< Orlandino (Folengo)
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Apologia de l'autore
Carmen eiusdem autoris ad Paulum Ursinum

APOLOGIA DE L’AUTORE


Leggesi, candidissimi lettori miei, fra gli altri faceti gesti del lepidissimo Gonella che, volendo egli l’opinione sua sostentare al signor illustrissimo duca di Ferrara, ch’assai maggior fusse de’ medici lo numero che d’altri professori di qualunque arte si sia, legatosi un giorno il braccio destro in guisa di stroppiato al collo, andava quinci e quindi girando per le piazze come se per doglia di spasmo non ritrovasse loco dove fermar si potesse. Or avvenne che quanti mai cosí angosciosamente quello penare vedeano, con molta lui compassione addimandavanogli qual fusse del suo male cagione; ed egli, tuttavia dissimulandosi addolorato, ritrovava qualor questa qualor quell’altra infirmitade, tal che da tutti loro qualche rimedio riportava: laonde lo proverbio da lui stesso pensato finalmente con gli altri meritò d’essere per esperienza collocato. Ma veramente, poscia che questa favoletta mia de l’Orlandino, sincerissimamente da me composta, uscita mi è da le mani per complacenzia di chi solo comandar mi puote, dirò con baldanza non manco essere lo numero de’ commentatori e interpreti che di medici temerari, de li quali, se rarissimi sono (risguardato il numero loro copiosissimo) li periti conoscitori delli occurrenti morbi, niuno al tutto commentator de l’Orlandino mio essere verace sin qua ho isperimentato. Ma Dio volesse almeno che lor interpretazioni, cosí come resultano in mio danno e vergogna, mi fussero per contrario ad utilitade insieme con qualche onore, come sopra la bella canzone del Benivieni lo profundissimo ingegno di Gianni Pico aver fatto vedemo. Certamente né voglio né per niuna guisa possiomi de li evidenti errori a le dotte persone iscusare, dico quanto a l’eleganzia toscana, totalmente di Lombardia (non mediantevi lo studio di essa) da natura rimossa; ma del soggetto e materia di essa operetta immeritamente per colpa d’alcuni sospettosi ipocriti son io d’infamia non poca svergognato; perché, quantunque alcune cose vi siano poste le quali in gravezza de la fede nostra o sia de la sacra scrittura o de li religiosi appaiono essere, nulla di manco la mera intenzione de l’autore non vien in alquanti accomodatamente intesa, la qual è via piú presto inclinata in biasmar li mordaci di essa che morder universalmente la candidissima fede nostra. E in segno manifesto di mia sinciritade quelle pochette bestemie pongo sempre in bocca ad alcuno tramontano, donde li errori il piú de le volte sogliono repullulare. Vero è che da me stesso confermo poi li religiosi d’oggi (non dico tutti) esserne potentissima cagione, la quale non mi curo testé quivi di scrivere, ove solamente a la escusazione e diffensione mia io sono intento. S’io pongo la istoria di monsignore Griffarosto, la intenzione mia non fu però d’alcuna particolaritade conceputa; anzi voglio che sotto l’ombra di esso, eccettuata la reverenzia sempre de l’integerrimi prelati, stiano tutti quanti li simili soi, non avendovi un minimo riguardo a le minacce d’alcuni, li quali, per sua verso me contra ragione malevolienza, di mie calunnie sono seminatori. Ma di molto piú momento potriami parere la sciocca saviezza d’alcuni altri, li quali, di continuo perfumandosi di muschio ed ambracano, cosí a noia e schifo pigliano quella piacevole e risoria giostra mia, ne la quale, sí come ancora in altri passi di essa operetta, fassi menzione di sterco e puzzo, non attendendo loro la persona lorda e vieta e stomacosa d’un furfante, la quale non mi sdegno rappresentarvi, acciò che per mezzo di poter dire baldanzosamente ogni cosa pervegnasi finalmente a la veritade; ché quando d’altra materia non cosí vile io parlassi, lo nome mio appropriato, anzi niuno, vi antiponerei. Pur questa lor alterigia di mente poco mi offende, ché tal opera non composi a simili sputasenni; ma veda chiunque di loro quello che sanno in mio scorno ed infamia scrivere, ché forse udiranno le colonne profetizzare insieme con li pareti di lor vita, ché dove sentesi la doglia ivi corre la lingua. Questo simile dico de le parole uscite talora de la penna men che onestamente pubblicate, perché non molto disconvenevole mi parve in simile soggetto fingermi «pitocco», ne la qual persona dovendosi recitare una commedia, ragionamenti soluti e strabocchevoli accascarebbono. Ben vorrovvi, singularissimi amici miei, esservi allora odioso e reprobo, quando vita e costumi a le predette immondizie corrisponderanno. Ma s’io vi parrò singularmente tassar alcuna persona, non è però ch’uomo qual che si sia poscia quella immaginare non che sapere, perché non mi reputo lealmente aver nemico al mundo tanto da me odiato quanto l’anima mia da me risguardata: bastami solamente che ambi noi sappiamo di cui si parla. Or dunque la mera veritade via piú satisfacevole vi sia che la presente apologia, candidissimi lettori miei, la quale dal seggio suo constantissimo giammai non si parte. Molto ancora vi si potrebbe dire; ma lo giá detto a gli animi generosi e leali so bene che troppo lungo e fastidioso appare; però la nobiltade d’ogni altro spirito non si dignará, spero, leggere cotal mia satisfazione in una notte impetuosamente composta, essendomi da non so cui potente tiranno minacciato, ed io con ogni veritade, la quale partorisce odio, mi son posto a tentar di sodisfar a lui con gli altri di simile sentenzia.

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