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Peccati confessati
Opere (Rapisardi) I

PECCATI CONFESSATI1


Se non amo i preti più della forca, bisogna proprio dire ch’io sono un ingrato. I miei primi maestri vestivano tutti l’abito talare; e benchè non fossero tanti stinchi di santi, aveano pur tutti la chierica, e bevevano, almeno una volta al giorno, il sangue prezioso di Gesù Cristo. Un prete m’insegnò grammatica, m’instillò il primo latte del sapere, come egli diceva, con latticinosa eleganza; un altro m’insegnò rettorica e lingua latina; un terzo e un quarto filosofia; cosicchè, se io non diventai un pilastro di santa madre Chiesa, fu certamente perchè il diavolo ci mise la coda, e volle ch’io perdessi a tutti i costi la salute dell’anima.

Dico a ogni modo, per ragion di giustizia, che il mio secondo maestro, di prete non aveva altro che la zimarra; e devo forse a lui, più che al demonio, se non accolsi nel seno lo spirito santo. Perchè egli non solo era incredulo, come quasi tutto il clero, ma di molte cose sacre si rideva come di pregiudizj da femminucce; dei preti e specialmente dei frati diceva corna; e tanta era la paura di esser messo in fascio con loro, che tollerava piuttosto aver taccia di licenzioso e disordinato che d’ipocrita e malvagio come tutti gli altri. Da giovane avea sedotto una monaca, ed era lì lì per condurla via di convento, quando i fratelli di lei, saputa a tempo la tresca e l’ora stabilita alla fuga, sorpresero i due colombi all’uscita, li legnarono di santa ragione, e lei ricacciarono in gabbia, lui lasciarono a terra per morto. Di questo amore egli si ricordava e parlava spesso, e senza circospezione e riguardo, anche a’ suoi scolari; e a me, che gli ero carissimo, mostrava talvolta le lettere di lei, e ripeteva le poesie che quella serva del Signore al tempo dei tempi gli aveva ispirato. Perciocchè, oltre le donne e il vino, quasi buon discepolo di Lutero, egli amava potentemente la musica; e scriveva ed improvvisava dei versi, che se non erano perfetti modelli di eleganza e di poetica originalità, eran pur sempre melodici e non privi d’un certo tal fuoco, o d’affetto o di vino che fosse, il quale facevali parer bellissimi a noialtri giovani. E non solo verseggiava egli, ma pretendeva, questo era il bello, che scombiccherassimo versi anche noi, come se fossimo tutti nati con la bozza poetica nel cervello. Ci addestrava però alla prestidigitazione prosodica; c’imborrava la testa di florilegj; ci dava tanti temi da crocifiggere in settenarj o in endecasillabi rimati col Ruscelli alla mano; faceva insomma di tutto perchè ognuno di noi diventasse, a dir poco, un Metastasio. Con me era davvero un affar serio: la sua prosodia, prima non c’era cristi che m’entrasse nel capo; poi, quando finalmente mi c’entrò, mi giovava, per essere modesto, assai poco: sapevo che gli endecasillabi han da essere di undici sillabe di netto e senza tara; han da avere gli accenti così e così; ma al tirar dei conti, come che, valga il vero, mi aiutassi bravamente con le mani e co’ piedi, e più forse con questi che con quelle, si trovava quasi sempre un vuoto o un avanzo di qualche sillaba, per non parlar degli accenti che io mettevo come diavolini sui miei lattovari poetici. Il poveretto ci si arrabbiava di cuore, e io ne restavo sinceramente mortificato; ma che colpa ci avevo io, se non trovavo ancora nel mio cervello e nel mio cuore nessuna idea, nessun sentimento che si volesse adagiar in quelli schemi, che a me parevano tante camicie di forza? Ma sì, bisognava dirlo a lui! Era il caso di vedersi tirar sulla testa un libro, il calamajo, la sputacchiera, la chicchera col caffè o qualunque altro projettile gli capitasse fra le mani: tanto era bilioso e manesco.

Gli argomenti che mi dava erano d’un’ampiezza e di una novità edificanti: l’invidia, p. e. l’amore, la famiglia del giocatore, il condannato a morte, e altri di simil conio. Talvolta ci entravano anche i santi; non già ch’ei li prendesse sul serio, ma per farmi esercitare nel genere sacro; ed io, a dir la verità, non mi ci trovavo troppo a disagio; perchè allora, bisogna che lo dica, nel mio cuoricino di tredici anni c’era il fungo religioso: andavo spesso in chiesa, servivo la messa, suonavo le campane e belavo in coro il Pange lingua con vera unzione; la qual cosa, per altro, non toglieva ch’io m’attaccassi di furto alle sacre ampolline, mangiassi le ostie a manciate e partecipassi al caffè con la cioccolata che si dava in sacristia per le quarantore. E il primo componimento poetico, che al mio maestro paresse degno del cedro, fu appunto di genere sacro, un’ode a Sant’Agata vergine e martire catanese, un’ode numero uno, in grazia della quale io spero, quando che sia, di avere aperte le braccia e accordate le grazie spirituali dalla mia santa patrona. Non dirò che il mio maestro non ci avesse messo lo zampino; ma la sostanza, e che sostanza! era tutta roba mia; s’immagini: cominciavo dalla caducità della bellezza muliebre, paragonata con ardire novissimo al fior che sorge ed appassisce; celebravo i serti immarcescibili dei beati; e finivo con un fervorino alla santa, a cui raccomandavo la protezione e la libertà della patria! Erano i tempi felici, che la libertà era perfino bandita dal duetto dei Puritani: figurarsi gli occhiacci del R. Revisore, quando lesse i miei versi! Mandò a chiamarmi all’Intendenza, dove allora troneggiava terribile il Panebianco. A mio padre, uomo onestissimo e paurosissimo, vennero i brividi della febbre, e voleva impedir lo mio fatale andare; ma io compreso tutto della mia alta missione d’apostolo, colla testa piena delle Mie Prigioni, acquetai mio padre, uscii di casa con un pretesto, e corsi ad affrontare il pericolo, non senza prima vagheggiare l’ombra del mio corpo, la quale, per essere il sole ancor basso, parvemi avesse tutte le proporzioni richieste per mettermi a tu per tu co’ tiranni ed affrontare all’occorrenza il martirio. L’idea d’essere arrestato e mandato in galera per affar d’opinione mi sorrideva gloriosamente: amavo la galera assai più dei canditi; ciò che, avuto riguardo alla mia rispettabile ghiottornia, mi par certamente indizio di animo straordinario. — Un ergastolo come lo Spielberg! almeno almeno come quello di S. Stefano! Ma prima un carcere co’ Piombi: sì, i piombi ci hanno a essere, se no, non c’è sugo; e poi la venezianina adolescente sbirra e le zanzare e le tragedie fatte a memoria o scritte nella carta dei fichi secchi — M’esaltavo in me stesso a pensarci.

Quando il R. Revisore mi vide, non si rannuvolò, non mi guardò bieco, non fece chiamare i birri; mi sorrise anzi benevolmente, e portò l’arroganza fino al punto d’accarezzarmi la guancia! Accarezzar la guancia a un ribelle, a me che sognavo i Piombi! Era un insulto sanguinoso, e allo stesso tempo un’amara delusione. Voleva nientemeno persuadermi a sopprimer la strofa; poveraccio! non sapeva che quella strofa stava per esser colata in bronzo e apparteneva di diritto alla posterità. — Ma, santo Dio! cambiala allora; leva almeno quella parolaccia in à; metti verità, lealtà, carità; signore Iddio, mancassero parole; via, non esser poi tanto caparbio; vedi, io son di manica larga. — Mi dava del tu! Non ci voleva che questa per farmi sempre più incaponire. Dante mi sussurrava all’orecchio:

     Sta, come torre ferma che non crolla
     Giammai la cima per soffiar di venti;

ed io tenni duro, tanto che il Revisore, scappatagli la pazienza, mi licenziò bruscamente, dicendomi che non poteva permettere la stampa della mia poesia.

Non pubblicare quell’ode era per me come un rinunziare alla gloria. Corsi dal professore, il quale trovò modo di aggiustar la faccenda; l’ode fu stampata con qualche lieve mutamento di parole, che in fondo in fondo dicevano la stessa cosa di prima; e da quell’ora memorabile del 4 febbrajo 1857, mentre la festeggiata patrona passava per piazza Stesicorea tra un’immensa folla baccante, e i miei sonetti variopinti, lanciati dalle finestre del Tribunale, s’avvolgevano svolazzando tra il fumo dei mortaletti, per cadere sulle teste, fra le mani e sulla punta de’ bastoni, che s’agitavano all’aria per acchiapparli, io presi il mio regolare biglietto d’andata senza ritorno al monte della Gloria e al tempio dell’Immortalità.

Non m’addormentai su’ non caduchi allori, o, per dir meglio, sull’orologio d’argento che mi regalò mio padre in quella congiuntura solenne; anzi mi venne come una smania, una specie di forza irresistibile di verseggiare; poetai, passi la parola, su tutto: sul mio cane, sull’eruzione dell’Etna, sul cholera-morbus, sul mio primo amore; sì, perchè io ero allora ammalato di questa specie di lattime dell’anima: un amore invincibile, già s’intende, contrariato ed infelice come quello di Romeo e Giulietta; se non che, questi si vedevano e baciavano nottetempo in giardino, ed io vedevo lei, la mia donna fatale, di pieno giorno, al balcone di faccia, e sempre con la via di mezzo e gli asini bipedi o quadrupedi che ci passavano. Non seppi mai per l’appunto come ella accogliesse, o per esser più sincero, se ella avesse mai conosciuto il mio disperato amore; il certo è questo, che io sfogai la mia terribile passione in tutti i metri fin allora inventati, e che la stella de’ miei pensieri andò poco di poi a tramontare in un’alcova nuziale, e propriamente fra le braccia d’un legulejo. Jacopo Ortis mi disse: Ammàzzati. Ma Filippo mi gridò:

                                    Vivrai tu dunque,
          Mal tuo grado vivrai;

ed io, trovato molto più opportuno il secondo consiglio, mi rassegnai dolorosamente alla vita, mi condannai con severità inaudita al supplizio di vivere, vita natural durante.

Mi rivolsi allora all’Italia. Capisco che avrei dovuto pensarci prima, per esser fedele, se non altro, alle prime parole delle Ultime lettere e alle ultime frasi di Lorenzino in un vecchio dramma di quel Dumas, che, con un teatro come il suo sullo stomaco, aveva il coraggio di mettere in canzonella l’Alfieri; ma la cosa andò proprio nell’ordine sopraccennato; ed io prego la posterità, che aspetta a bocca aperta il mio nome, di non aggiungere nè levare una sillaba a ciò che scrivo io in queste pagine destinate a sfamare la sua legittima ed ansiosa curiosità. Mi rivolsi dunque all’Italia, ed urlai in chiave di lupo impubere:

       Ahi serva Italia di dolore ostello;

e desiderai con le visceri del senator Vincenzo Filicaja, ch’ella fosse men bella o almen più forte, non senza spargere una lagrima grossa quanto un chicco d’uva sulla

      Italia mia, benché il parlar sia indarno.

Indarno un fico secco: io non mi credetti quell’io che avevo sfidato le ire terribili del R. Revisore, prima di aver fulminato più serque di decasillabi contro i tiranni, una vera falange di romanze politiche e d’inni patriottici contro il giallo ed il nero, colori esecrandi a ogn’italo cor.

Figurarsi la tremarella del mio povero padre, una tremarella che durò fino al 60! Dalla romanza e dall’inno passai alla cantica, saltai alla novella, m’adagiai nel poemetto; scrissi un Dione, e, bisogna pur che lo confessi, una Fausta e Crispo, che vide poco dopo la luce e che fu e sarà, modestia da parte, il più sciocco, se non il più grosso peccato della mia vita.

Quel volumettino in sedicesimo, stampato in Catania, con caratteri logori, in cartaccia stopposa, con copertina turchiniccia, mi sta ancora dopo tanti anni dinanzi agli occhi, mi balla sul tavolino nell’ore di sconforto, mi pesa sullo stomaco come una macina. A quel tempo io ero uscito di scuola, non avevo più maestri, non amici, nessuno che mi consigliasse, mi correggesse; m’ero fatto un mondo piccino piccino a mia propria imagine e sodisfazione, e me lo portavo addosso come la chiocciola il guscio: ogni lumacatura che lasciavo dietro di me, mi pareva la via lattea, nè più nè meno. I poeti greci non li conoscevo neppur di nome; i latini appena di vista; e intanto la mia Fausta era in una specie di luna di miele, prendeva i baci appiccicosi del rullo inchiostrato, si compiaceva dei replicati amplessi del torchio, ed era sul punto di uscire all’onore del mondo. Il mio stampatore era anche librajo; e un giorno, aspettando le ultime bozze, mi cadde sotto gli occhi una traduzione dell’Ero e Leandro. La presi, la lessi, la portai a casa, la rilessi non so quante volte; e tanta fu la vergogna di quell’aborto che stavo per mandare al pubblico, che non volli per parecchi giorni andare in tipografia. Quando rividi gli stamponi, aggiustai, rifeci, confettai, spolverai d’Ero e Leandro le ultime pagine, e il pasticcio diventò più mostruoso di prima. Ne mandai pochi esemplari ai conoscenti, gli altri diedi a’ libraj, non per isperanza che avessi di venderli, ma per levarmeli di casa e dagli occhi. Da Museo ero intanto corso a Teocrito, ad Eschilo, ad Anacreonte, ad Omero; mi si schiuse un nuovo mondo, ed ebbi non più vergogna, ma dispetto, ma rabbia contro di me stesso e di tutti coloro che mi ringraziavano e mi lodavano del regalo, invece di gettarmi in faccia quell’insulso libriciattolo e di rimandarmi a scuola a suon di scappellotti. Levai di mano a’ libraj tutte le copie che avevo loro mandato, e ne feci un bel falò in mezzo al mio studio, dopo d’aver posto a’ quattro angoli della stanza i quattro poeti di gesso per assistere alla cerimonia solenne.

Stetti un par d’anni senza più farmi vivo, lottando con mio padre che voleva costringermi a prender la bacca dottorale (che io non presi mai, benchè avessi fatto il mio bravo corso di giurisprudenza e pagato regolarmente le tasse); studiai come non ho forse più fatto in vita mia; rifeci da me e a modo mio e da cima a fondo la mia educazione letteraria, tuffandomi e temprandomi ne’ divini lavacri dell’arte greca e latina, risanando la mia mente, e infermando, pur troppo, il mio corpo.

Agli ultimi del 63 mi venne la tentazione di ricomparire in pubblico, e diedi in luce alcuni Canti, assai scorretti nella forma dal primo all’ultimo, non del tutto spregevole il primo, intitolato Tenebre e Luce, per un tal concetto storico filosofico, che può considerarsi come il seme da cui nacque dopo cinque anni la Palingenesi.


Mario Rapisardi.




  1. Dal Primo Passo, Note autobiografiche, raccolte da Ferd. Martini. 2ª ediz., Roma 1883.


Note

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