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GRONINGA.
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La Groninga è forse di tutte le provincie dei Paesi Bassi quella che la mano dell’uomo ha più meravigliosamente trasformata.
Nel sedicesimo secolo, una gran parte di questa provincia era ancora disabitata. Era un paese di aspetto sinistro, coperto di sterpeti, d’acque stagnanti, di laghi tempestosi, e inondato ogni momento dal mare; nel quale erravano frotte di lupi e sciami innumerevoli d’uccelli acquatici, e non si sentiva altra voce che il canto dei ranocchi e il lamento dei daini. Tre secoli di lavoro coraggioso e paziente, smesso più volte senza speranza e poi ripreso con maggiore ostinazione, e condotto a fine in mezzo a ogni sorta di difficoltà e di pericoli, hanno trasformato quella regione selvaggia e spaurevole in una terra fertilissima, intersecata da canali, popolata di fattorie e di ville, dove fiorisce l’agricoltura, ferve il lavoro, circola il commercio, e brulica e si espande una popolazione agiata e civile. La Groninga, la quale nel secolo scorso era ancora una provincia povera, che pagava allo Stato una metà meno della Frisia e dodici volte meno dell’Olanda propriamente detta, è ora, rispetto all’estensione del suo territorio, una delle provincie più ricche del regno, e produce da sè sola i quattro decimi dell’avena, dell’orzo e della colza che si raccolgono nei Paesi Bassi.
La parte più florida della Groninga è la settentrionale, e lo è a tal segno, da non potersene formare una giusta idea, se non percorrendo quelle campagne; nè io potrei, benchè le abbia percorse, descriverle meglio che aggiungendo le mie osservazioni e quelle che raccolsi dai Groninghesi, alle descrizioni che ne danno l’agronomo francese Conte di Courcy, il quale pure non fece che attraversar di volo il paese, e il belga Delaveleye, autore d’una bell’opera sull’economia rurale della Neerlandia, ch’ebbi già occasione di rammentare.
Le case dei contadini sono straordinariamente grandi, e hanno quasi tutte due piani, e molte finestre, ornate di ricche tendine. Fra la strada e la casa v’è un giardino piantato d’alberi esotici e coperto d’aiuole fiorite; e accanto al giardino un orto pieno di belli alberi fruttiferi e d’ogni sorta di legumi. Dietro la casa, s’alza un edifizio enorme, che racchiude sotto un solo tetto altissimo, la stalla, la scuderia, il fienile, e un grande spazio libero che può contenere il raccolto di cento ettari. In questo edifizio si vede ogni sorta di strumenti d’agricoltura d’Inghilterra e d’America, molti dei quali perfezionati dagli stessi contadini; delle file lunghissime di vacche, degli stupendi cavalli neri, e una pulizia meravigliosa in ogni parte. La casa dei contadini, nell’interno, può reggere il confronto di qualunque casa signorile. Vi si trovan dei mobili di legno d’America, dei quadri, dei tappeti, il pianoforte, la biblioteca, dei giornali politici, delle riviste mensili, le più recenti opere d’agricoltura, e non di rado l’ultimo fascicolo della Revue des deux mondes. Benchè amino il lusso e la vita agiata, questi contadini hanno conservato i costumi semplici dei loro padri. La maggior parte di essi, possessori d’un mezzo milioncino di lire, o di poco meno, o di molto di più, non sdegnano di metter mano all’aratro e di dirigere in persona i lavori dei campi. Alcuni mandano uno dei loro figliuoli all’Università, il che non è piccolo sacrifizio, perchè si conta che uno studente costi su per giù ai suoi parenti quattromila lire all’anno; ma la maggior parte sdegnano come inferiori al loro stato le professioni di medico, d’avvocato, d’insegnante, e vogliono che tutti i loro figliuoli rimangano alla campagna. Questi contadini sono alla testa del paese, e non v’è altra classe della popolazione che s’innalzi sopra di loro. Fra loro son scelti quasi tutti i membri dei varii Corpi elettivi, e persino dei deputati agli Stati Generali. Le cure della campagna non li distolgono dal pigliare una parte operosa nella vita politica e nell’amministrazione della cosa pubblica. Non solamente seguono il progresso dell’arte agricola; ma anco il movimento del pensiero moderno. Ad Haven, vicino alla città di Groninga, mantengono a proprie spese una buonissima scuola d’agricoltura, diretta da un agronomo illustre, e frequentata da più di cinquanta scolari. Anche i piccoli villaggi hanno musei di storia naturale e giardini botanici, istituiti e conservati a spese comuni da poche centinaia di contadini. Le contadine stesse, nei giorni di mercato, vanno a visitare i musei dell’Università di Groninga, e vi si trattengono lungamente, domandando notizie e istruendosi fra loro. Alcuni contadini fanno di tratto in tratto un viaggio d’istruzione nel Belgio o nell’Inghilterra. La maggior parte s’occupano di quistioni teologiche. Molti appartengono alla sètta dei mennoniti, che sono i quaccheri dell’Olanda. Il Delaveleye racconta che, avendo visto sulla strada che congiunge i due bei villaggi di Usquert e di Uythuysen, quattro bellissime fattorie, domandò a un oste a chi appartenevano, e questi gli rispose: che appartenevano a dei mennoniti, e soggiunse: — Son gente comoda: devono avere ciascuno almeno seicento mila lire. — Ho inteso dire, — ripigliò il Delaveleye — che fra i membri di questa sètta non ci sono poveri: è vero, per ciò che riguarda questo distretto? — Non è vero, — gli rispose l’oste; — cioè, sì, a esser giusti, perchè il solo povero che c’era, è morto pochi giorni fa, ed ora non ce n’è più. — I costumi severi, l’amore del lavoro e la carità reciproca bandiscono la miseria da quelle piccole comunioni religiose, nelle quali tutti si conoscono, si sorvegliano e s’aiutano. La Groninga, insomma, è come una specie di repubblica governata da una classe di contadini civili; un paese vergine e nuovo, nel quale nessun castello patrizio alza la testa sopra le case dell’agricoltore; una provincia dove ciò che la terra produce, resta nelle mani di chi la fa produrre, e l’agiatezza e il lavoro sono da per tutto congiunti, e l’ozio e l’opulenza da per tutto divisi.
Ma non sarebbe completa la descrizione, se tralasciassi di parlare del diritto speciale dei contadini della Groninga, chiamato beklem-regt, il quale si considera come la principale cagione dello Stato straordinariamente prospero di questa provincia.
Il beklem-regt è il diritto di occupare un podere col pagamento d’una rendita annua, che il proprietario non può mai aumentare. Questo diritto passa agli eredi così laterali che discendenti in linea retta, e il possessore può trasmetterlo per testamento, venderlo, affittarlo, ipotecarlo persino, senza il consenso del proprietario delle terre. Però, ogni volta che questo diritto passa da una mano all’altra o per eredità o per vendita, egli deve pagare al proprietario il fitto di uno o di due anni. Gli edifizii che son nel podere, appartengono, per lo più, al possessore del beklem-regt, il quale, quando il suo diritto si estingua, può esigere il prezzo dei materiali. Il possessore del beklem-regt paga tutte le tasse, non può cangiar la forma della proprietà, non ne può scemare il valore. Il beklem-regt è indivisibile. Una sola persona lo può possedere, e per conseguenza uno solo dei suoi eredi riceverlo. Però, pagando la somma stipulata per il caso del passaggio del beklem-regt da una mano all’altra, il marito può far inscrivere sua moglie, e la moglie suo marito, e allora il consorte superstite eredita una parte del diritto. Quando il fittaiuolo cade in rovina, o non paga il fitto annuale, il beklem-regt non si estingue punto di primo diritto: i creditori possono farlo vendere; ma colui che lo compera deve prima di ogni cosa pagare al proprietario tutti i debiti arretrati.
L’origine di questo fitto ereditario è assai oscura. Nella Groninga pare che sia cominciato nel medio evo nei poderi dei conventi. Allora, avendo la terra pochissimo valore, i monaci accordavano facilmente ai coltivatori la possessione d’una certa parte dei loro poderi, colla condizione che pagassero loro ogni anno una certa somma, ed un’altra somma ad ogni decesso. Questo contratto assicurava al convento una rendita fissa e lo esimeva dall’occuparsi d’un podere che ordinariamente non produceva nulla. L’esempio dei conventi fu seguito dai grandi proprietari e dalle Corporazioni civili. Essi si riserbavano la facoltà di congedare il fittaiuolo di dieci in dieci anni; ma non si valevano di questa facoltà perchè, valendosene, avrebbero dovuto pagare il valore degli edifizii stati costruiti nelle loro terre, e non avrebbero trovato facilmente un altro fittaiuolo. Durante i torbidi del secolo decimosesto, il diritto diventò di fatto ereditario, o almeno parecchi bandi lo dichiararono tale. La giurisprudenza e l’uso determinarono i varii punti che erano oggetto di contestazione; fu redatta una formola più chiara, che venne generalmente accettata; e d’allora in poi il beklem-regt si mantenne accanto al codice civile, sempre rispettato, e si diffuse a poco a poco in tutta la provincia di Groninga.
I vantaggi che derivano all’agricoltura da questa maniera di contratto, sono facili a comprendersi. In virtù del beklem-regt, i coltivatori hanno un interesse continuo e fortissimo di fare ogni maggiore sforzo possibile per accrescere la produzione delle loro terre. Sicuri come sono, di godere essi soli il frutto di tutti i miglioramenti che possono introdurre nella coltivazione, — di non aver cioè, — come i fittaioli ordinari, — da pagare un fitto tanto più elevato, quanto meglio riescano ad accrescere la fertilità delle terre che coltivano, — essi tentano a questo scopo le imprese più ardite, introducono le novazioni più ardue, effettuano i miglioramenti più costosi. La ricompensa legittima del lavoro è il prodotto intero e certo del lavoro stesso. Quindi il beklem-regt è un potentissimo stimolo all’opera, allo studio, al perfezionamento.
Così un diritto bizzarro, ereditato dal medio evo, ha creato una classe di coltivatori che godono di tutti i beneficii della proprietà, eccetto che non ne serbano per sè tutto il prodotto netto, ciò che appunto li distorrebbe dalla coltivazione. Invece di fittaioli continuamente trepidanti di perdere le loro terre, avversi ad ogni innovazione costosa, soggetti ad un padrone e sempre intesi a nascondere la prosperità del loro stato, c’è in Groninga un popolo di usufruttuarii liberi, dignitosi, semplici di costumi, ma avidissimi d’un’istruzione, della quale comprendono tutti i vantaggi, e interessati a propagarla in tutti i modi; una classe di contadini che praticano la cultura, non come un lavoro cieco e un mestiere disdegnato; ma come una nobile occupazione, che richiede l’esercizio delle più alte facoltà dell’intelligenza e loro procura fortuna, importanza sociale, rispetto pubblico; dei contadini che sono economi nel presente, prodighi per l’avvenire, disposti ad ogni sorta di sacrifizi per fecondare i loro terreni, ingrandire le loro case, acquistare i migliori strumenti e le migliori razze d’animali; una popolazione rurale, infine, che è contenta del suo stato, perchè la sua sorte non dipende che dalla sua attività e dalla sua previdenza.
Finchè il possessore dei beklem-regt coltiva le sue terre egli stesso, il fitto ereditario non produce che buoni effetti. Cessano però questi buoni effetti dal punto che, valendosi del suo diritto di subafittare, egli cede ad un altro il diritto di usufruttare il podere per una data somma, colla quale continua a pagare il proprietario. In questo caso rinascono tutti gl’inconvenienti del sistema comune, colla differenza che qui il coltivatore deve mantenere due categorie di oziosi invece che una. Il subaffitto era rarissimo altre volte, poichè i prodotti della coltivazione bastavano appena a nutrire la famiglia del possessore del beklem-regt, quando questi coltivava egli stesso il podere. Ma dopo il rincaro di tutte le derrate alimentarie, e soprattutto dopo l’istituzione del commercio coll’Inghilterra, i guadagni sono abbastanza considerevoli, perchè il possessore del beklem-regt possa trovare un secondo fittaiuolo disposto a pagargli un fitto superiore alla rendita ch’egli deve fornire al proprietario; e per questo l’uso di subaffittare comincia a diffondersi, e diffondendosi maggiormente in avvenire, porterà delle conseguenze dannose.
Frattanto, quando si cerca quale potrà essere lo stato futuro della società umana, si suol desiderare che avvengano queste due cose: prima, un aumento crescente della produzione; secondo, una ripartizione della ricchezza conforme ai principii della giustizia. Ora un fatto che la giustizia richiede è che al lavoratore sia assicurato il godimento dei frutti del suo lavoro e dei suoi progressi. È dunque bello e consolante il vedere sulla riva estrema del Mare del Nord un uso antico, che risponde in qualche modo a codesto ideale economico, e che frutta a tutta una provincia una prosperità straordinaria ed equamente divisa.
A questa opinione del Delaveleye fu fatta, tra le altre, un’obbiezione capitale. La straordinaria proprietà della Groninga, gli si domandò, deriva veramente dal beklem-regt, da codesto affittamento ereditario, che pure produsse altrove delle conseguenze affatto diverse, o piuttosto dalla fertilità eccezionale di quelle terre? Il Delaveleye respinge questo dubbio, dicendo che quella stessa straordinaria prosperità e quello stesso perfezionamento della cultura esistono nella zona torbosa della Groninga, che è tutt’altro che fertile; e che non si trovano, d’altra parte, se non in grado molto inferiore, nella Frisia, dove il terreno è di uguale natura. Se poi l’affittamento ereditario non ha prodotto in altri paesi le medesime conseguenze che nella Groninga, gli è perchè in quei paesi fu ed è praticato diversamente, esempio alcune provincie d’Italia, dove il condotto di livello, ch’è presso a poco un beklem-regt, inceppa la libertà del coltivatore, coll’obbligo di dare ogni anno al proprietario una quantità determinata di un certo prodotto. Tutti gli economisti olandesi, conchiude, sono concordi nel riconoscere gli eccellenti effetti di quest’uso, affermando che la Groninga deve al beklem-regt la sua ricchezza, e nei congressi agricoli che trattano codesta quistione, prevale il desiderio che siffatta maniera di contratto venga adottata anco nelle altre provincie.
Proseguendo la mia escursione a traverso la campagna groninghese, arrivai sino alla costa del Mare, del Nord, presso l’imboccatura del golfo di Dollart. Questo golfo non esisteva prima del tredicesimo secolo. Il fiume Ems sboccava di punto in bianco nel mare, e la Groninga era congiunta all’Annover. Il mare distrusse la regione torbosa, che si stendeva fra quelle due provincie, e formò il golfo il quale dal sedicesimo secolo si va lentamente restringendo per effetto del limo che si accumula lungo le sue coste. Già molte dighe, costruite l’una dinanzi all’altra, segnano le conquiste che fece la terra sul mare, e se ne innalzano continuamente delle nuove le quali accrescono via via il dominio agricolo della Groninga, facendo fiorire bellissimi campi d’orzo e di colza dove pochi anni innanzi infuriavano le onde e naufragavano i battelli dei pescatori. È bello il vedere dall’alto delle dighe che difendono quelle coste, come s’incontrano, si confondono e si trasformano il mare e la terra. Ai piedi della diga si stende un limo acquoso già coperto in gran parte di erba e di pianticelle verdi; un po’ più in là, una mota rappresa, che già è terra; più oltre, un fango umido che digrada a poco a poco in un’acqua densa e torbida; e di là da questa, dei banchi di sabbia, alcuni dei quali si sollevano in modo da formare delle dune e delle isolette. In una di queste isole, chiamata Rottum, abitava, anni sono, una famiglia, che viveva della caccia delle foche; delle altre si raccontano cose strane, come di romiti misteriosi, di apparizioni, di mostri. Gli stagni d’acqua limosa che si stendono ai piedi delle dighe si chiamano Wadden, ossia polders nello stato di formazione, e son terreni coperti dall’acqua durante l’alta marea, i quali si sollevano a mano a mano che le correnti dell’Ems e del Zuiderzee vanno a deporvi dei nuovi strati di argilla. Durante la marea bassa, gli armenti li guadano; in qualche punto, vi passan le barche; dei grandi stormi d’uccelli marini vi scendono per nutrirsi delle conchiglie che vi ha lasciato il riflusso. Fra meno di cent’anni, saranno scomparsi uccelli, bassi fondi, barche, stagni, bracci di mare; le isole saranno dune che difenderanno la costa, e l’agricoltore farà sorgere da questa nuova terra una vegetazione lussureggiante e benefica. Così da questo lato l’Olanda, s’avanza vittoriosamente nel mare, vendicando le antiche ingiurie col ferro dell’aratro e colla lama della falce.
Con tutto ciò, non mi sarei formato un concetto della ricchezza delle campagne groninghesi, se non avessi avuto la fortuna di vedere il mercato di Groninga.
Ma prima di parlare del mercato, occorre parlare della città.
Groninga, così nominata, secondo alcuni, da Grunio Troiano, e fondata, secondo altri, centocinquanta anni prima dell’èra cristiana, intorno a una fortezza romana che Tacito chiama Corbulonis monumentum (tutte cose affermate e negate, senza conclusione, da parecchi secoli); è la città più considerevole dell’Olanda settentrionale per vastità e per commercio; ma forse la meno curiosa per uno straniero. È posta sur un fiume chiamato Hunse, nel crocicchio di tre grandi canali che la congiungono con parecchie altre città commerciali; è circondata da alti bastioni, costruiti nel 1698 dal Coehorn, il Vauban olandese; ed ha un porto, che sebbene sia lontano parecchie miglia dalle foci dell’Ems, può ricevere i più grandi bastimenti mercantili. Le strade e le piazze sono vastissime, i canali larghi come quei di Amsterdam, le case più alte che in quasi tutte le altre città olandesi, le botteghe degne di Parigi, la pulizia degna di Broeck; nulla di strano nelle forme, nei colori, nell’aspetto generale. Arrivando da Leuwarde, pare di essersi avvicinati di cento miglia ai nostri paesi, di essere rientrati in Europa, di sentir l’aria della Germania e della Francia. La sola singolarità di Groninga son certe case coperte d’un intonaco grigiastro, incrostato di piccolissimi pezzetti di vetro, che quando vi batte su il sole, brillano d’una luce strana, per cui pare che i muri siano tempestati di perle e di bullette d’argento. V'è un bel palazzo municipale, costruito durante la dominazione francese, una piazza del Mercato che ha nome di essere la più grande piazza dell’Olanda, e una vasta chiesa, dedicata anticamente a San Martino, che presenta vari tratti notevoli delle diverse fasi dello stile gotico, ed ha un altissimo campanile di cinque piani rientranti, che par formato di cinque piccole torri di chiese diverse poste l’una sull’altra.
Groninga ha un’Università, per la quale è onorata dalle città vicine del nome d’Atene del Nord. Quest’Università, posta in un edifizio nuovo e vastissimo, non ha che un piccolo numero di studenti, poichè i contadini, i soli ricchi della provincia, mandano raramente i loro figliuoli agli studi, e i ricchi signori della Frisia vanno a studiare a Leida. Ma è tuttavia un’Università degna di stare accanto alle altre due. V’è un bel gabinetto di anatomia e un museo di storia naturale che contiene molti oggetti preziosi. Il programma degli studi è poco diverso da quello delle altre due Università; ne differisce solamente la direzione, la quale, per la vicinanza dell’Annover, subisce l’influsso della scienza e della letteratura tedesca, e presenta un carattere religioso suo proprio. I teologi di Groninga, dice Alfonso Esquiroz nel suo Studio sulle Università olandesi, formano, nel movimento intellettuale dei Paesi Bassi, una scuola a parte, la quale nacque, verso il 1833, nel seno stesso della città ortodossa per eccellenza: Utrecht. Un professore di Utrecht, il signor Van Heusde, cercò di aprire un nuovo orizzonte alle credenze religiose; il signor Hofstede de Goot, allievo dell’Università di Groninga, partecipe delle sue idee, gli si unì; e in tal modo si formò il nucleo d’una società teologica, residente in questa città, la quale ribellandosi al protestantismo sinodale, e negando formalmente ogni autorità umana in materia di religione, vuol iniziare un tipo di cristianesimo proprio della Neerlandia, di cui sarebbe difficile dare un’idea chiara, per la ragione che ne danno una molto oscura coloro stessi che lo professano e lo propugnano cogli scritti. In tutte queste dottrine eterodosse, osserva a tal proposito l’Esquiroz, le quali possono senza grave pericolo introdursi nel paese, perchè, in mezzo al movimento continuo delle idee religiose, rimangon fermi ed immutabili gli usi, le tradizioni, le forme dell’antica fede; v’è un punto grave e delicato sul quale gli ortodossi cercano di mettere gli avversari tra l’uscio e il muro, e non ci riescono: la divinità di Gesù Cristo. Su questo punto, il pensiero degli ortodossi si avvolge in una nuvola. Gesù Cristo, per loro, è il tipo più perfetto dell’Umanità, l’inviato di Dio, l’immagine di Dio. Ma è egli Dio in persona? Questa questione essi la scansano con ogni sorta di sottigliezze scolastiche. Alcuni, per esempio, dicono di credere alla sua divinità, ma non alla sua deità: risposta oscura tanto che equivale quasi a una negazione. Per il che si può considerare la dottrina degli eterodossi olandesi come un deismo sentimentale, più o meno legato alla poesia delle forme cristiane. Con tutto ciò l’ardore delle questioni religiose va scemando da molti anni in qua. Gli studenti dell’Università di Groninga s’occupano più volentieri di letteratura e di scienza, al quale scopo formano tra loro delle Società in cui fanno letture e studi in comune, soprattutto di scienze applicate, la quale predilezione è uno dei caratteri più notevoli della razza frisona, con cui il popolo groninghese ha molti tratti di somiglianza e molti vincoli di parentela. Gli studenti di Groninga sono più quieti e più studiosi di quei di Leida, i quali, per quanto si può essere scapati in Olanda, hanno la riputazione di scapati.
Oltre la gloria dell’Università, che data dal 1614, Groninga ha quella di parecchi uomini illustri nelle scienze e nelle arti, dei quali è dilettevole udir parlare, col suo stile vivo e forbito, messer Ludovico Guicciardini, che pare avesse per questa città una particolare simpatia. Primissimo egli pone Ridolfo Agricola, «al quale, tra li altri autori, Erasmo nelli suoi scritti dà lodi immense, dicendo che di qua da monti nelle doti litterali, non è mai stato maggior huomo, nè più complito di lui, & che non è alcuna honesta disciplina, nella quale egli con qual si voglia artefice non potesse contendere: intra i Greci Grecissimo, intra i Latini Latinissimo, in Poesia un altro Virgilio, nell’orationi un altro Politiano, eloquentissimo, Philosofo, musico, & scrittore di più Opere degne, con altre gratie & felicità rare che gl’attribuisce.» Rammenta in seguito «il Vesello, cognominato Basilio, Philosofo eccellente, di tanta dottrina, virtù & scienza in ogni facultà, come apparisce per infinite sue opere, scritte & date alla stampa, che si chiamaua per sopra nome la luce del mondo;» e dice che per timore di non poter lodare degnamente questo Vesello e quell’Agricola, i quali sono «le due stelle di Groeninghen,» preferisce tacere «& lasciare il foglio bianco, per chi saprà più di lui esaltare il nome & la patria loro.» Cita infine il nome «d’un altro grande huomo, cittadino altresì della medesima terra, appellato Rinieri Predinio, autore degnissimo di diversi libri scritti con sommo honore, & laude.» Oltre ai quali si possono rammentare il famoso orientalista Alberto Schultens, il barone Ruperda, Abramo Frommins, ed altri.
Nei costumi e nell’aspetto del popolo, non v’è per uno straniero una differenza molto notevole dalla Frisia. Differiscono soltanto i caschi delle donne. A Leuwarde la maggior parte sono d’argento; a Groninga son tutti d’oro, e della forma perfetta d’un casco, che copre la testa intera; ma se ne vede assai meno. Le signore, s’intende, non lo portano più; le ricche contadine l’hanno smesso anch’esse, per far come le signore; e oramai non son più che le serve, le quali possano vantarsi discendenti legittime delle vergini armate, che secondo l’antica mitologia germanica, presiedevano alle battaglie.
Riguardo ai costumi, ebbi da un personaggio di Groninga delle notizie preziose, che credo non si trovino in nessun libro di viaggi. Là le consuetudini che informano la vita delle ragazze e delle donne maritate sono affatto diverse da quelle dei nostri paesi. Fra noi una ragazza che si marita esce da uno stato di soggezione e direi quasi di prigionia, per entrare in una vita libera, nella quale si trova improvvisamente circondata dalla considerazione, dagli omaggi e dai corteggiamenti della gente che prima la trascurava. Là invece la libertà e la
galanteria sono un privilegio delle ragazze, e le signore vivon raccolte, vincolate da mille riguardi, avvicinate con mille cautele, circondate d’un freddo rispetto, quasi neglette. I giovanotti non si dedicano che alle signorine, e in questo è concessa loro una grande libertà. Un giovane, che frequenti una famiglia, se anche non è un amico dei più intimi, offre alle ragazze, o pure ad una ragazza, di accompagnarla al concerto o al teatro, in carrozza, di notte, da solo a sola, e non c’è nè padre nè madre che vi si opponga; e chi vi si opponesse, passerebbe per sciocco o per villano, e sarebbe deriso o biasimato. Un giovane e una signorina rimangon fidanzati per molti anni; e per tutto questo tempo, si vedono ogni giorno, vanno a passeggiare insieme, stanno in casa soli, e la sera, prima di separarsi, fanno una conversazione di mezz’ora sulla soglia della porta, senza testimoni. Ragazze di quindici anni, delle prime famiglie, attraversano la città da un capo all’altro per andar alla scuola e per tornare a casa, anche sul far della notte, sole, e dovunque si fermino e con chiunque parlino, nessuno vi bada. All’opposto, della menoma libertà che si pigli una signora, si fa un dire infinito; il che però occorre così raramente, da poter quasi dire che non occorre mai. “I nostri giovani,” mi diceva quel signore, “non sono punto pericolosi. Sanno fare i galanti colle signorine, perchè le signorine son timide, e la loro timidità gli incoraggia; ma colle signore non ci hanno il verso. A mia memoria, in questa città non vi sono stati che due casi notorii d’infedeltà coniugale.” E mi specificò i casi. “Così è, caro signor mio,” soggiunse poi, battendomi una mano sul ginocchio, “qui non si fanno altre conquiste che in agricoltura, e chi vuol farne in un altro campo, bisogna che si compiaccia di far attestare da un notaro, ch’egli ha intenzione di combattere secondo le leggi della buona guerra e coll’onesto fine della pace.” Argomentando falsamente dal mio silenzio, che quello stato di cose non m’andasse a’ versi, “Tale è il nostro modo di vivere,” soggiunse; “noioso, se volete; ma sano. La vita voi la tracannate, noi la beviamo a lenti sorsi. Voi godrete qualche volta di più; ma noi siamo più continuatamente contenti.” — “Dio vi benedica,” io dissi. “Dio vi converta,” rispose.
Ma veniamo al mercato, che è l’ultimo spettacolo vivo ch’io vidi in Olanda.
La mattina per tempo feci un giro intorno alla città per veder arrivare i contadini. Ogni ora arrivava un treno che ne versava una folla; da tutte le strade della campagna venivan carrozze variopinte, tirate da bei cavalli neri, sulle quali sedevano maestosamente delle coppie coniugali; per tutti i canali giungevano barconi a vela carichi di derrate; in poche ore la città fu piena di gente e di rumore. I contadini son tutti vestiti d’un panno quasi nero, hanno un cravattone di lana intorno al collo, guanti, catenelle, gran portafoglio di bulgaro, sigaro in bocca, e un faccione di cor contento. Le contadine sono infiorate, rinfronzolite, ingioiellate, come le madonne delle chiese spagnole. Terminate le loro faccende, si spandono per le trattorie e per le botteghe, non già come i nostri contadini, che guardano qua e là timidamente coll’aria di chiedere il permesso d’entrare; ma con viso e piglio di gente che sa di essere da per tutto desiderata e inchinata. Nelle trattorie, le tavole si colarono di bottiglie di vino di Bordeaux e di vino del Reno; nelle botteghe, i fattorini si sbracciano a tirar giù roba. Le contadine vi son ricevute come principesse e vi spendono infatti principescamente. Seguono, per esempio, di queste scene, che intesi raccontare da testimoni oculari. Un mercante dice a una signora di città il prezzo d’una veste di seta. — Troppo caro, — risponde la signora. — La piglio io; — dice una contadina che le è accanto, e se la piglia. Un’altra contadina va a comprare un pianoforte. Il negoziante glie ne fa veder uno che costa mille lire. — Non ne avrebbe di più cari? — essa domanda; — dei pianoforti di mille lire ne hanno anche le mie amiche. — Marito e moglie passano dinanzi alla vetrina di un venditore di stampe, vedono un bel paesaggio a olio colla cornice d’oro, si fermano, vi scoprono una vaga rassomiglianza colla loro casa e il loro podere; la moglie dice: — Compriamolo? — il marito risponde: — Compriamolo! — entrano nella bottega, mettono sul banco trecento fiorini l’un sull’altro, e si portan via il quadro. Quando hanno fatto le loro compre, vanno a vedere i Musei, entrano nei caffè a legger giornali, o fanno un giro per la città guardando con aria pietosa tutto quel popolo di bottegai, d’impiegati, di professori, d’uffiziali, di proprietari, che in altri paesi sono invidiati da chi lavora la terra, e che a loro paion povera gente. Chi non sapesse come stanno le cose, crederebbe, a veder quello spettacolo, di essere capitato in un paese dove una grande rivoluzione sociale abbia tutt’a un tratto fatto passare la ricchezza dai palazzi alle capanne, e i nuovi ricchi sian venuti dalla campagna in città per beffare i signori spogliati. Ma il più bello è la sera, quando ritornano alle loro fattorie e ai loro villaggi. Allora per tutte le strade della campagna si vedono quei bizzarri veicoli correre rapidissimamente, cercando di passar gli uni davanti agli altri; le donne stesse stimolano i cavalli, per riuscir vittoriose nella gara; i vincitori fanno schioccare la frusta in segno di trionfo; l’aria echeggia di risa e di canti; fin che il turbinio festoso dispare nel verde infinito della campagna cogli ultimi barlumi del tramonto.