< Olanda
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Utrecht
Amsterdam Broek

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UTRECHT.


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Da Amsterdam si suol fare una gita a quella famosa città d’Utrecht, della quale abbiamo tutti pronunziato tante volte il nome, da ragazzi, cercando di stamparci nella testa la data del 1713, quando ci preparavamo all’esame di storia. Si va a Utrecht, che in sé stessa non offre nulla di straordinario a chi abbia già visto le altre città olandesi, non tanto per curiosità, quanto per potere, in avvenire, riferire a’ luoghi veduti il ricordo degli avvenimenti famosi che seguirono fra le sue mura. Si va a respirare l’aria della città, dove fu compiuto l’atto più solenne della storia d’Olanda, l’alleanza delle provincie neerlandesi contro Filippo II; dove fu segnato il trattato che restituì la pace all’Europa dopo la guerre formidabili per la successione di Spagna; dove cadde sotto la mannaia del duca d’Alba il capo innocente della ottuagenaria Van Diemen; dove sono ancora vive e parlanti le memorie di san Bonifazio, di Adriano VI, di Carlo V, di Luigi XIV; e ribolle ancora il furore battagliero degli antichi vescovi, trasfuso nel sangue dei calvinisti ortodossi e dei cattolici ultramontani.

La strada, partendo da Amsterdam, passa accanto al Dimermeer, il polder (si chamano polder i terreni prosciugati) più profondo dell’Olanda; fiancheggia il braccio del Reno chiamato Vecht, e trascorrendo fra ville e verzieri, arriva alla città d’Utrecht, che siede in mezzo a una campagna fertilissima, irrigata dal Reno, reticolata di canali, e sparsa di giardini e di case.

Utrecht, come Leida, ha l’aspetto triste e solenne d’una gran città decaduta; vaste piazze deserte, grandi strade silenziose e larghi canali in cui si specchiano case di forma antica e di color fosco. Ma v’è una cosa nuova per gli stranieri. I canali sono, come l’Arno a Firenze e la Senna a Parigi, profondamente incassati fra le strade che li fiancheggiano; e sotto le strade vi sono officine, magazzini, botteghe, abituri che hanno le porte sull’acqua e la strada per tetto. La città è circondata di bei viali, ed ha un passeggio famoso, che Luigi XIV preservò generosamente dal vandalismo dei suoi soldati: una strada lunga una mezza lega francese, ombreggiata da otto file di bellissimi tigli.

La storia della città d’Utrecht è in gran parte immedesimata con la storia della sua cattedrale, che è forse di tutte le chiese d’Olanda quella ch’ebbe più strane vicende. La fondò verso il 720 un vescovo di Utrecht; la ricostrusse di sana pianta un altro vescovo verso la metà del secolo decimoterzo; un uragano le portò via di netto, il primo agosto del 1674, una grande navata, che non fu più ricostruita; la devastarono gl’iconoclasti nel secolo decimosesto; la restituirono al culto cattolico i Francesi nel secolo seguente; vi ristabilirono il culto protestante gli Olandesi dopo l’invasione di Luigi XIV; infine, le statue, gli altari, le croci v’entrarono e ne uscirono, vi furono innalzati e rovesciati, venerati o vilipesi, ad ogni voltare di vento. Era certo anticamente una delle più vaste e più belle chiese dell’Olanda; ora è monca e nuda, e ingombra in gran parte di banchi che le danno l’aspetto d’una camera da deputati. L’uragano del 1674, distruggendo una navata, separò la chiesa dalla sua altissima torre, di sulla quale si vede con un telescopio quasi tutta la provincia d’Olanda, una parte della Gheldria e del Brabante, Rotterdam, Amsterdam, Bois-le-duc, il Leck, il golfo di Zuiderzee; mentre un orologio munito di quarantadue campanelle slancia nell’aria, insieme col suono delle ore, la romanza amorosa del conte d’Almaviva o la preghiera dei lombardi alla prima crociata.

Accanto alla chiesa v’è la celebre Università, fondata nel 1636, la quale dà ancora vita alla città, benchè sia decaduta, come quella di Leida, dalla sua prima altezza. L’Università di Leida ha un carattere particolarmente letterario e scientifico; quella di Utrecht un carattere religioso, ch’essa comunica e riceve insieme dalla città, la quale è la sede dell’ortodossia protestante. Per questo si dice che per le strade d’Utrecht si vedono delle figure pallide e rifinite di puritani, che sono scomparse altrove, e che paiono ombre evocate d’altri tempi. Il popolo ha un aspetto più grave che nelle altre città, le signore affettano un contegno monacale, e persino fra gli studenti v’è una certa velleità di vita raccolta e penitente che non esclude nè birra, nè feste, nè chiassi, nè cattive pratiche. Oltre che sede dell’ortodossia, Utrecht è ancora una delle più forti cittadelle del cattolicismo, professato da ventiduemila dei suoi abitanti; e nessuno può aver dimenticato la tempesta che scoppiò in Olanda quando il Pontefice volle ristabilire in quella città l’antica sede episcopale; tempesta per la quale si ridestarono i sopiti rancori tra protestanti e cattolici, e precipitò il ministero del famoso Torbecke, il piccolo Cavour delle Provincie Unite.

Ma in fatto di religione, Utrecht possiede una preziosa rarità da Museo, un avanzo archeologico curiosissimo, la sede principale della sètta giansenista, la quale non si trova più nello stato di Chiesa costituita, fuorchè nei Paesi Bassi, dove conta ancora trenta Comunità e qualche migliaio di fedeli. La Chiesa, decorata della semplice iscrizione Deo, si alza in mezzo a un gruppo di casette disposte in forma di chiostro, e unite fra loro da piccoli cortili ombreggiati da alberi fruttiferi; e in quel ricetto silenzioso e tristo, nel quale non molti anni sono non v’era che un’entrata, che si chiudeva durante la notte come la porta d’una fortezza, languisce la dottrina decrepita di Giansenio e sonnecchiano i suoi ultimi devoti. Oggi ancora, ogni nuova nomina di vescovo è regolarmente annunziata al Pontefice, che risponde regolarmente con una bolla di scomunica, la quale vien letta dal pulpito e poi sepolta e dimenticata. Così questo piccolo Port-Royal, che sente già il freddo e la solitudine della tomba, prolunga ancora la sua ultima resistenza contro la morte.

Di istituzioni notevoli Utrecht non ha che la zecca e la scuola pei medici militari del regno e delle colonie. Le antiche fabbriche di quel bellissimo velluto, che fu per tanto tempo famoso in Europa, sono scomparse. Fuor che la Cattedrale, nessun monumento. Il palazzo municipale, che conserva qualche vecchia chiave e qualche vecchio stendardo, e la tavola su cui venne firmata la pace d’Utrecht, non è che un edifizio del 1830. Il palazzo reale, che non vidi, dev’essere il più modesto de’ palazzi reali, poichè i ciceroni olandesi, che non dimenticano nulla, non mi ci hanno trascinato.

Ma questo palazzo, se la tradizione non è bugiarda, fu testimonio di una comica avventura seguita a Napoleone il Grande. Durante il suo brevissimo soggiorno in Utrecht egli occupò la camera da letto di suo fratello Luigi, ch’era attigua alla stanza da bagno. Si sa che, dovunque andasse, conduceva con sè un servitore, il quale aveva l’esclusivo incarico di tenergli pronto un bagno per qualunque ora del giorno e della notte. La sera ch’egli arrivò ad Utrecht, di malumore, come fu quasi sempre in Olanda, andò a letto per tempo, e lasciò, se per inavvertenza o per proposito la tradizione non lo dice, la porta della camera aperta. Il servitore del bagno, ch’era una buona pasta di brettone, dopo avergli preparata la tinozza in un’altra stanza, se ne andò a letto egli pure, in un camerino poco lontano dalla camera imperiale. Verso la mezzanotte si svegliò improvvisamente assalito da quei dolori che impongono di pigliare la via più breve per arrivare alla mèta, saltò giù dal letto, e in camicia com’era, e pien di sonno, si mise a cercare la porta tastoni. La trovò; ma per il suo malanno, non conoscendo bene il giro delle stanze, invece di riuscir dove voleva, capitò dinanzi alla porta dell’Imperatore. Sospinse, la porta s’aperse, entrò, ed entrando, rovesciò un seggiolone. Una voce terribile, quella voce! gridò: — Chi è? — Il povero giovane, agghiacciato dallo spavento, si sforza di rispondere, e la parola gli muore sulle labbra; tenta di uscire per dove è entrato, non trova più la porta; sbalordito, tremante, cerca un’uscita da un’altra parte. — Chi è? — ripete l’Imperatore con voce tonante, balzando in piedi. Il servitore, affatto fuor di sè, gira, tasta, inciampa in un tavolino, rovescia un’altra seggiola. Allora Napoleone, non dubitando più d’un tradimento, afferra il suo grosso orologio d’argento, si slancia addosso al malcapitato, lo agguanta alla strozza, e gridando aiuto con quanta voce ha nella gola, gli martella la testa di formidabili colpi. Accorrono i camerieri, i ciambellani, gli aiutanti di campo, il prefetto di palazzo colle spade e coi lumi, e vedono.... il Grande Napoleone e il povero servitore, in camicia tutti e due, in mezzo a uno scompiglio di casa del diavolo, che si guardano a vicenda, l’uno in atto di profonda meraviglia, e l’altro in atto di preghiera supplichevole, come in una pantomima da teatro. Si sparse la voce dell’avvenimento nella città, in Olanda, in tutta Europa; come sempre, la notizia si alterò propagandosi; si parlò d’un attentato, d’una congiura, dell’assassinio consumato, di Napoleone seppellito, dell’universo sconvolto.... e di tutto questo scombussolío fu cagione un cattivo desinare d’un servitore.


Ma il principe che lasciò più ricordi in Utrecht fu Luigi XIV. A Utrecht, dicono i Francesi, si va per vedere il rovescio della medaglia del Gran Re; e questo rovescio della medaglia è la guerra del 1670, durante la quale egli fece un lungo soggiorno in quella città.

Sul rovescio della medaglia di Luigi XIV sta scritta una delle pagine più gloriose e più poetiche della storia d’Olanda.

La Francia e l’Inghilterra si alleano per conquistare l’Olanda. Per quale ragione? Non ci sono ragioni. Agli Stati Generali che domandano un perchè, i ministri del re di Francia rispondono allegando delle impertinenze di gazzette e una medaglia coniata in Olanda con un’iscrizione irriverente per Luigi XIV. Il re d’Inghilterra, dal canto suo, adduce a pretesto un quadro nel quale son rappresentati dei vascelli inglesi catturati ed arsi, e il non aver la flotta delle Provincie-Unite salutato un bastimento inglese. Si spendono cinquanta milioni di lire in apparecchi da guerra. La Francia mette in mare trenta vascelli carichi di cannoni, l’Inghilterra raduna una flotta di cento vele. All’esercito francese forte di centomila soldati, disciplinato, agguerrito e accompagnato da un’artiglieria formidabile, si unisce l’esercito del vescovo di Munster e dell’Elettor di Colonia, forte di ventimila spade. I generali si chiamano Condé, Turenna, Vauban, Lussemburgo; il ministro Louvois presiede allo stato maggiore; lo storico Pélisson lo segue coll’incarico di scrivere le gesta; Luigi XIV, il più gran re del secolo, circondato dalla sua splendida Casa, scortato, come un monarca asiatico, da una falange di gentiluomini, di cadetti, di svizzeri impennacchiati, inargentati e dorati, accompagna l’esercito. Tutta questa forza e questa grandezza, che schiaccerebbe un immenso impero, minaccia un piccolo paese abbandonato da tutti, non difeso che da venticinque mila soldati e da un Principe di ventidue anni, sprovveduto di munizioni da guerra, lacerato dalle fazioni, infestato da traditori e da spie. La guerra è dichiarata, lo splendido esercito del gran Re intraprende la marcia trionfale, l’Europa lo segue. Luigi XIV, alla testa d’un esercito di trentamila soldati comandato dal Turenna, spande oro e favori lungo la via che gli si spiana dinanzi, come a un nume. Quattro città cadono in un sol tratto nelle sue mani. Cadono tutte le fortezze del Reno e dell’Yssel. Al lontano apparire delle pompose avanguardie reali, i nemici si dileguano. L’esercito invasore passa il Reno senza quasi incontrar resistenza, e questo passaggio è celebrato come un avvenimento meraviglioso presso l’esercito, a Parigi, in tutte le città della Francia. Cadono Doesbourg, Zutphen, Arnhem, Nosembourg, Nimega, Shenk, Bommel. Utrecht manda le chiavi delle sue porte al Re vincitore. Ogni ora del giorno e della notte porta la notizia di una conquista. Le provincie della Gheldria e dell’Over-Yssel sono sottomesse. Naerden, vicino ad Amsterdam, è presa. Quattro cavalieri francesi si avanzano fino alle porte di Muiden, a due miglia dalla capitale. Il paese è in preda alla desolazione, Amsterdam si prepara ad aprire le porte agli invasori, gli Stati Generali mandano quattro deputati a implorare clemenza dal Re. A tal segno è ridotta una repubblica ch’era l’arbitra dei monarchi! I deputati arrivano al campo nemico, il Re non li ammette alla sua presenza, il Luvois gli accoglie con scherno. Finalmente s’intimano loro le condizioni della pace. L’Olanda deve cedere tutte le provincie di là dal Reno e tutte le vie di terra e di mare, per le quali il nemico può penetrare nel suo cuore; pagare venti milioni di lire; abbracciare la religione cattolica; mandare ogni anno al Re di Francia una medaglia d’oro, nella quale sia scritto che l’Olanda deve la sua libertà a Luigi XIV; e accettare le condizioni imposte dal Re d’Inghilterra e dai principi di Münster e di Colonia. — La notizia di queste oltraggiose e insopportabili pretese fa scoppiare in Amsterdam il furore della disperazione. Gli Stati Generali, il patriziato e il popolo risolvono di difendersi fino agli estremi. Si rompono le dighe di Muiden che contengono le acque del mare, e il mare irrompe nelle terre lungamente vietate, salutato con grida di gioia come un alleato e un salvatore; la campagna d’Amsterdam, le ville innumerevoli, i villaggi fiorenti, Delft, Leida, tutte le città vicine sono inondate; tutto è cangiato; Amsterdam è una fortezza circondata dal mare e difesa da un baluardo di vascelli; l’Olanda non è più uno Stato, è una flotta, che quando ogni altra speranza di salvezza sarà perduta, porterà le ricchezze, i magistrati e l’onor della patria nei porti remoti delle Colonie. Addio cavalieri impennacchiati, artiglierie formidabili, stati maggiori pomposi, trionfi da teatro! L’ammiraglio Ruyter sgomina le flotte d’Inghilterra e di Francia, assicura le coste dell’Olanda e introduce la flotta mercantile delle Indie nel porto dell’isola di Texel; il principe d’Orange sacrifica le sue ricchezze allo Stato, inonda altre terre, scuote la Spagna, muove il Governatore di Fiandra che gli manda dei reggimenti, guadagna l’animo dell’Imperatore di Germania, che spedisce in suo soccorso il Montecuccoli alla testa di ventimila soldati, strappa aiuti all’elettore di Brandeburgo, dispone alla pace l’Inghilterra. Così tien fronte ai Francesi fino all’inverno, che copre l’Olanda di ghiaccio e di neve, e arresta l’esercito invasore. Vien la bella stagione, ricominciano le battaglie sulla terra e sul mare. La fortuna sorride qualche volta alle armi francesi; ma nè le cure del gran Re, nè il genio dei suoi generali famosi, nè gli sforzi del suo potente esercito valgono a strappar la vittoria alla repubblica. Il Condé tenta inutilmente di penetrare nel cuore dell’Olanda inondata; il Turenna non può impedire che il principe d’Orange si congiunga coll’esercito del Montecuccoli; gli Olandesi s’impadroniscono di Bonn e investono il vescovo di Munster; il re d’Inghilterra si ritrae dalla lega; l’esercito francese è costretto a ritirarsi dall’impresa. L’invasione era stata una marcia trionfale; la ritirata fu una fuga precipitosa; gli archi di trionfo inalzati a Parigi per festeggiare la conquista non erano ancora terminati, quando vi giungevano le avanguardie dell’esercito scompigliato; e Luigi XIV a cui sorrideva l’Europa al cominciar della guerra, si trovava, dopo la guerra perduta, alle prese coll’Europa intera. Tale trionfo riportava la piccola Olanda sul grande monarca, l’amor di patria sul furore di conquista, la disperazione sulla prepotenza, la giustizia sulla forza.


A poche miglia da Utrecht, vicino a un bellissimo bosco, v’è il villaggio di Zeist, al quale si va per una strada fiancheggiata da parchi e da ville di ricchi negozianti di Rotterdam. In quel villaggio v’è una Colonia di quei rinomatissimi fratelli uniti fratelli di Boemia o fratelli Moravi, sètta religiosa derivata da quelle di Valdus e di Giovanni Huss, che misero sottosopra l’Europa. Ebbi anch’io il desiderio di vedere i discendenti diretti di quei Valdesi e di quegli Hussiti, «che furono bruciati su tutti i roghi, impiccati su tutte le forche, inchiodati a tutte le croci, rotti a tutte le ruote, squartati da tutti i cavalli» e feci una corsa a Zeist. Questa casa di Moravi fu fondata verso la metà del secolo scorso e contiene circa duecentocinquanta persone tra uomini, donne e ragazzi. L’aspetto del luogo è austero come la vita degli abitanti. Sono due vasti cortili, separati da una larga strada, ciascuno dei quali è chiuso su tre lati da un grande edifizio nudo come una caserma. In uno di questi edifizi vi sono i celibi, gli ammogliati e le scuole; nell’altro le vedove, le ragazze, la chiesa, il pastore e il capo della Comunità. Il pian terreno è occupato dai magazzini, che contengono mercanzie, parte opera degli stessi Moravi, come guanti, saponi, candele ec.; parte comperate per essere rivendute a prezzo fisso e a buonissimo mercato. La chiesa non è che una gran sala con due tribune per gli stranieri e dei rozzi banchi per i fratelli. L’interno degli edifizi somiglia a un convento. Non sono che lunghi corridoi fiancheggiati da piccole stanze nelle quali ogni fratello vive in un profondo raccoglimento lavorando o pregando. La loro vita è rigorosissima. Professano, almeno esteriormente, la confessione d’Ausburgo. Ammettono il peccato originale, ma colla fede che la morte di Gesù Cristo abbia lavato assolutamente l’umanità. Credono che l’unità della Chiesa consista più nella carità la quale deve riunire tutti i discepoli di Cristo in una sola mente e in un sol cuore, che non nella uniformità della fede. Praticano, in un certo senso, le comunità dei beni, e formano il tesoro comune con offerte volontarie. Esercitano fra loro tutte le professioni necessarie: di medici, d’assistenti, di monitori, di maestri. I superiori possono punire col rimprovero, colla scomunica e coll’espulsione dalla Comunità. Le occupazioni della giornata sono regolate come in un collegio: preghiera, riunioni particolari, letture, lavoro, esercizi religiosi, a quell’ora fissa e tra i fratelli di quella data classe. Per dare un’idea dell’ordine che regna in questa società, basta accennare, fra le tante altre consuetudini strane, che il differente stato delle donne è indicato con un nastro di vario colore che portano sul capo. Le ragazze hanno un nastro color di rosa vivo fino a dieci anni; un nastro rosso fino a diciotto, e uno rosso pallido fino al giorno che si maritano; le donne maritate un nastro azzurro e le vedove un nastro bianco. Così in questa società ogni cosa è classificata, prestabilita, misurata; la vita scorre come una macchina agisce; l’uomo si move come un automa; il regolamento tien luogo di volontà e l’orologio governa il pensiero. Quando entrai in mezzo a quell’edifizio, non vidi che due servitori immobili sulla soglia di una porta e una ragazza col nastro rosso alla finestra. I cortili erano deserti, non si sentiva ronzare una mosca, non si vedeva indizio di vita. Dopo aver guardato un po’ qua e là, come si guarda un cimitero a traverso le sbarre della cancellata, ripresi pensierosamente la via d’Utrecht.

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