< Olimpiade
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Atto primo
Interlocutori Atto secondo

ATTO PRIMO

SCENA I

Fondo selvoso di cupa ed angusta valle, adombrata dall’alto da grandi alberi, che giungono ad intrecciare i rami dall’uno all’altro colle, fra’ quali è chiusa.

Licida ed Aminta.

Licida. Ho risoluto, Aminta,

più consiglio non vuo’.
Aminta.   Licida, ascolta.
Deh! modera una volta
questo tuo violento
spirito intollerante.
Licida.   E in chi poss’io,
fuor che in me, più sperar? Megacle istesso,
Megacle m’abbandona
nel bisogno maggiore. Or va’, riposa
su la fé d’un amico.
Aminta.   Ancor non déi
condannarlo però. Breve cammino
non è quel che divide
Elide, in cui noi siamo,
da Creta, ov’ei restò. L’ali alle piante
non ha Megacle alfin. Forse il tuo servo

subito nol rinvenne. Il mar frapposto

forse ritarda il suo venir. T’accheta:
in tempo giungerá. Prescritta è l’ora
agli olimpici giuochi
oltre il meriggio, ed or non è l’aurora.
Licida. Sai pur che ognun, che aspiri
all’olimpica palma, or sul mattino
dee presentarsi al tempio; il grado, il nome,
la patria palesar; di Giove all’ara
giurar di non valersi
di frode nel cimento.
Aminta.   Il so.
Licida.   T’è noto
ch’escluso è dalla pugna
chi quest’atto solenne
giunge tardi a compir. Vedi la schiera
de’ concorrenti atleti? Odi il festivo
tumulto pastoral? Dunque che deggio
attender più, che più sperar?
Aminta.   Ma quale
sarebbe il tuo disegno?
Licida.   All’ara innanzi
presentarmi con gli altri.
Aminta.   E poi?
Licida.   Con gli altri
a suo tempo pugnar.
Aminta.   Tu!
Licida.   Sí. Non credi
in me valor che basti?
Aminta. Eh! qui non giova,
prence, il saper come si tratti il brando.
Altra specie di guerra, altr’armi ed altri
studi son questi. Ignoti nomi a noi,
cesto, disco, palestra a’ tuoi rivali
per lung’uso son tutti
familiari esercizi. Al primo incontro,

del giovanile ardire

ti potresti pentir.
Licida.   Se fosse a tempo
Megacle giunto, a tal contese esperto,
pugnato avria per me: ma, s’ei non viene,
che far degg’io? Non si contrasta, Aminta,
oggi in Olimpia del selvaggio ulivo
la solita corona. Al vincitore
sarà premio Aristea, figlia reale
dell’invitto Clistene, onor primiero
delle greche sembianze, unica e bella
fiamma di questo cor, benché novella.
Aminta. Ed Argene?
Licida.   Ed Argene
più riveder non spero. Amor non vive,
quando muor la speranza.
Aminta. E pur giurasti
tante volte.
Licida.   T’intendo. In queste fole,
finché l’ora trascorra,
trattener mi vorresti. Addio.
Aminta.   Ma senti.
Licida. No, no.
Aminta.   Vedi che giunge.
Licida. Chi?
Aminta.   Megacle.
Licida.   Dov’è?
Aminta. Fra quelle piante
parmi... No... non è desso.
Licida.   Ah! mi deridi,
e lo merito, Aminta. Io fui sí cieco
che in Megacle sperai. (volendo partire)

SCENA II

Megacle e detti.

Megacle.   Megacle è teco.

Licida. Giusti dèi!
Megacle.   Prence.
Licida.   Amico,
vieni, vieni al mio seno. Ecco risorta
la mia speme cadente.
Megacle.   E sarà vero
che il ciel m’offra una volta
la via d’esserti grato?
Licida.   E pace e vita
tu puoi darmi, se vuoi.
Megacle.   Come?
Licida.   Pugnando
nell’olimpico agone
per me, col nome mio.
Megacle.   Ma tu non sei
noto in Elide ancor?
Licida.   No.
Megacle.   Quale oggetto
ha questa trama?
Licida.   Il mio riposo. Oh Dio!
non perdiamo i momenti. Appunto è l’ora
che de’ rivali atleti
si raccolgono i nomi. Ah! vola al tempio.
Di’ che Licida sei. La tua venuta
inutile sarà, se più soggiorni.
Vanne: tutto saprai, quando ritorni.
Megacle.   Superbo di me stesso
     andrò portando in fronte
     quel caro nome impresso,
     come mi sta nel cor.

           Dirà la Grecia poi

      che fûr comuni a noi
      l’opre, i pensier, gli affetti,
      e alfine i nomi ancor. (parte)

SCENA III

Licida ed Aminta.

Licida. Oh generoso amico!

oh Megacle fedel!
Aminta.   Cosí di lui
non parlavi poc’anzi.
Licida.   Eccomi alfine
possessor d’Aristea. Vanne: disponi
tutto, mio caro Aminta. Io con la sposa,
prima che il sol tramonti,
voglio quindi partir.
Aminta.   Più lento, o prence,
nel fingerti felice. Ancor vi resta
molto di che temer. Potria l’inganno
esser scoperto: al paragon potrebbe
Megacle soggiacer. So ch’altre volte
fu vincitor, ma un impensato evento
so che talor confonde il vile e ’l forte;
né sempre ha la virtù l’istessa sorte.
Licida. Oh! sei pure importuno
con questo tuo noioso
perpetuo dubitar. Vicino al porto
vuoi ch’io tema il naufragio? A’ dubbi tuoi
chi presta fede intera
non sa mai quando è l’alba o quando è sera.
          Quel destrier, che all’albergo è vicino,
     più veloce s’affretta nel corso:

     non l’arresta l’angustia del morso,

     non la voce che legge gli dà.
          Tal quest’alma, che piena è di speme,
     nulla teme, consiglio non sente;
     e si forma una gioia presente
     del pensiero che lieta sarà. (partono)

SCENA IV

Vasta campagna alle falde d’un monte, sparsa di capanne pastorali. Ponte rustico sul fiume Alfeo, composto di tronchi d’alberi rozzamente commessi. Veduta della città d’Olimpia in lontano, interrotta da poche piante che adornano la pianura, ma non l’ingombrano.

Argene, in abito di pastorella, sotto nome di Licori, tessendo ghirlande. Coro di ninfe e pastori, tutti occupati in lavori pastorali: poi Aristea con séguito.

Coro.   Oh care selve! oh cara

     felice libertà!
Argene.   Qui, se un piacer si gode,
     parte non v’ha la frode,
     ma lo condisce a gara
     amore e fedeltà.
Coro.   Oh care selve! oh cara
     felice libertà!
Argene.   Qui poco ognun possiede,
     e ricco ognun si crede;
     né, più bramando, impara
     che cosa è povertà!
Coro.   Oh care selve! oh cara
     felice libertà!
Argene.   Senza custodi o mura,
     la pace è qui sicura,
     che l’altrui voglia avara
     onde allettar non ha.

Coro.   Coro. Oh care selve! oh cara

     felice libertà!
Argene.   Qui gl’innocenti amori
     di ninfe. (s’alza da sedere)
  Ecco Aristea.
Aristea.   Siegui, o Licori.
Argene. Giá il rozzo mio soggiorno
torni a render felice, o principessa?
Aristea. Ah! fuggir da me stessa
potessi ancor, come dagli altri. Amica,
tu non sai qual funesto
giorno per me sia questo.
Argene. È questo un giorno
glorioso per te. Di tua bellezza
qual può l’età futura
prova aver più sicura? A conquistarti
nell’olimpico agone
tutto il fior della Grecia oggi s’espone.
Aristea. Ma chi bramo non v’è. Deh! si proponga
men funesta materia
al nostro ragionar. (siede Aristea) Siedi, Licori:
gl’interrotti lavori
riprendi, e parla. Incominciasti un giorno
a narrarmi i tuoi casi. Il tempo è questo
di proseguirli. Il mio dolor seduci:
raddolcisci, se puoi,
i miei tormenti, in rammentando i tuoi.
Argene. Se avran tanta virtù, senza mercede
non va la mia costanza. (siede) A te giá dissi
che Argene è il nome mio, che in Creta io nacqui
d’illustre sangue, e che gli affetti miei
fûr più nobili ancor de’ miei natali.
Aristea. So fin qui.
Argene.   De’ miei mali
ecco il principio. Del cretense soglio
Licida il regio erede

fu la mia fiamma, ed io la sua. Celammo

prudenti un tempo il nostro amor; ma poi
l’amor s’accrebbe, e, come in tutti avviene,
la prudenza scemò. Comprese alcuno
il favellar de’ nostri sguardi: ad altri
i sensi ne spiegò. Di voce in voce
tanto in breve si stese
il maligno rumor, che ’l re l’intese.
Se ne sdegnò, sgridonne il figlio; a lui
vietò di più vedermi, e col divieto
glien’accrebbe il desio; ché aggiunge il vento
fiamme alle fiamme, e più superbo un fiume
fanno gli argini opposti. Ebro d’amore
freme Licida, e pensa
di rapirmi e fuggir. Tutto il disegno
spiega in un foglio: a me l’invia. Tradisce
la fede il messo, e al re lo reca. È chiuso
in custodito albergo
il mio povero amante. A me s’impone
che a straniero consorte
porga la destra. Io lo ricuso. Ognuno
contro me si dichiara. Il re minaccia:
mi condannan gli amici: il padre mio
vuol che al nodo acconsenta. Altro riparo
che la fuga o la morte
al mio caso non trovo. Il men funesto
credo il più saggio, e l’eseguisco. Ignota
in Elide pervenni. In queste selve
mi proposi abitar. Qui fra pastori
pastorella mi finsi, e or son Licori:
ma serbo al caro bene
fido in sen di Licori il cor d’Argene.
Aristea. In ver mi fai pietà. Ma la tua fuga
non approvo però. Donzella e sola,
cercar contrade ignote,
abbandonar...

Argene.   Dunque dovea la mano

a Megacle donar?
Aristea.   Megacle! (Oh nome!)
Di qual Megacle parli?
Argene.   Era lo sposo
questi che il re mi destinò. Dovea
dunque obbliar.
Aristea.   Ne sai la patria?
Argene.   Atene.
Aristea. Come in Creta pervenne?
Argene.   Amor vel trasse,
com’ei stesso dicea, ramingo, afflitto.
Nel giungervi, fu còlto
da stuol di masnadieri; e, oppresso ormai,
la vita vi perdea. Licida a sorte
vi si avvenne, e il salvò. Quindi fra loro
fidi amici fûr sempre. Amico al figlio,
fu noto al padre; e dal reale impero
destinato mi fu, perché straniero.
Aristea. Ma ti ricordi ancora
le sue sembianze?
Argene.   Io l’ho presente. Avea
bionde le chiome, oscuro il ciglio; i labbri
vermigli sí, ma tumidetti, e forse
oltre il dover; gli sguardi
lenti e pietosi: un arrossir frequente,
un soave parlar. Ma., principessa,
tu cambi di color! Che avvenne?
Aristea.   Oh Dio!
quel Megacle, che pingi, è l’idol mio.
Argene. Che dici!
Aristea.   Il vero. A lui,
lunga stagion giá mio segreto amante,
perché nato in Atene,
negommi il padre mio, né volle mai
conoscerlo, vederlo,

ascoltarlo una volta. Ei disperato

da me partí; più nol rividi; e in questo
punto da te so de’ suoi casi il resto.
Argene. Inver sembrano i nostri
favolosi accidenti.
Aristea.   Ah! s’ei sapesse
ch’oggi per me qui si combatte.
Argene.   In Creta
a lui voli un tuo servo; e tu procura
la pugna differir.
Aristea.   Come?
Argene.   Clistene
è pur tuo padre; ei qui presiede eletto
arbitro delle cose: ei può, se vuole.
Aristea. Ma non vorrà.
Argene.   Che nuoce,
principessa, il tentarlo?
Aristea.   E ben! Clistene
vadasi a ritrovar. (s’alzano)
Argene.   Férmati! ei viene.

SCENA V

Clistene con séguito, e dette.

Clistene. Figlia, tutto è compito. I nomi accolti,

le vittime svenate; al gran cimento
l’ora è prescritta; e più la pugna ormai,
senza offesa de’ numi,
della pubblica fé, dell’onor mio,
differir non si può.
Aristea.   (Speranze, addio!)
Clistene. Ragion d’esser superba
io ti darei, se ti dicessi tutti

quei che a pugnar per te vengono a gara.

V’è Olinto di Megara,
v’è Clearco di Sparta, Ati di Tebe,
Erilo di Corinto, e fin di Creta
Licida venne.
Argene.   Chi?
Clistene.   Licida, il figlio
del re cretense.
Aristea.   Ei pur mi brama?
Clistene.   Ei viene
con gli altri a prova.
Argene.   (Ah! si scordò d’Argene.)
Clistene. Sieguimi, figlia.
Aristea.   Ah! questa pugna, o padre,
si differisca.
Clistene.   Un impossibil chiedi:
dissi perché. Ma la cagion non trovo
di tal richiesta.
Aristea.   A divenir soggette
sempre v’è tempo. È d’Imeneo per noi
pesante il giogo, e giá senz’esso abbiamo
che soffrire abbastanza
nella nostra servil sorte infelice.
Clistene. Dice ognuna cosí, ma il ver non dice.
          Del destin non vi lagnate,
     se vi rese a noi soggette:
     siete serve, ma regnate
     nella vostra servitú.
          Forti noi, voi belle siete,
     e vincete in ogn’impresa,
     quando vengono a contesa
     la bellezza e la virtú. (parte)

SCENA VI

Aristea ed Argene.

Argene. Udisti, o principessa?

Aristea.   Amica, addio:
convien ch’io siegua il padre. Ah! tu, che puoi,
del mio Megacle amato,
se pietosa pur sei come sei bella,
cerca, recami, oh Dio! qualche novella.
          Tu di saper procura
     dove il mio ben s’aggira;
     se piú di me si cura,
     se parla piú di me.
          Chiedi se mai sospira,
     quando il mio nome ascolta;
     se il profferí talvolta
     nel ragionar fra sé. (parte)

SCENA VII

Argene sola.

Dunque, Licida ingrato

giá di me si scordò! Povera Argene,
a che mai ti serbâr le stelle irate!
Imparate, imparate,
inesperte donzelle. Ecco lo stile
de’ lusinghieri amanti. Ognun vi chiama
suo ben, sua vita e suo tesoro: ognuno
giura che, a voi pensando,
vaneggia il dí, veglia le notti. Han l’arte
di lagrimar, d’impallidir. Talvolta

par che sugli occhi vostri

vogliati morir fra gli amorosi affanni:
guardatevi da lor, son tutti inganni.
               Piú non si trovano
          fra mille amanti
          sol due bell’anime
          che sian costanti,
          e tutti parlano
          di fedeltá.
               E il reo costume
          tanto s’avanza,
          che la costanza
          di chi ben ama
          ormai si chiama
          semplicitá. (parte)

SCENA VIII

Licida e Megacle da diverse parti.

Megacle. Licida!

Licida.   Amico!
Megacle.   Eccomi a te.
Licida.   Compisti...
Megacle. Tutto, o signor. Giá col tuo nome al tempio
per te mi presentai: per te fra poco
vado al cimento. Or, fin che il noto segno
della pugna si dia, spiegar mi puoi
la cagion della trama.
Licida.   Oh! se tu vinci,
non ha di me piú fortunato amante
tutto il regno d’Amor.
Megagle.   Perché?
Licida.   Promessa
in premio al vincitore

è una real beltá. La vidi appena,

che n’arsi e la bramai. Ma, poco esperto
negli atletici studi...
Megacle.   Intendo. Io deggio
conquistarla per te.
Licida.   Sí. Chiedi poi
la mia vita, il mio sangue, il regno mio:
tutto, o Megacle amato, io t’offro, e tutto
scarso premio sará.
Megacle.   Di tanti, o prence,
stimoli non fa d’uopo
al grato servo, al fido amico. Io sono
memore assai de’ doni tuoi: rammento
la vita che mi desti. Avrai la sposa:
speralo pur. Nella palestra eléa
non entro pellegrin. Bevve altre volte
i miei sudori, ed il silvestre ulivo
non è per la mia fronte
un insolito fregio. Io piú sicuro
mai di vincer non fui. Desio d’onore,
stimoli d’amistá mi fan piú forte.
Anelo, anzi mi sembra
d’esser giá nell’agon. Gli emuli al fianco
mi sento giá; giá li precorro; e, asperso
dell’olimpica polve il crine, il volto,
del volgo spettator gli applausi ascolto.
Licida. Oh dolce amico! (abbracciandolo) Oh cara
sospirata Aristea!
Megacle.   Che!
Licida.   Chiamo a nome
il mio tesoro.
Megacle.   Ed Aristea si chiama?
Licida. Appunto.
Megacle.   Altro ne sai?
Licida.   Presso a Corinto
nacque in riva all’Asopo, al re Clistene
unica prole.

Megacle.   (Aimè! Questa è il mio bene.)

E per lei si combatte?
Licida. Per lei.
Megacle.   Questa degg’io
conquistarti pugnando?
Licida. Questa.
Megacle.   Ed è tua speranza e tuo conforto
sola Aristea?
Licida.   Sola Aristea.
Megacle.   (Son morto!)
Licida. Non ti stupir. Quando vedrai quel volto,
forse mi scuserai. D’esserne amanti
non avrebbon rossore i numi istessi.
Megacle. (Ah! cosí nol sapessi.)
Licida.   Oh! se tu vinci,
chi piú lieto di me? Megacle istesso
quanto mai ne godrá! Di’: non avrai
piacer del piacer mio?
Megacle.   Grande.
Licida.   Il momento
che ad Aristea m’annodi,
Megacle, di’, non ti parrá felice?
Megacle. Felicissimo. (Oh dèi!)
Licida.   Tu non vorrai
pronubo accompagnarmi
al talamo nuzial?
Megacle.   (Che pena!)
Licida.   Parla.
Megacle. Sí, come vuoi. (Qual nuova specie è questa
di martirio e d’inferno!)
Licida.   Oh, quanto il giorno
lungo è per me! Che l’aspettare uccida,
nel caso in cui mi vedo,
tu non credi o non sai.
Megacle.   Lo so, lo credo.
Licida. Senti, amico. Io mi fingo

giá l’avvenir: giá col desio possiedo

la dolce sposa.
Megacle.   (Ah! questo è troppo.)
Licida.   E parmi...
Megacle. Ma taci: assai dicesti. Amico io sono;
il mio dover comprendo;
ma poi... (con impeto)
Licida.   Perché ti sdegni? In che t’offendo?
Megacle. (Imprudente, che feci!) (si ricompone) Il mio trasporto
è desio di servirti. Io stanco arrivo
da cammin lungo; ho da pugnar: mi resta
picciol tempo al riposo, e tu mel togli.
Licida. E chi mai ti ritenne
di spiegarti finora?
Megacle.   Il mio rispetto.
Licida. Vuoi dunque riposar?
Megacle.   Sí.
Licida.   Brami altrove
meco venir?
Megacle.   No.
Licida.   Rimaner ti piace
qui fra quest’ombre?
Megacle.   Sí.
Licida.   Restar degg’io?
Megacle. No. (con impazienza, e si getta a sedere)
Licida.   (Strana voglia!) E ben, riposa: addio.
          Mentre dormi, Amor fomenti
     il piacer de’ sonni tuoi
     con l’idea del mio piacer.
          Abbia il rio passi piú lenti,
     e sospenda i moti suoi
     ogni zeffiro leggier. (parte)

SCENA IX

Megacle solo.

Che intesi, eterni dèi! Quale improvviso

fulmine mi colpí! L’anima mia
dunque fia d’altri! E ho da condurla io stesso
in braccio al mio rival! Ma quel rivale
è il caro amico. Ah! quali nomi unisce
per mio strazio la sorte. Eh! che non sono
rigide a questo segno
le leggi d’amistá. Perdoni il prence:
ancor io sono amante. Il domandarmi
ch’io gli ceda Aristea non è diverso
dal chiedermi la vita. E questa vita
di Licida non è? Non fu suo dono?
Non respiro per lui? Megacle ingrato!
e dubitar potresti? Ah! se ti vede
con questa in volto infame macchia e rea,
ha ragion d’abborrirti anche Aristea.
No! tal non mi vedrá. Voi soli ascolto,
obblighi d’amistá, pegni di fede,
gratitudine, onore. Altro non temo
che ’l volto del mio ben. Questo s’eviti
formidabile incontro. In faccia a lei,
misero! che farei? Palpito e sudo
solo in pensarlo, e parmi
istupidir, gelarmi,
confondermi, tremar... No, non potrei...

SCENA X

Aristea e detto; poi Alcandro.

Aristea. Stranier! (senza vederlo in viso)

Megacle.   Chi mi sorprende? (rivoltandosi)

Aristea.  (Oh stelle!)
(riconoscendosi reciprocamente)
Megacle.  (Oh dèi!)
Aristea. Megacle! mia speranza!

Ah! sei pur tu? Pur ti riveggo? Oh Dio!
di gioia io moro; ed il mio petto appena
può alternare i respiri. Oh caro! Oh tanto
e sospirato e pianto
e richiamato invano! Udisti alfine
la povera Aristea. Tornasti, e come
opportuno tornasti! Oh Amor pietoso!
oh felici martíri!
oh ben sparsi finor pianti e sospiri!
Megacle. (Che fiero caso è il mio!)
Aristea.   Megacle amato,
e tu nulla rispondi?
e taci ancor? Che mai vuol dir quel tanto
cambiarti di color? quel non mirarmi
che timido e confuso? e quelle a forza
lagrime trattenute? Ah! più non sono
forse la fiamma tua? Forse...
Megacle.   Che dici!
Sempre... Sappi... Son io...
Parlar non so. (Che fiero caso è il mio!)
Aristea. Ma tu mi fai gelar. Dimmi: non sai
che per me qui si pugna?
Megacle.   Il so.
Aristea.   Non vieni
ad esporti per me?

Megacle.   Sí.

Aristea.   Perché mai
dunque sei cosí mesto?
Megacle. Perché... (Barbari dèi! che inferno è questo?)
Aristea. Intendo: alcun ti fece
dubitar di mia fé. Se ciò t’affanna,
ingiusto sei. Da che partisti, o caro,
non son rea d’un pensier. Sempre m’intesi
la tua voce nell’alma: ho sempre avuto
il tuo nome fra’ labbri,
il tuo volto nel cor. Mai d’altri accesa
non fui, non sono e non sarò. Vorrei...
Megacle. Basta: lo so.
Aristea.   Vorrei morir piuttosto
che mancarti di fede un sol momento.
Megacle. (Oh tormento maggior d’ogni tormento!)
Aristea. Ma guardami, ma parla,
ma di’...
Megacle.   Che posso dir?
Alcandro. (uscendo frettoloso)  Signor, t’affretta,
se a combatter venisti. Il segno è dato,
che al gran cimento i concorrenti invita. (parte)
Megacle. Assistetemi, o numi. Addio, mia vita!
Aristea. E mi lasci cosí? Va’: ti perdono,
pur che torni mio sposo.
Megacle.   Ah! sí gran sorte
non è per me. (in atto di partire)
Aristea.   Senti. Tu m’ami ancora?
Megacle. Quanto l’anima mia.
Aristea.   Fedel mi credi?
Megacle. Sí, come bella.
Aristea.   A conquistar mi vai?
Megacle. Lo bramo almeno.
Aristea.   Il tuo valor primiero
hai pur?
Megacle.   Lo credo.

Aristea.   E vincerai?

Megacle.   Lo spero.
Aristea. Dunque, allor non son io,
caro, la sposa tua?
Megacle.   Mia vita... Addio!
  Ne’ giorni tuoi felici
          ricòrdati di me.
Aristea.   Perché cosí mi dici,
  anima mia, perché?
Megacle.   Taci, bell’idol mio.
Aristea.   Parla, mio dolce amor,

Megacle.  Ah! che, parlando, oh Dio!
Aristea.  Ah! che, tacendo,
A due.   tu mi trafiggi il cor.

Aristea.   (Veggio languir chi adoro,
          né intendo il suo languir.)
Megacle.   (Di gelosia mi moro,
          e non lo posso dir.)
A due.   Chi mai provò di questo
          affanno piú funesto,
          più barbaro dolor!

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