultima scena finale; poi dice solennemente:
— È un bel lavoro! un lavoro coi fiocchi! Ma.... lei ha fiducia in me?
— Si figuri!
— Allora le dirò che bisognerebbe fare un piccolo cambiamento.
— Quale?
— Vedo che nella sua commedia vi sono quattro donne, e io, presentemente, non ho disponibili in Compagnia che tre donne sole, perchè la prima Ingenua è incinta di nove mesi....
— E allora come si fa?
— Ci vuol poco. Si sopprime nella commedia una donna, e si mette invece un uomo. Guardi qui: invece di questa Emilia, facciamo un Emilio, e tutto è accomodato.
— Lei dice bene, ma la commedia non cammina più.
— Perchè non cammina? Ha fiducia in me?
— Si figuri!
— Dunque mi lasci fare. Tutte le commedie camminano: basta saperle mandare. Io, per sua regola, ne ho fatte camminare di quelle, che non avevano nemmeno le gambe! Ci crede?
— Lo credo!
— Un’altra osservazione. Ho visto che la prima donna nell'ultima scena muore di una sincope.
— Ossia muore per amore.
— Ebbene, questo finale non va. Bisogna mutarlo. Io conosco i gusti del pubblico.
— E come si rimedia?
— Facilissimo. Invece di farla morire, si fa che sposi il colonnello.
— Ma il titolo della produzione è Amore e Morte.
— Il titolo si muta, e si dice: Amore e Nozze. Ha fiducia in me? dunque mi lasci fare.
— E quando, all'incirca, si potrebbe andare in scena?
— Non tanto presto, perchè la sua è una commedia di concerto, e bisogna studiarla bene e con coscienza. Perchè, io vede, sono un capocomico di coscienza, e quando mi capita un lavoro difficile come questo, capisco che ci vogliono almeno due prove, e forse forse anche tre. Intanto stasera faccio levare le parti. —
II.
Eccoci al giorno fissato per la prima prova della commedia.
Fra le dieci e le dieci e mezzo di mattina, l’ autore esce di casa per incamminarsi verso il teatro.
Il suo polso segna cento quindici pulsazioni per minuto. Sulla bocca del proscenio e precisamente dintorno alla buca del suggeritore c'è un gruppo di persone bizzarramente illuminate da una striscia di sole, che penetra in teatro per una piccola finestrina praticata nel muro di fondo e vicinissima al soffitto. Il resto del palcoscenico rimane tutto, per il solito, in una oscura penombra che somiglia alle ventiquattro e tre quarti di sera.
Queste persone, raccolte intorno alla buca del suggeritore, sono gli artisti della compagnia, e precisamente quelli che entrano nella commedia nuova.
Assioma — Salvo poche eccezioni, il suggeritore è la vera musa ispiratrice dei nostri artisti di prosa.
— Signori, — dice a un tratto il capocomico — ecco qui l'autore; dunque possiamo incominciare.
*
Che cos'è in teatro la prima prova di una commedia nuova?
Per farsene un’idea abbastanza esatta, bisogna richiamarsi alla memoria quel mugolìo monotono e quasi inintelligibile, che fanno i preti e i beccamorti, quando accompagnano al cimitero qualche morto senza l'onore, cioè che vada a farsi seppellire per carità. Saranno orazioni quelle che borbottano, ma potrebbero anch'essere bestemmie, perchè non si capisce nulla. Standoci molto, ma molto attenti, si arriva a distinguere di tanto in tanto un sicut in cielo et in terra, oppure un lunghissimo e strascicato luceat eiiiii.... che par quasi una canzonatura.
Intanto il segnale è dato e la prova incomincia.
Atto 1o, Scena 1a. Amelia e Gilberto (prima donna e primo amoroso).
— Signori, grida il capocomico, li prego di stare attenti. È una bella commedia, ma ha bisogno di essere molto concertata.
Gilberto — Vostro padre uuuuuuuuu.... ancora tornato?
Amelia — Mio padre uuuuuuuuuu.... forse domani.
Gilberto — O Amelia, concedetemi uuuuuuuuu quanto vi amo!
Amelia — Tutti gli uomini dicono così e poi.... uuuuuuuuu meno del loro zigaro.
— Un momento! — dice l’autore interrompendo la prova: quindi volgendosi alla prima donna, osserva con voce dolce e melliflua:
— Pregherei la signora a dir sigaro e non zigaro. Noi fiorentini diciamo sigaro.
— (risentita) E io com'ho detto? non ho forse detto zigaro?
— Purtroppo! Preferirei invece che dicesse sigaro.
— Zigaro, sissignore, zigaro, zigaro, ho capito benissimo. Per sua regola e norma io pronunzio l’italiano come lui, e non ho di mestieri che nessuno venga qui a insinuarmi il modo di pronunziare le sillabe dell’alfabeto. — Chiuso l’incidente, come dicono alla Camera, la prova ricomincia, ossia ricomincia il solito mugolìo.
*
Si arriva alla 3a scena del 2o atto. È una scelta di grande impegno fra il padre nobile (che è il capocomico) e la prima donna.
— Ecco il punto culminante della commedia! — dice il capocomico all'autore. — A questa scena garantisco quattro chiamate al proscenio.... ha fiducia in me?
— Si figuri! — Dunque quando dico garantisco, lei può dormire tranquillo fra due guanciali. Dacchè passeggio queste tavole, non ne ho mai sbagliata una! Mai! Quando io dico a un autore «Qui lei vien fuori» son quattrini gigliati: quando dico invece «Questa è una cuffia» può star sicuro che suona a morto. Non ho mai sbagliato! Capisce lei? tutt'effetto della gran pratica; io non ho bisogno di ragionare: gli effetti teatrali li conosco al tasto. Mi fanno ridere questi buffoni di giornalisti quando s'impancano a voler dare dei giudizi sulle commedie nuove! Almeno sapessero scrivere! conoscessero almeno l’ortografia! —
In questo momento capita sul palcoscenico un giornalista pur che sia. Il capocomico tronca il discorso a mezzo, e andandogli incontro e stringendogli la mano grida in tuono di baritono: — Ciao, veccio mio! come stai? Ho da farti un monte di saluti: a Milano, a Torino, a Genova tutti mi hanno domandato di te. Perchè ti sei dato al poltrone? perchè scrivi così di rado? Peccato! che bell'ingegno sciupato!... Se avessi io il tuo spirito e la tua penna!... Ma Iddio manda le sacca a chi non ha il grano. Basta, tiriamo avanti con questa prova. Prego, ragazzi, un po’ di silenzio! —
E il capocomico e la prima donna cominciano la prova dalla loro scena.
Quand'ecco che, sul più bello, arriva il postino con un fascio di lettere. Il capocomico interrompe la prova a secco, prende le lettere, le scorre fra le dita, ne apre una con grandissima curiosità; e dopo aver letto poche parole, si mette ad urlare:
— Son cose da assassini! Cose da ergastolo! Ma se quei signori dell’Arena di San-Gattoni credono di girarmi nel manico, oh! la sbagliano davvero. L’hanno trovato il suo! Intanto, per mettermi in regola, scappo subito dall'avvocato.
— E la prova? — domanda il povero autore.
— La prova può camminare senza di me. Per la parte mia non dubiti. Domani alla prova generale lei vedrà di che cosa sono capace. Non sa che alla Mirandola sono stato feto di mettere in scena l’Amleto dalla mattina alla sera? E di quelli Amleti se n’è visti pochi, glielo dico io. Ha fiducia in me? dunque arrivedella a domani. —
Si finisce a pezzi e bocconi di mugolare il resto della commedia. Poi si fissa la prova generale per il giorno dopo, a mezzogiorno preciso: i comici se ne vanno via, e l’autore abbandona anche lui il palcoscenico.
*
Mentre l’autore, confuso e sbalordito da due ore di ronzìo e di mugolìo, s’incammina passo passo verso casa, ecco che sente toccarsi in un braccio.
Si volta: è il suggeritore.
— Com'è rimasto contento della prova?
— Pochino, a dir la verità.
— Ha mille ragioni! Quelli non sono artisti! Sono farisei. Trattano un povero autore esordiente peggio di un cane morto.
— Che ne pensa lei, signor suggeritore; la mia commedia anderà?
— Oh! per andare, anderà di certo: ma se va bene, creda pure che è tutto merito mio. La vita e la morte dei lavori nuovi sta nelle nostre mani, ossia nelle mani dei suggeritori. Noi una commedia nuova la possiamo mandare alle stelle, o farla sprofondare.... È l’unica attrattiva che abbia la professione del suggeritore. Se avessi tempo di studiar per bene la sua commedia gli garantirei un successone...; ma per l'appunto in questi giorni non ho la testa con me!
— Forse qualche disgrazia di famiglia?
— Peggio. Ho fuori la firma in una cambiale per un artista, che non gli nomino, perchè lo conosce bene anche lei. Un artista coi fiocchi, ma un vero birbante. Mi ha scritto due righe per dirmi che paghi io, perchè lui non può pagare. Fosse una gran somma, lo compatirei: ma si tratta di una miscea.... di una cambialina di dugento lire. Non potrebbe lei, per caso, imprestarmi questa bagattella per due o tre giorni?
— Mi dispiace, caro mio, — dice il povero autore tutto mortificato — se potessi, volentieri: ma ecco qui tutto il mio patrimonio.... Venti lire! e con queste devo andare alla fine del mese.
— Pazienza! prenderò intanto queste venti lire, e così non mancheranno più tutte. Con altre centottanta ho fatto la somma. Grazie per ora, e arrivederci a domani a mezzo giorno. La cerchi di essere preciso.—
Appena lasciato il suggeritore, Nespolino sente qualcuno che lo chiama per nome. Si volta; è il Trovarobe.
Nelle nostre compagnie drammatiche, il Trovarobe è l'unico artista drammatico che non abbia diritto, almeno per ora, al gran Collare della SS. Annunziata. Tanto lui che il lumajo possono pretendere alla croce di Cavaliere e magari anche a quella di Commendatore; ma nulla di più. Il Ministro della Pubblica Istruzione su questo punto si è dichiarato inflessibile.
Il Trovarobe domanda a Nespolino quali sono gli scenari e gli attrezzi che gli occorrono per la recita della sua commedia.
Nespolino risponde:
— Per il primo atto, mi ci vuole un salotto elegantissimo e signorile. — Ho capito — (Nel vernacolo del palcoscenico, si chiama salotto elegantissimo e signorile la scena meno sudicia e meno strappata che si trovi in magazzino).
— Nel second’atto ho bisogno di una Palazzina di campagna, con terrazza praticabile, prospiciente sopra un giardino.
— Ho capito! — (La terrazza praticabile, per il solito si sopprime: e per giardino s'intende un gelso dell’Isole Filippine, con due vasi di spinaci dipinti al naturale e collocati di fianco a un cancello).
— Per il terz'atto poi è necessaria una sala da pranzo con tavola apparecchiata, e nel mezzo alla tavola un vassoio con dentro un galletto arrosto.
— Mi dispiace, ma il galletto per l’appunto non ce l’ho. Se vuole, gli posso mettere nel vassoio una lepre di cartone, che par proprio viva!...
— Dico la verità, preferirei il galletto.
— Lasci fare a me, che ci rimedio io!...
— Ma come?
— Attacco una cresta rossa sulla testa alla lepre, e stia sicuro che dalla platea me la pigliano per un galletto. L’illusione è la stessa. —
Siamo alla prova generale.
Il suggeritore invece di suggerire, urla come una calandra. Pare un maestro di scuola che insegni ai ragazzi a cantare il Magnificat o le Litanie de’ santi.
Gli artisti non sanno una parola della parte. Ripetono quel che dice il suggeritore, e dove non intendono, suppliscono lì per lì con parole e frasi che derivano evidentemente dal vernacolo familiare dei Gorilla e dei Chimpanzè.
Finita la prova generale, il povero autore, con un viso che pare un Lazzaro andato a male, dice sospirando al capocomico:
— No, no: così non può andare!... È impossibile! C’è da fare un tuffo spaventoso!
— Ma che tuffo? — ripiglia il capocomico impermalito. — Gli artisti, caro mio, non bisogna vederli alla prova generale: donna nè tela, non la guardare al lume di candela, lo dice anche il proverbio. Gli artisti bisogna vederli quando son là, sui lumi della ribalta: è là che creano la loro parte: è là! è là! è là! e stasera ci riparleremo.
— Non s’arrabbi, per carità.... ma via, siamo giusti; quella di voler mandare in iscena una commedia nuova di cinque atti con due prove soltanto.... mi pare, con rispetto parlando, una mezza imprudenza.
— Capisco, caro mio, quel che lei vuol dire! oh! lo capisco per aria! Lei è di quelli che portano in palma di mano quegl'istrioni di artisti francesi, perchè ha sentito dire che un lavoro nuovo lo provano almeno venti o trenta volte. Ma c’è una bella differenza fra l’artista italiano e l’artista francese. L’artista francese, per sua regola e norma, se vuol essere qualche cosa, ha bisogno di studiare, e dimolto! Invece, l’artista italiano è creatore, è improvvisatore sulla scena: dirà se vogliamo, anche qualche sproposito: ma è sempre un bello sproposito, uno sproposito che rivela l’impronta del genio italiano.
— A dire il vero, mi seccherebbe stasera di fare un fiasco.
— In quanto a questo, non c’è pericolo. La sua commedia non è di certo un capolavoro. Tutt'altro: si vede qua e là che è il primo tentativo di un principiante: ma lo creda a me, in lei c’è la stoffa, proprio la stoffa, la vera stoffa.... e quando gli dico io che c’è la stoffa, stia sicuro che la stoffa c’è.
— E se poi mi fischiano?
— Anche la Norma del Bellini fu fischiata; lo tenga a mente.
— Non mi pare una gran consolazione.
— Eppoi, se la commedia è fischiata, chi è il vero sacrificato? Crede forse di esser lei? Il vero sacrificato sono io, io, povero diavolo, che ho speso tempo e quattrini per mettere in scena, per dir come si dice, un vero lavativo.
— Ma forse con qualche prova di più....
— Lo creda a me, una prova di più sarebbe quasi a carico. Questi lavori bisogna saperli improntare alla brava. Uno o due colpi da maestro, e là! Le troppe prove fanno rilessire la commedia. Dunque arrivedella a stasera e speriamo bene. A proposito, non si scordi di mettersi un paio di pantaloni neri e un vestito nero. Sa?... i casi son tanti! —
III.
Il povero autore novellino esce dalla prova generale con la paura in corpo e col cervello in visibilio.
Appena giunto nella strada, vede su tutte le cantonate il titolo della sua commedia in lettere cubitali, con sotto il suo nome e il suo casato, e più una riga di stampatello che dice: Commedia novissima italiana: l’Autore assisterà alla recita.
Si ferma dinanzi al primo cartellone che trova, e facendo finta di essere un forestiero si mette a leggerlo; e poi lo rilegge daccapo, e intanto sente i discorsi dei curiosi, che fanno comunello intorno a lui.
— Oh! stasera si ride! — dice uno.
— Perchè? — domanda un altro.
— Vedo che c'è una commedia nuova.
— Manco male! — soggiunse un terzo, — almeno mi leverò la voglia di fischiare.
— Si sa chi sia l’autore? questo nome di Nespolino Citrulli non mi è un nome nuovo.
— Io conosco un semplicista che si chiama così, uno di quelli che attaccano le mignatte al domicilio....
— Allora sarà lui!
— O anche se non è lui, — replica uno scolare del Liceo — dev'essere un citrullo di certo.
— Scusi.... — domanda allo scolare il povero autore, serbando il più stretto incognito — scusi: che lo conosce lei l’autore?
— No.
— O allora come fa a dire che è un citrullo?
— Me Io figuro! Un uomo che scrive una commedia in cinque atti, non può essere nulla di buono — risponde lo scolare; e seguitando a mangiare una fetta di migliaccio, che tiene in mano, se ne va tranquillamente pe’ fatti suoi.
*
Cosa incredibile ma vera! l’autore novellino, se passeggia per la città il giorno della recita della sua commedia, si volta sospettoso di qua e di là, e finisce col mettersi in capo che tutti lo guardino.
— Ma che proprio sappiano che io sono l’autore della commedia di stasera? — chiede a se stesso. Non avrei mai creduto di esser conosciuto da tanta gente! —
Un altro segno particolare: l’autore drammatico, in quei giorni che sta per mettere in scena un suo lavoro, è garbatissimo con tutti: saluta tutti, ha un sorriso per tutti, si cava magari il cappello a tutti e stringe la mano a tutti, anche al tavoleggiante del Caffè, anche al cameriere della Trattoria, anche al creditore che gli ha fatto la porcheria di richiedergli i denari prestati.
Il giorno della recita va a tavola, all’ora del pranzo, come tutti gli altri giorni, ma non mangia nulla. Vorrebbe stordirsi col bere; e invece, dopo aver bevuto, si sente più in sè di prima.
Ha il tremito addosso, ha l’agitazione febbrile nell'anima, e dice a tutti sorridendo:
— Credetelo, sono tranquillissimo, non sento nulla, proprio nulla, nulla, il gran nulla!
*
Suonano le sette e mezzo della sera.
Gli artisti sono tutti nel camerino a vestirsi.
L’autore novellino, cogli occhi smarriti e colle mani di dietro, passeggia in su e in giù per la scena, come un orso bianco nella sua gabbia.
Di tanto in tanto mette il capo nel camerino del capocomico che sta truccandosi, e gli domanda:
— Come anderà a finire?
— Caro mio, la scena è un mare instabile. Ne ho visti tanti cascare! Quel che c’è di buono, egli è che di fischi non si muore.
— C’è dunque anche il caso d’esser fischiati?
— Nulla di nuovo sotto il sole! Io però spero bene; perchè, vede, lei fra le altre cose, ha la fortuna di aver dato la sua commedia a una compagnia simpatica e ben vista dal pubblico; e questo vuol dir molto.
— Però il pubblico di questo teatro mi pare qualche volta anche troppo severo.
— Severo, no: dica bisbetico. Vede come si porta con me? Io, non faccio per dire, sono il cucco, la simpatia, il beniamino di tutti i pubblici dei teatri d’Italia. E si capisce, perchè non toccherebbe a me a dirlo, ma se domani, puta caso, morissero di accidente il Rossi e il Salvini, c’è poco da scegliere: non ci resto che io. Eppure questo pubblicaccio qui mi tiene il sussiego, si direbbe quasi che mi ha a noia.
— E il motivo?...
— Caro mio, questione di colore..., ci siamo intesi?... In politica io sono come il Trovatore del Verdi; io fremo!... E questo qui è un pubblico malvone, un pubblico d’impiegati governativi! Bisogna lasciargli il suo sfogo! Oh! ma quando lo voglio costringere a battermi le mani, altro se ce lo costringo! Quando io sono là, sui lumi della ribalta, e che voglio davvero l’applauso, a me non mi si dice di no.
— E dunque lei crede?...
— Il suo lavoro è un bel lavoro, e devo piacere. —
Intanto il capocomico chiama un servo di scena e gli domanda: — Come c’è gente in teatro?
— Così, così: un mezzo teatro appena.
— Me lo figuravo. Capisce eh, signor Autore? E lei avrebbe preteso per la sua commedia quattro o cinque prove di più? Sarebbero state spese bene come veriddio! Se lo so! coi lavorucci di questi principianti senza nome e senza credito, non si ripigliano i quattrini dei lumi.
L’autore, a questo complimento, rimane per cinque minuti fulminato e non dà segno di vita.
*
Il teatro pur troppo è mezzo vuoto; ma gli amici dell’autore ci sono tutti, tutti fino a uno! E aspettando che si alzi il sipario, ridono fra loro, bisbigliano, si ammiccano e si dànno delle laughissime fregatine di mano in segno di sincero compiacimento.
Gli amici dell’autore drammatico, per il solito, non sono cattivi di cuore; ma l’unica speranza che rallegri la loro vita è quella di poter fischiare cordialmente l’amico.
*
Siamo vicini al momento solenne.
L’orchestra suona la solita e malvagia sinfonia, tanto per indisporre l’animo del pubblico.
Il sipario si alza.
Se la commedia piglia buona piega ed è applaudita, il capocomico rientra fra le quinte e dice all’autore:
— Caro mio! Lei può ringraziar me! Nelle mani d’un altro, questa commedia non arrivava al second’atto: era un fiasco sicuro. —
Poi vengono sul palcoscenico gli amici, i quali, affollandosi intorno all’autore e stringendogli la mano, gli bisbigliano:
— Caro mio, ringrazia noi! Senza di noi, credilo, la commedia non arrivava in fondo. Ci siamo rovinate le mani a furia di battere. Spero che ci pagherai da cena.
— Che vi pare del lavoro?
— Il lavoro rivela che hai molta attitudine...; ma come lavoro drammatico.... via.... è piuttosto scipito, anzi molto scipito! —
IV.
C’è poi il rovescio della medaglia. C’è il caso, cioè, che la commedia faccia naufragio a mezza strada.
La prima scena passa fredda: la seconda freddissima: alla terza si sente qualcuno, che da un palco di quarta fila fa il verso del gatto e dalla platea risponde un altro facendo il verso del cane: alla quarta scena, tutta la platea comincia a tossire e tutti i palchi starnutiscono: alla quinta si sentono dei psiii prolungatissimi e dei basta concisi, ma prepotenti: alla sesta, rumore sordo di piedi e di ombrelli battuti sul tavolato, con accompagnamento di grida, di sibili e di ferine emissioni di voce: alla settima finalmente tutto il pubblico fischia come un uomo solo, e valendosi della sua prerogativa di sovrano assoluto, fa calare il sipario.
In uno di questi casi (o sono pur troppo frequentissimi) il palcoscenico offre uno spettacolo bizzarro e straziante.
Il povero autore, o rimane appoggiato a una quinta, senza fiato, senza parola, stupido e mezzo morto; oppure reagisce rabbiosamente e grida come un ossesso che sono quei cani dei comici che gli hanno assassinata la commedia.
Dall’altra parte, il capocomico rientra nel suo camerino e borbotta a voce alta:
— Accidenti alle commedie nuove e a quei buffoni che vogliono il risorgimento del teatro italiano! —
*
Intanto gli amici dell’autore, non potendo reggere alla piena della loro contentezza, corrono sul palcoscenico per consolare (dicono essi) il povero amico.
E lì, uno dopo l’altro, adoperano diversi modi per esprimere comicamente il loro falsissimo dolore.
C’è l’amico che gli stringe la mano con espressione, ma non gli dice una sola parola: gli dà un’occhiata lunga e dolorosa e se ne va via.
Un altro gli sussurra nell’orecchio:
— La commedia è bella! ma te l’hanno straziata. Sono una fitta di cani. —
Un terzo dice:
— Il lavoro è bellissimo; ma non poteva piacere. Troppo nojoso. —
Un quarto soggiunge:
— Non poteva finir bene! Avevi in teatro troppi nemici: fischiavano tutti come biacchi! Figurati che ho visto fischiare perfino il Questore!... — Ma l’amico più crudele di tutti è quello che aspetta l’autore fischiato all’uscio del teatro, e presolo a braccetto, si diverte a tormentarlo e a fargli male apposta, proprio come i ragazzi quando godono a strappare le penne agli uccellini vivi.
Difatti l’amico comincia a dirgli:
— Perchè ti scoraggisci così? Non ti vergogni? il pubblico ti ha fischiato; ma la tua commedia, per me, rimane sempre una gran bella commedia.
— Lo dici sul serio? — domanda il povero autore, ripigliando un pò di fiato.
— Per conto mio, lo dico francamente, è un capolavoro: c’è condotta, c’è intreccio, c’è azione, movimento, interesse....
— Mi pareva anche a me! — grida l’autore rincorato; eppure il pubblico!... Ma già il pubblico è una bestiaccia che soffre di simpatie e di antipatie. Ti ringrazio, amico, delle tue parole: tu mi confermi nell’idea che io sono stato fischiato ingiustamente, e che la mia commedia è buona.
— Adagio con quel buona; — soggiunge subito l’amico, dispiacente che il povero autore cominci a consolarsi del fiasco, — adagio con quel buona; diciamo discreta, e forse diremo bene. Ma una volta che il pubblico l’ha fischiata, ci vuol pazienza! Noi ci possiamo ingannare, ma il pubblico, caro mio, quando fischia, non s’inganna mai!
— Come? e non hai convenuto tu stesso che nella commedia c’erano delle buone cose? — Adagio! Non mi far dire delle scioccherie. Ho detto che c’erano delle buone intenzioni: ma c’era anche molta roba da chiodi, della roba, credilo, da farsi tirar dietro le panche. Ti assicuro che in certi momenti non son potuto più stare alle mosse: ho dovuto fischiare anch’io. E sai se io ti sono amico!... —
*
Giunto nella sua cameretta, l’autore si abbandona spossato sopra un canapè o sopra una seggiola a bracciuoli, e riandando con la mente le speranze dileguate in un attimo e meditando sulla ingiustizia del pubblico e sulla poca coscienza di certi artisti teatrali, giura solennemente di volersi vendicare.... E vendicarsi come?
Ahimè! scrivendo subito un’altra commedia!
Egli è appunto questa ignobile smania di vendetta che ha fatto pullulare, e moltiplicare in Italia tanti commediografi di tinta falsa e tanti Congressi drammatici, con Soldatini e senza soldatini!...
Oh! Iddio nella sua infinita bontà e misericordia, fu così generoso una volta da regalarci quel brav’uomo di Carlo Goldoni; ma dopo ce l’ha fatto tanto scontare!