< Olanda
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Zaandam
Broek Alkmaar

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ZAANDAM.


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La maggior parte degli stranieri, dopo aver visitato il villaggio di Broek e la città di Zaandam, partono per la Frisia o se ne ritornano all’Aja colla persuasione d’aver visto l’Olanda. Io volli invece spingermi sino all’estremità della Nord-Olanda, pensando che in questa provincia posta fuor di mano, non abitata da stranieri, non percorsa da viaggiatori, avrei veduto costumi, usi ed aspetti antichi più schiettamente conservati che nelle altre. Il pericolo di non esser capito, di capitare in cattivi alberghi, di trovarmi solo, impicciato e malinconico in piccole città delle quali non c’è nemmeno la pianta nelle Guide, e che i viaggiatori più pazienti non fanno che attraversare di volo; non mi distolse dal mio proposito. Una bella mattina del mese d’agosto, il diavolo dei viaggi, il più prepotente di tutti i diavoli che invasano l’anima umana, trasportò me e la mia valigia in un piroscafo che partiva per Zaandam; m’imbarcò lo stesso giorno per Alkmaar, la metropoli dei formaggi, e mi diede la stessa sera un biglietto di seconda classe per Helder, la Gibilterra del nord.

Zaandam, vista dal golfo dell’Y, presenta l’aspetto d’una fortezza coronata di torri innumerevoli, dall’alto delle quali i cittadini chiedano soccorso, con segnali affrettati, a un esercito lontano. Son centinaia di mulini altissimi che si alzano fra le case, sulle dighe, lungo la spiaggia, per tutta la campagna circostante alla città; una parte dei quali lavorano al prosciugamento delle terre, altri a far l’olio di colza, che è una delle più importanti materie di commercio di Zaandam; altri a ridurre in polvere una specie di tufo vulcanico portato dal Reno, che serve a comporre un cemento particolare per le opere idrauliche; altri a segar legna, a mondar orzo, a macinar colori, a fabbricar carta, mostarda, smalto, corde, amido, paste. La città non si vede che pochi minuti prima d’entrare nel porto.

È una vera veduta da scenario di ballo pastorale.

La città è fabbricata lungo le due rive d’un fiume, chiamato Zaan, che si versa nell’Y, e intorno a un piccolo seno formato dall’Y medesimo, che le serve di porto. Le due parti eguali in cui rimane divisa la città, sono congiunte da un ponte, che s’alza per dar passo ai bastimenti. Intorno al porto non ci sono che poche strade e poche case; la parte principale di Zaandam si stende lungo le rive dello Zaan.

Il piroscafo s’avvicinò fino a toccar la riva: scesi, mi liberai da un drappello di ciceroni, e in pochi minuti percorsi le strade principali.

Zaandam è un grande Broek, meno puerile è più bello del Broek piccino.

Le case sono di legno, d’un solo piano, colla facciata a punta, e quasi tutte colorite di verde. Vi sono strade intere, nelle quali non si vede altro colore, che paiono strade d’una città fatta di bosso e di mortella. Come a Broek, i coppi dei tetti sono inverniciati, le finestre ornate di tendine e di fiori, le strade ammattonate e pulite come il pavimento d’una sala. Nei vetri, nelle lastre d’ottone delle porte, negli oggetti esposti sui davanzali, da qualunque parte si guardi, si vede riflessa la propria immagine. Tutta la città spira un’aria d’allegria, di freschezza e d’innocenza, che innamora. È una città ricca e popolosa, e sembra un piccolo villaggio. Ha tutti i tratti propri delle città olandesi, ed insieme un non so che aspetto nuovo ed esotico, che la fa parere immensamente lontana da tutte le altre.

Essendo giorno di festa, le strade principali eran piene di gente che andava o tornava di chiesa. La prima cosa che mi colpì fu l’acconciatura del capo delle donne. Portano, sotto un cappello coperto di fiori, una specie di cuffia di trina, che scende fin sulle spalle, dalla quale escono di qua e di là dalla fronte due nodi di capelli arricciolati e stretti che paion ciocche di chicchi d’uva. Il cerchio d’oro o d’argento, che stringe la testa, e luccica attraverso la trina di codesta cuffia, termina sulle tempie in due lastrine quadrate dello stesso metallo, rivolte verso chi guarda, con una rosetta nel mezzo. Un’altra lastrina dorata e cesellata, una sorta di nastro metallico, legato, non so come, al cerchio, attraversa obliquamente la fronte e scende quasi fino a toccare la tempia opposta, o l’occhio, o l’intracciglio, in modo che pare un pezzo del cerchio stesso, rotto e lasciato spenzolare per negligenza o per vezzo. Due grossi spilloni confitti verticalmente all’estremità del cerchio s’alzano come due corna sopra le due ciocche di riccioli. Altri orecchini lunghissimi ciondolano alle orecchie, il collo è ornato di più giri di collane, il seno di borchie, di fermagli, di catenelle, da riempirne una vetrina di gioielliere. Tutte le donne, con leggiere differenze, sono ornate così; e son tutte bianche, rosee e vestite col medesimo cattivo gusto, in modo che uno straniero non distingue alla prima la contadina dalla signora. Non si può dir certo che quell’acconciatura del capo e quella sovrabbondanza d’ornamenti sia bella ed elegante; ma pure quei visi bianchi, in mezzo a quella trina e a quell’oro, quel misto di principesco e di campagnuolo, di opulento e di rozzo, di pomposo e d’ingenuo, ha una grazia tutta sua, che s’accorda mirabilmente coll’aria, se così può dirsi, della città, e che finisce per piacere. Anche le bambine hanno il loro diadema e le loro trine: gli uomini sono la maggior parte vestiti di nero. Bambine, poi, uomini, ragazze, donne, giovani, vecchi, hanno tutti un aspetto di gente contenta, un non so che di primitivo, di verginale, di nuovo, che fa quasi parer strano che siano europei del tempo nostro; che fa pensare di essere in un altro continente e in un’altra civiltà; di trovarsi in un paese dove la ricchezza fiorisca senza fatica, la vita scorra senza passioni, la società si regga e si muova senz’attriti e senza scosse, e nessuno desideri altro bene che la pace. E se mentre si pensa a questo, l’orologio del campanile più vicino canta colle sue note argentine una vecchia canzone nazionale, allora l’illusione è intera, e si vorrebbe condurre a Zaandam la famiglia e gli amici, e finire in una di quelle casette verdi i nostri giorni tranquilli.

Ma se tutta questa beatitudine non è che illusione, è un fatto però che Zaandam è una delle più agiate città dell’Olanda, che in molte di quelle casette verdi stanno dei costruttori di navi millionarii, e che non c’è famiglia senza pane, nè ragazzo senza maestro.

Oltre a questo, Zaandam possiede quello che Napoleone I disse: «il più bel monumento dell’Olanda» cioè la capanna di Pietro il Grande, in onore del quale la città fu per un tempo ed è ancora chiamata da molti Czardam o Saardam. Una squadra di ciceroni sussurra il nome di questa capanna famosa nell’orecchio a tutti gli stranieri che arrivano a Zaandam, e si può dire ch’essa è lo scopo unico di tutti coloro che vanno a visitare questa città.

Quando e perchè il grande Imperatore sia andato a stare in quella capanna, è noto a tutti. Dopo aver vinto i Tartari e i Turchi, ed essere entrato trionfalmente in Mosca, il giovane czar volle fare un viaggio nei principali Stati d’Europa per studiare le arti e le industrie. Accompagnato da tre ambasciatori, quattro segretarii, dodici gentiluomini, cinquanta guardie ed un nano, partì nell’aprile del 1697 dai suoi Stati, attraversò la Livonia, passò per la Prussia brandeburghese, per la Pomerania, per Berlino, la Vestfalia, e arrivò ad Amsterdam, quindici giorni prima del suo seguito. In questa città, sconosciuto a tutti, passò qualche tempo negli arsenali dell’ammiragliato; e quindi per imparare coi propri occhi e colle proprie mani l’arte della costruzione delle navi, nella quale gli Olandesi, in quel tempo, primeggiavano, si vestì da marinaio, e si recò a Zaandam dov’erano i più famosi arsenali. Qui entrò col nome di Pietro Michaeloff, nell’arsenale di un certo Mynheer Calf, si fece iscrivere nel numero degli operai, lavorò da falegname, da ferraio, da cordaio, e per tutto il tempo che rimase a Zaandam, andò vestito e si nutrì come i suoi compagni di lavoro e dormì com’essi, in una casetta di legno, che è quella che si vede oggigiorno. Quanto tempo sia stato in quella città, non si sa di certo. V’è chi dice che ci sia stato qualche mese, v’è chi crede con maggior ragione, che seccato della curiosità degli abitanti, non ci sia stato che una settimana. Certo è che, ritornato in Amsterdam dopo breve tempo, terminò colle sue mani, nell’arsenale della Compagnia delle Indie, un vascello da sessanta cannoni; che studiò matematica, fisica, geografia, anatomia, pittura, e che lasciò quella città nel gennaio del 1698, per andare a Londra.

La famosa capanna si trova a un’estremità di Zaandam, in vista dell’aperta campagna; ed è come incassata in un piccolo edifizio in muratura che la regina d’Olanda, Anna Paulowna, russa di nascita, fece costruire per difenderla dalle intemperie. È una vera casupola da pescatori, di legno, composta di due piccole stanze, e talmente sconnessa e sbilenca, che se non fosse puntellata dall’edifizio che la circonda, un soffio di vento la butterebbe a terra. In una stanza vi sono tre rozze scranne, una larga tavola, un letto ad armadio ed un grande cammino dell’antica forma fiamminga. Nella seconda stanza vi sono due grandi ritratti: uno di Pietro il Grande vestito da operaio, e l’altro dell’imperatrice Carolina. Sul soffitto sono stese delle bandiere russe e delle bandiere olandesi. La tavola, le pareti, le imposte, le porte, le travi sono coperte di nomi, di versi, di sentenze, d’iscrizioni di tutte le lingue del mondo. V'è una lastra di marmo su cui è scritto: — Petro magno Alexander, — fatta porre dall’imperatore Alessandro di Russia, in memoria della sua visita del 1814. Un’altra lapide ricorda la visita fatta dal principe ereditario, ora czar, nel 1839, e c’è sotto una strofa d’un poeta russo che dice: — Sopra quest’umile abituro aleggiano gli angeli santi. Isarevitch! inchínati. Qui è la culla del tuo impero, qui nacque la grandezza della Russia. — Altre lapidi rammentano visite di re e di principi, e colle lapidi altre poesie e soprattutto iscrizioni russe che esprimono l’entusiasmo e la gioia di gente arrivata alla mèta d’un sacro pellegrinaggio. Una di queste iscrizioni ricorda che da quella catapecchia il falegname Pietro Michaeloff dirigeva le mosse dell’esercito moscovita, che combatteva contro i Turchi in Ucrania.

Uscendo di là, pensavo che se il giorno più glorioso della vita di Pietro il Grande fu quello in cui s’addormentò sotto quella capanna dopo aver lavorato per la prima volta colle proprie braccia, così il più felice doveva essere stato quell’altro in cui, dopo diciotto anni egli ci ritornava, nel colmo della sua potenza e della sua gloria, per mostrare a Caterina il luogo dove facendo l’operaio aveva imparato a far l’imperatore. Gli abitanti di Zaandam ricordano quel giorno con orgoglio, e ne parlano come d’un avvenimento di cui sian stati testimoni. La czarina era rimasta a Vesel per partorire; lo czar arrivò a Zaandam solo. Ognuno può immaginare con che gioia e che alterezza l’abbiano ricevuto quei negozianti, quei marinai, quei falegnami, che l’avevano avuto compagno diciotto anni prima. Per il mondo egli era il vincitore di Pultava, il fondatore di Pietroburgo, l’incivilitore della Russia; ma per loro era Peterbas, mastro Pietro, come lo chiamavano famigliarmente quando lavoravano insieme; era un figliuolo di Zaandam divenuto imperatore; era un vecchio amico che tornava in mezzo agli amici. Dieci giorni dopo il parto arrivò la czarina e visitò anch’essa la capanna. Imperatore e Imperatrice, senza seguito, senza pompa, andarono a desinare in casa di Mynheer Calf, il costruttore di bastimenti che aveva ricevuto nel suo arsenale il giovane operaio coronato; il popolo li accompagnò gridando: — Viva mastro Pietro! — e mastro Pietro, lo sterminatore dei boiardi e degli strelizzi, il condannatore di suo figlio, il principe formidabile, pianse.


Per andare ad Alkmaar m’imbarcai sopra un piroscafo che doveva rimontare lo Zaan fino al canale del Nord, e così vidi l’Oost Zaandam e la West-Zaandam, — ossia tutta la parte della città che si stende per quasi tre miglia lungo le due rive del fiume.

È uno spettacolo che rivende Broek cento volte.

Ognuno si ricorda dei primi paesaggi che si dipingono da ragazzi, quando il padre o lo zio ci regala una scatola di colori sospirata da molto tempo. Per il solito si vuol dipingere un luogo delizioso, come quei che si sognano a scuola, sonnecchiando alle ultime lezioni di latino, sulla fine del mese di giugno. Per render questo luogo veramente delizioso, ci sforziamo di fare entrare in un piccolo spazio una villetta, un giardino, un lago, un bosco, un prato, un orto, un fiume, un ponte, una grotta, una cascata d’acqua, tutto ben vicino, ben stretto e ben pigiato; e perchè non sfugga assolutamente nulla all’occhio di chi guarda, si dipinge ogni cosa coi colori più vivi della scatola e si fanno dei bei contorni vistosi; e quando s’è finito, colti dal timore di non aver approfittato di tutto lo spazio, si ficca ancora una casetta qui, un albero là, una capanna in fondo; finchè non essendo più possibile di farci entrare un filo d’erba, nè una pietra, nè un fiore, si smette il pennello soddisfatti dell’opera propria, e si corre a far vedere il quadro alla fantesca, la quale giunge le mani in atto di meraviglia, ed esclama che è un vero paradiso terrestre. Ebbene, Zaandam, vista dal fiume, è tale quale uno di codesti paesaggi.

Sono tutte casette verdi, coi tetti coperti di coppi rossissimi, sui quali s’innalzano dei chioschi pure verdi, sormontati da banderuole variopinte o da palle di legno di diverso colore infilate in un’asta di ferro; torricciuole coronate di balaustrate e di padiglioni; edifizii della forma di tempietti e di villini; baracche e bicocche di una struttura non mai vista, capricciosamente sovrapposte, e strette le une contro le altre, che par che si disputino lo spazio; un’architettura di ripiego, tutta vanità e tutta apparenza. In mezzo a questi edifizii, stradine per cui passa appena una persona, piazzette anguste come stanze, cortili poco più grandi di una tavola, canali dove non può scorrere che un’anitra; e sul davanti, tra le case e la riva del fiume, dei giardinetti da ragazzi, pieni di capanni, di casette per le galline, di pergolati, di cancellate, di mulini a vento da trastullo e di salici piangenti; e dinanzi a questi giardini, sulla riva del fiume, dei piccoli porti pieni di piccole barche verdi legate a piccole palafitte ancora più verdi. In mezzo a questo guazzabuglio di giardini e di baracche, s’alzano da tutte le parti mulini a vento di grande altezza, coloriti pure di verde e listati di bianco, o bianchì e listati di verde, con le braccia dipinte come aste di bandiere e la rotella dell’asse dorata e ornata di girandole multicolori; campanili verdi e inverniciati dal piede fino alla punta; chiesuole che paion teatri da fiera, scaccheggiate e orlate di tutte le tinte dell’arcobaleno. Ma questo è anche più strano: che gli edifizi, già piccini all’entrata del fiume, vanno scemando di grandezza via via che si procede, come se la popolazione fosse distribuita per ordine di statura, tanto che verso la fine non son più che casotti da sentinelle, stie, topaie, scatole, nascondigli, che paiono sporgenze d’una città sotterrata; un’architettura minuscola che è lì a dieci passi, e fa l’effetto di essere molto lontana; un tritume di città, un vero alveare umano, dove i bambini paiono colossi, e i gatti saltano dalla strada sui tetti; e là ancora ci son giardini occupati interamente da un sedile, chioschi capaci d’una persona sola, padiglioni grandi come ombrelli, e salici piangenti, e piccoli scali, e piccolissimi mulini a vento, e banderuole e fiori e colori.

Ma son proprio uomini che han fatto tutto codesto? — uno si domanda dinanzi a questo spettacolo. — E questa è una città davvero? E ci sarà ancora l’anno venturo? O non è stata fabbricata per una festa, e la settimana prossima sarà tutta scomposta e accatastata dentro il magazzino di un decoratore d’Amsterdam? Ah! burloni d’Olandesi!

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