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- CAPITOLO QUINTO
1
O donna mia, c’hai gli occhi, c’hai l’orecchie
quelli di pipastrel, queste di bracco,
non vedi come amor per te m’invecchie,
tal che Saturno fatto son di Bacco?
Non mi guardar ch’aggia le scarpe vecchie,
no ’l boccalone, la schiavina, il sacco;
ch’io son tale però qual non fu’ mai,
e, se tu ’l provi, forse piangerai.
2
Ché s’una fiata mi concedi un baso
in quella guancia, qual persutto, rossa,
ed anco ch’un sol tratto i’ ficca ’l naso
in cul non dico giá, ma in quella fossa
di tue mammelle sin al bosco raso,
ubi Platonis requiescunt ossa,
forse piú con le schiene che col fiato
il mio sonar di piva ti fia grato.
3
Tornata era a la stanza giá Frosina,
ove Milon avea rotta la porta
di sua madonna e fatta tal ruina,
che di mai racconciarla si conforta.
Sopra un forciero il letto suo destina,
e tutta notte di vegghiar supporta,
mentre gli amanti giocano a le braccia,
dicendo col suo cuor: — Bon pro gli faccia! —
4
Fugge la breve notte col solaccio,
e dicono gli augelli ch’el vien giorno.
La provvida Frosina c’ha l’impaccio
veder ch’i duo non abbian qualche scorno,
vassine al letto e trovali ch’in braccio
dormendo l’un di l’altro fan soggiorno;
destali pianamente e dálli avviso
che ’l sole trovaralli a l’improvviso.
5
Con l’émpito e prestezza con cui sòle
Milon saltar a l’arme for di letto,
quand’ha sopra di sé la grave mole
di copie armate e stanne con sospetto,
sferrasi amaramente dal bel sole
de’ soi pensieri e lascia ogni diletto,
prende la spada ed anche un bascio tale,
che fu principio poi d’un lungo vale.
6
Solo soletto mille stanze passa
fin che pervenne a l’uscio del suo loco;
spingelo presto, l’urta, batte e quassa;
non è chi l’apra; onde tutt’arse in foco:
corre col piede, e ’l cardine fracassa,
che risona d’un strepito non poco:
il camarier non trova, ed ei, corcato,
subitamente si fu addormentato.
7
Turpin quindi si parte ad Agolante,
che passar in Europa si destina;
chiede Mambrino seco ed arma tante
copie di bella gente saracina,
che spera in tempo breve por le piante
sul collo a Carlo, con sua gran ruina.
Dopo scrive d’un dio Demogorgone,
ch’era sopra a le fate e fatasone.
8
Dipinge il suo giardino su nei monti
Rifei, d’oro e d’argento fabbricato:
narra le ripe, i fiumi, l’ombre, i fonti
ed un palazzo d’ambra edificato:
narra di molte capillate fronti,
figliuole di Fortuna e del gran Fato,
fra le qual ninfe (o fate, altri l’appella)
era Morgana e Alcina sua sorella.
9
Narra, Demogorgon aver per moglie
Pandora, de le fate la piú bella,
donde nascon le pene, affanni e doglie
e di lor empion questa parte e quella
di tutto ’l mondo, ed egli par ch’invoglie
far al suo modo il tempo ed ogni stella.
Volge Turpin lo stile poi, narrando
un caso di Milone, atro e nefando.
10
Or che far deve Berta essendo gravida,
e ’l ventre di dí in dí le vien piú tumido?
Si pente mille volte che tropp’avida
fu di mischiar col dolce caldo l’umido:
teme ’l fratello e piú sempre vien pavida,
col volto scolorito e l’occhio fumido.
Solo Frosina è sola fida ancilla,
che con avvisi rendela tranquilla.
11
Fidel ancilla non fu giá Diambra
che, empir la sua lassivia non potendo,
entrò di sua madonna ne la ciambra
di notte, ove l’ancise, lei stringendo
nel collo co’ le man, s’una sicambra
o mora fusse stata; ché io m’incendo
d’ira, di rabbia, quando mi rammento
una Taís aver Lucrezia spento!
12
Rampallo da Milone seppe il tutto;
teme a l’amico piú ch’a se medemo,
vedel esser in faccia smorto e brutto,
come in un colmo di dolor vedemo;
nulla di manco acciò ch’egli destrutto
non resti o morto per affanno estremo,
léval sovente con parlar salubre,
rendendolo men tristo e men lugúbre.
13
D’udirsi piú la facultá vien tolta
(proverbio: «Ch’ogni giorno non è festa»!);
torno al palazzo va Milon talvolta,
ché ’l desio di vederla lo molesta;
ma nulla fa, ch’ella sen sta sepolta
sí come donna vergine ed onesta;
ond’egli piú che mai sospira e langue
e piú non ha color, vita né sangue.
14
Ecco ’l dolce piacer sí tosto e breve,
c’hanno sovente insieme i ciechi amanti,
se giustamente equiperar si deve
a’ succedenti affanni e lunghi pianti!
Eccoti, amante, sí esto Amor è leve
che cangia in un momento in lutto i canti;
e poi che t’ha condutto al teso laccio,
fugge ’l protervo e lásciati ’n impaccio.
15
Mentre certamente passa il fatto
e ’l grosso ventre ancor non dá sospetto,
giunse a Parigi un Cardinal difatto,
che a grande onore fu da Carlo accetto.
Papa Adrian il manda molto ratto,
per tosto opporse al stol di Macometto,
lo qual possede giá Cicilia tutta;
mezza Calabria in foco è giá destrutta.
16
Lo capitan di questi turchi e mori
è re Guarnero, frate di Agolante,
quell’Agolante che d’imperatori
del mondo è il piú superbo ed arrogante.
Costui li cristian d’Italia fori
scacciar vorria per vindicar Barbante
suo padre, il qual ancise Carlo Mano
per Gallerana nel contato ispano.
17
Or al consiglio Carlo si ricorre
per contrapporsi al foco giá vicino:
qui lo senato in un pensier concorre,
che ’l gran Milone, sommo paladino,
com’è sua cura, vogliasi disporre
fornir la impresa contra il saracino.
Pensate in qual travaglio allor trovossi!
Non ha pensier che tutto nol disossi.
18
Fra questo tanto, mentre il duca Amone
sentesi di la spalla molto male,
Ginamo di Maganza si dispone
voler per mezzo di quel cardinale
impetrar Beatrice da Carlone
per moglie sua né vòl premio dotale:
anzi per contradote a carte schiette,
maria et montes dar a lei promette.
19
Il saggio Namo, ch’è padre di quella,
temendo fra Maganza e Chiaramonte
non pullulasse costion novella,
al duca non pendendo piú ch’al conte,
condusse al re Carlone la dongella,
dicendo che cagion di cotant’onte
esser giá non volea, ma ch’egli stesso
dia lei marito come par ad esso.
20
Milon, odendo ciò, guarda in traverso
Ginamo se talor lo ’ncontra in via.
Egli che di quei traiti è ’l piú perverso,
guardasi ben la pelle, e tuttavia
va praticando, e con modo diverso
drieto a Milone tien sempre la spia,
sí per intender chiaro il suo consiglio,
sí per saper cavarsi di periglio.
21
Ecco la gara in piede, ecco ’l travaglio
levato giá per colpa di libidine;
ma Carlo vòl frenar de’ brandi il taglio,
ché sempre alloggia Marte con Cupidine:
taccò a la coda subito un sonaglio
di maganzesi a molta sua formidine,
perché destina che, ambi duo giostrando,
chi vince abbia la donna al suo comando.
22
Or qui Ginamo perde ogni speranza,
sapendo ben che ’l pregio fia d’Amone:
va innanzi a Carlo, ed ha seco Maganza,
Pontieri e tutta l’atra nazione:
pensa smarrir, bravando, il re di Franza,
e dicegli su ’l volto che cagione
non ha di far a lui cotanto torto
per un Amon stroppiato e mezzo morto.
23
Milon ch’ode il rumore stando in piazza,
ratto su per le scale vien sbalzando,
e fra la folta turba anti si cazza
con tre famigli, e cinto ha sotto il brando;
sente che ’l traditor forte minazza,
se non avrá Beatrice al suo comando.
— Non l’avrai tu giá, se pria non giostri
— disse Milon — e quel che sei non mostri. —
24
Ginamo a quel parlar si volse indrieto,
vede Milon e ratto si scolora.
Conte Macario, piú de li altri inqueto,
risponde alteramente: — Alla bon’ora!
Non siamo morti, no; ma starti queto
farestú meglio e non destar chi dorme.
— Anzi pur vegghi troppo — disse il conte —
in far a Chiaramonte oltraggi ed onte. —
25
Macario c’ha la lingua for di denti,
tenendo su la spada la man destra,
rispose: — Per la gola tu ne menti! —
e per ferirlo subito s’addestra.
Milon non stette a dir: — Tu ne stramenti! —
anzi un roverso con la man sinestra
menò sí ratto, ch’un poltrone zaffo
non ebbe mai da un bravo il piú bel schiaffo.
26
Levasi Carlo tostamente in piede,
che giá duo millia spade esser cavate
e contra quattro sol vibrar le vede.
Milon, che ’n mezzo tanti brandi e spate
era con tre famigli, vi provvede
ben tosto in quelle genti al mondo nate
per tradir sempre ed ingrassar la terra
di sangue e dov’è pace porvi guerra.
27
Con quella rabbia ch’un leon tra cani
vidi cacciarsi sotto Giulio a Roma,
smembrandovi mastini, bracchi, alani
con la virtú sí altera e mai non doma;
cosí Milon fra quei lupi inumani
convien che ’l brando in lor mal giorno proma,
truncando spalle, busti, gambe e braccia,
ed ov’è ’l stolo denso, vi si caccia.
28
Ma duo de’ soi scudieri crudelmente
giá son in mille pezzi andati a terra;
lo terzo si ritira virilmente
appresso il suo patrone, il qual non erra
ovver spartir la testa in fin al dente
o fin al petto, e tanti giá n’atterra,
ch’un monte n’ha d’intorno in sangue merso,
chi tronco de la testa e chi a traverso.
29
Re Carlo, di gridar giá fatto roco
bandendo e minacciando or questo or quello,
adirasi talmente, che di foco
parea nel volto aver un Mongibello:
onde ricorse del bastone al gioco,
rompendo qua e lá piú d’un cervello;
ma nulla o poco fa la sua presenza,
ove non è rispetto e men clemenza.
30
D’ogni altro piú Macario di Susanna
ferir le schiene di Milon s’affretta,
il qual, secondo il merto, lo condanna
e fa del suo mentir aspra vendetta;
perché la lingua e i denti ne la canna
gli caccia d’una punta benedetta,
onde ’l meschin ne cade, ed una palma
di lingua sbocca fora e ’nsieme l’alma.
31
Poscia ferir Bernardo non s’arresta
fendendolo dal capo fin al petto,
e vibra una stoccata cosí presta,
ch’a Dudo passa il ventre e ad Ugoletto;
a un altro fa due parti de la testa,
a un altro un braccio, a un altro taglia netto
dal busto il capo, e molti a la cintura
trunca, se pasta fusse l’armatura.
32
Piú di mille n’ha morto, e gli altri caccia
e taglia e trunca e crudelmente svena;
volano gli elmi con le teste e braccia
mentre punte, fendenti e scarsi mena.
L’imperatore tuttavia minaccia
e batte col troncon; ma non raffrena
l’ira però, né rabbia di Milone,
che ’n tal error si manca di ragione.
33
— Cessa, Milon — dicea, — non far, ti dico,
io tel comando, lascia di ferire;
se non, spera d’avermi tal nimico,
qual studia giorno e notte altrui punire! —
Milon cotal parole men d’un fico
allor potea stimar in quel schermire;
onde, non l’ascoltando, caccia quelli
giú per le scale in guisa de stornelli.
34
Un sopra l’altro al fondo de le scale,
a vinti, a trenta vanno rotolando:
Milon sgombra di lor tutte le sale,
fin su la piazza i traditor cacciando;
dil che re Carlo in tanta furia sale,
perch’ei non ubbidisce al suo comando,
ch’allor allor gli fa bandir la testa,
s’andar giú del paese non s’appresta:
35
un termine gli dá sol d’una notte,
perché giá Febo scampa con la luce.
Or que’ tapini per caverne e grotte
ove né sol né luna mai traluce,
sonsi appiattati e temen altre botte,
che Chiaramonte e quel sí fiero duce,
che li ha scemati piú di mezza parte,
ivi non li arda in tutto e li disquarte.
36
In quella istessa notte (o crudel rabbia!)
cadde Milone in tanta bizzaria,
che cento maganzesi, come in gabbia,
venne assaltare dentr’un’ostaria;
né vi si parte mai fin che non li abbia
mandati tutti a pezzi in beccaria:
eravi Manfredon, padre di Gano,
cui trasse il core di sua propria mano;
37
e ’n la medesma notte sí lo affise
nel mezzo de la piazza con la testa,
e un breve scritto sopra quel li mise,
che dice: «Ancor il tuo, Carlo, mi resta!».
Oltra di questo in cotal notte uccise
un capitan chiamato il gran Tempesta,
lo qual con la sbirraglia in men d’un’ora
cacciò Milon di questo mondo fora.
38
Omai di sangue sazio in quell’istante
a vinti suoi compagni dá combiato,
fra’ quali v’è Terigi, quel bon fante,
che ’l giorno in sala sempre al fido lato
stette del suo patron a Carlo avante,
ed or per ubedirlo s’è spiccato.
Costui fu dopo a Orlando sempre caro
e di sue cose fido secretaro.
39
Milon si parte solo e gli altri lassa,
né mai per lor preghiere seco i volse;
sotto ’l regal palazzo intorno passa,
e drieto a quel per un sentier si volse
fin che, di pietre e sassi ad una massa
venuto, di salirvi cura tolse;
montavi arditamente a l’alta cima,
e come entri ’n palazzo seco stima.
40
Vede spuntar di fora un certo trave;
levasi in alto, e quel saltando giunge,
e benché d’arme sia carcato e grave,
pur forza con amor lá suso il punge.
Salito è molto spazio, e giá non pave
ficcar gli piedi e de le mani l’unge
per buchi e per físsure di quel muro,
tanto che giunse ad un balcon sicuro.
41
Trova qui drento un logo bisognoso
a l’uomo, quando ’l ventre scarca e leva;
quindi partito, da la notte ascoso,
va queto queto, e mentre un piè solleva,
l’altro tien sí che men sia strepitoso,
in fin che giunse ove Berta piangeva,
la qual in ciambra giá non può dormire,
ma, s’el piacesse a Dio, vorria morire.
42
Milon accenna a l’uscio leggiermente:
Berta sentendo trema di sospetto,
chiama Frosina, ma colei non sente;
onde Milon, per esser drento accetto,
disse qual era, e Berta immantenente,
senza pensarvi, salta for di letto,
corre a la porta aprendola di botto
e qui comincia un lagrimar dirotto.
43
Ma poscia che Milon ad invitarla
si mise per condurla seco in bando,
ella, cadendo in terra, piú non parla,
ché perse ogni vigor a tal dimando.
Vòl pur il cavalliero confortarla,
che far non voglia contra ’l suo comando;
ma nulla fa, ché in viso impallidita
lei vede for di mente esser uscita.
44
Frosina dorme, né ’l rumor ascolta,
ché ’l pianto dianzi fatto con madonna
in un profondo sonno l’ha sepolta.
Milone d’un lenzolo e d’una gonna
in un fardello tosto fa ricolta,
poscia, gagliardo, toltasi la donna
sul collo, via la porta con gran fretta,
giá sazio contra Carlo di vendetta.
45
Giá sazio di vendetta contra Carlo,
ché fe’ dopo ’l macello tal rapina;
ma sol amore non può saziarlo,
c’ha posto a quella ninfa pellegrina.
Portasi ’l dolce peso né lasciarlo
mai volse in fin ch’al logo s’avvicina
dond’or ne venne per la finestrella,
e, quivi giunto, in terra pose quella.
46
Ma non sí tosto giú posata l’ebbe,
che riede al seggio lor il spirto e ’l sangue.
Aperse gli occhi, e l’animo le crebbe:
— Dove sei, vita mia? — dicendo langue.
Milon risponde: — Donna, omai ti debbe
tornar il bel colore al volto esangue;
tessi pur tele Carlo, s’ei sa tessere;
s’è Amor per noi, chi contra noi vòl essere?
47
Guidarti meco voglio, s’el ti piace,
e trarti, ch’oggi è tempo, di periglio.
Sol Dio m’è testimon quanto mi spiace
doverti condur meco in tal esiglio.
Ma per locarti alfin ove sia pace,
far voglio da leon, non da coniglio,
e déi saper ch’assai minor è ’l danno
di pover libertá che un fier tiranno. —
48
Cosí parlando, tuttavia le cinge
la gonna intorno, seco anti recata,
gonna non giá di quelle ch’oro pinge,
ma da portar sotto bei manti usata.
Poscia le copre il capo e sí la finge
che in altra donna par esser mutata;
né Berta in nulla guisa piú parea,
ma Fillide, Neera o Galatea.
49
Qui poi di terra il gran lenzolo piglia
e quel divide in fascie lunghe e strette;
annoda i capi lor, e qui s’appiglia
con le man Berta, da Milon ben rette;
cala per quella corda, e s’assottiglia
ferma tenersi fin che in terra stette;
Milon drieto le manda il drappo d’alto
ed animoso venne giú d’un salto.
50
Qual timidetta agnella che ’l pastore
del lupo da le zanne abbia redenta,
non anco cessa palpitarle il core,
né mai l’orribil téma si rallenta;
cosí Berta, seguendo il suo rettore,
par sempre ch’a le spalle Carlo senta
che la persegua, e spesso a drieto guarda,
onde di correr forte mai non tarda.
51
Girato avea giá mezza notte il cielo,
ché passo passo vannosi le stelle:
anco non era caldo né anco gelo,
ma la stagion quando le viti belle
son carche d’uve, ed ogni ramo e stelo
di rosso e giallo par che ’l mondo abbelle;
Milone finalmente giunge al muro
de la cittade, molto grosso e duro.
52
Montavi sopra ed ha pur seco il panno,
del quale un capo tiene, l’altro giuso
a Berta manda, cui pareva un anno
ogni momento uscir di loco chiuso;
ma svelsela Milon di quell’affanno,
ché su la trasse e poi con essa giuso
calò del muro fora in su la sabbia;
di bosco uccelli giá, non piú di gabbia.
53
Tutta la notte vanno senza posa,
dal timor spinti e da speranza tratti,
pur dov’è qualche poggio o via petrosa,
per cui Berta convien che giú s’appiatti;
Milon, incontra, giá non si riposa,
ma in collo se la reca, e su per ratti
monti lei porta come fido amante,
se azzaio fusse dal capo a le piante.
54
Scoprendosi poi l’alba for d’un monte
trova un villano addosso a una cavalla,
lo qual s’affretta d’arrivar a un ponte,
e d’un serrato trotto al fiume calla.
Milon chiamagli drieto, e ch’ei dismonte
prega e riprega; ma ’l villan non falla
dal suo costume rozzo e discortese:
niente l’ascolta, e la via corta prese.
55
Prese la via piú corta verso il fiume,
che a guazzo quello trapassar vorrebbe:
allor Milon, s’avesse a piedi piume,
avventasigli drieto e giunto l’ebbe,
ove cosí correndo anco ressume
la cura d’insegnarli come debbe
caritativamente e con ragione
di quella donna aver compassione.
56
Mi maraviglio ben del cavalliero
che usar volesse tanta pazienzia;
perch’esser al villan crudo e severo
altro non è se non bontá e clemenzia:
anzi dirò ch’un fusto grosso intiero
è quello che gli spira gran prudenzia;
dalli pur bastonate sode e strette,
ché non si ha di guarirlo altre ricette.
57
Passava Giove per un gran villaggio
con Panno, con Priapo ed Imeneo;
trovan ch’un asinelio in sul rivaggio
molte pallotte del suo sterco feo.
Disse Priapo: — Questo è gran dannaggio:
En, Domine, fac homines ex eo.
— Surge, villane, — disse Giove allora;
e ’l villan di que’ stronzi saltò fora,
58
ed in quel punto istesso, quanti pani
fu di letame o d’asin o di bove,
insurrexerunt totidem villani
per tutto ’l mondo a far de le sue prove,
cioè pronte in rubar aver le mani,
e maladire il ciel quando non piove,
esser fallaci, traditor, maligni,
di foco e forca per soi merti digni.
59
— Aspettami, ti prego, caro amico,
— dicea Milon — e non aver spavento! —
ma quel poltrone, d’ogni ben nemico,
vedendo ch’egli ’l tien nel vestimento,
— Lasciami — disse allor, — lascia, ti dico:
non so chi sei: tu n’hai spogliato cento,
io ti comprendo ben che ladro sei:
rubasti l’arma, il brando, ancor colei.
60
Non men di me comprendesi, villani
esser di voi, soldati, la piú parte,
se vi lasciate calcular le mani
dai chiromanti nostri, che san l’arte
di zappe ed altri libri rusticani
meglio che portar picca sotto Marte;
e pur, quantunque bravi insuperbiti,
tutti sète villani stravestiti. —
61
E ciò parlando, trasse una sua daga
lucida quanto avea sotto ’l calcagno;
Milon, ch’è di natura sempre vaga
piú presto dar che tôr l’altrui guadagno,
or dignamente ad un furfante impaga:
volendolo purgar d’acque di bagno,
afferra ne la coda la cavalla,
ed ambi drento un fosso d’acqua avvalla.
62
Quel sciagurato in guisa di ranocchio
resta nel fango, e la giumenta uscisce.
— Ecco — disse Milon, — saggia, pidocchio,
che avviene ad un villan che insuperbisce:
rubaldo che tu sei! perder un occhio
dovria chi del tuo mal non ti punisce:
or pesca ben, c’hai modo di pescare,
ed io frattanto voglio cavalcare. —
63
E detto ciò, riprese la giumenta,
non per la coda piú, ma nel capestro:
Berta, che n’ha fastidio e si tormenta
per lo premier incontro assai sinestro,
salir su la cavalla non fu lenta,
maladicendo quel villano alpestro:
Milon va innanzi e fa de lo staffiero,
tirandosila drieto pel sentiero.
64
Tutto quel giorno e la notte seguente
non mai di camminar elli cessaro.
Berta sempre a le spalle Carlo sente
né crede di scansarlo aver riparo;
però vanno di trotto con la mente
chimerizzando, in fin ch’elli arrivaro
d’una grossa fiumara in capo, dove
scopreno l’alto mar ch’ivi si move.
65
Lungo a la spiaggia volgon il sentiero,
lasciando in sabbia lor vestigi sculti:
né molto vanno ch’un simile a Piero,
vecchietto pescator a li ami occulti
vedono trar nel legno suo leggiero
appesi con inganno i pesci stulti.
— Se in te — gridò Milon — avrai bontade,
tu ci darai mangiar per caritade;
66
e Cristo poi ti renda guiderdone,
dandoti quella destra del navigio,
che diede Gianni, Giacomo e Simone,
quando alleluia trasser di litigio. —
Risponde il vecchio: — Quest’è ben ragione! —
e ratto a terra volge lo remigio,
ove arrivato, for di barca scese,
portando il pesce quanto mai ne prese;
67
poi scote accortamente d’un azzaio
e d’una selce il foco su le fronde.
Milon che vede ciò, porta un legnaio
de pruni e de vergulti còlti a l'onde;
acceso il foco, Berta a piú d’un paio
di pesci cava l’intestine immonde;
Milon a la cavalla trae la sella,
sedevi suso e tiene la patella.
68
Stride sul foco il pesce drento l’olio
e Pallade si scampa da Mulcibero.
Berta tien stimulato sotto ’l dolio
fronde di tamariso e di giunibero;
vin muffo e forte e pan di faba e lolio
poscia espedisce quel vecchietto libero.
Milon si scotta e gli occhi spesso tange,
come uom che soi peccati al fumo piange.
69
Onde Berta sen ride e si consola
vedendo quel tant’uomo fatto coco,
a cui pel fumo e gli occhi e il naso cola
e brugiasi le gambe al troppo foco.
Milon che ben l’intende, una parola,
piangendo tuttavia, disse per gioco:
— Tre cose l’uomo cacciano di casa:
il fumo, il foco e la moglie malvasa. —
70
Berta risponde: — E pur non cura l’uomo
spiccarsi da le spalle tal urtica;
cotanto dolce fu l’acerbo pomo
ch’Adam gustò, porgendol Eva antica,
che, benché sol per lei di propria domo
scacciato fusse, parvegli fatica
lasciar la causa drieto del suo male,
perché dura è ragion al sensuale.
71
Cosí ti vien, Milon, che per la fame
d’indi non po’ levarti questo fumo. —
Egli risponde: — Son le belle dame
che ci han posto a la coda questo dumo. —
Berta ne ride, e senza voglie grame
sul pesce sparge omai di sale un grumo,
lo qual giá cotto rende saporito,
e poi lo mette in tavola sul lito.
72
Quel vecchiarello, a gentilezza dedito,
arrecavi le sue vivande povere;
egli non ha de’ campi o feudi redito,
se non la barca, il mar, il sole, ’l piovere.
Onde di simil sue ricchezze predito,
quel suo vin muffolente e pan di rovere
appone in sua presenzia, e dice: — Inopia
chi mangia di cotesta, mai non scopia.
73
Quanto mi trovo, tanto ne la vostra
presenzia, o miei patroni, ho qui diffuso.
In me il voler, ma no ’l poter si mostra
di far com’è tra vostri pari l’uso;
ma svaria molto questa voglia nostra:
chi tien aperto il pugno, chi ’l tien chiuso;
tal poco n’ha, che altrui quel poco imparte;
tal molto n’ha, che ruba l’altrui parte.
74
S’io avessi in arca l’oro di Tiberio
e li pomi del drago ch’ancise Ercule,
credeti a me (ciò dico a vituperio
de’ ricchi), men sarian coteste fercule.
Questi avarazzi fanno quel suo imperio
col sparagnare in fin a le cesercule,
le scope ed altre cose frali e frivole,
che per disdegno tutte non descrivole.
75
E s’io potessi, fondarei tal legge,
cui meglio non fondâr li antichi padri,
ché chi è signore e gli uomini corregge,
dricciar faria le forche a pochi ladri;
e chi la robba e vita sua ben regge,
verrebbe al sol de loghi oscuri ed adri;
ch’oggi vertú sta serva del dinaro
come ’l pover dottore a l’usuraro. —
76
— Qual legge è questa? — dissegli Milone
narraci, ti pregamo, padre caro.
— Voglio — risponde — che niun ladrone
abbia d’esser appeso alcun riparo,
se piglia quel d’altrui contra ragione,
eccettuando sol ciò c’ha l’avaro;
anzi vorrei che ’l pover s’appiccasse
se, potendo, l’avaro non rubasse.
77
Tu vederesti l’integri Catoni
più grati al mondo e dal predon sicuri;
tu vederesti l’improbi Neroni
a povertade men crudeli e duri;
tu vederesti li empi Licaoni,
pigliata la lor parte, non più furi;
la parte sua, che sta ne l’altrui copia,
ché ’l tuo superfluo causa la mia inopia.
78
Che maladetta sia l’ingorda rabbia
di questa lupa, e chi adorar la vole!
Ché se quante son miche in questa sabbia
e quanti cascan atomi dal sole,
tanti dinari avvien che ’l miser abbia,
apre, per anche averne, mille gole,
né pur si sazia la sua mente avara;
onde, qual sia un piacer, mai non impara.
79
Tal biasmo non v’adduco senza causa;
ché ho fatto d’un avaro mille prove.
E se ’l mio dir non vi facesse nausa,
direi di lui la miser vita, e dove. —
Rispose allor Milone: — Io faccio pausa;
eccoti da mangiare; ché ’l mi move
l’aspetto tuo talmente, ch’io starei
digiuno, per udirti, giorni sei. —
80
Qui narrò il vecchio una faceta istoria
d’un prete fiorentino tanto avaro,
ch’ai fin di doglia perse la memoria,
giá divenuto pazzo pel dinaro.
Ma voglio ch’abbian altri questa gloria
dirlo meglio di me; ché sol m’è caro
venirne finalmente ad Orlandino,
giá molto al nascimento suo vicino.
81
Ma Caritunga mia chiedemi a cena;
tenetivi, signori, ch’io vi lasso.
Penso mangiar una cornacchia piena
de’ sogni, che non scrive il mio Tricasso;
poscia vo’ bere d’una certa vena
d’acque distanti a quelle del Parnasso,
le quali a molti toglion il cervello,
ma queste li dinari col mantello.