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CANTO TRENTESIMOTERZO
1
Timagora, Parrasio, Polignoto,
Protogene, Timante, Apollodoro,
Apelle, piú di tutti questi noto,
e Zeusi, e gli altri ch’a quei tempi fôro;
di quai la fama (mal grado di Cloto,
che spinse i corpi e dipoi l’opre loro)
sempre stará, fin che si legga e scriva,
mercé degli scrittori, al mondo viva:
2
e quei che furo a’ nostri dì, o sono ora,
Leonardo, Andrea Mantegna, Gian Bellino,
duo Dossi, e quel ch’a par sculpe e colora,
Michel, piú che mortale, angel divino;
Bastiano, Rafael, Tizian, ch’onora
non men Cador, che quei Venezia e Urbino;
e gli altri di cui tal l’opra si vede,
qual de la prisca etá si legge e crede:
3
questi che noi veggián pittori, e quelli
che giá mille e mill’anni in pregio furo,
le cose che son state, coi pennelli
fatt’hanno, altri su l’asse, altri sul muro.
Non però udiste antiqui, né novelli
vedeste mai dipingere il futuro:
e pur si sono istorie anco trovate,
che son dipinte inanzi che sian state.
4
Ma di saperlo far non si dia vanto
pittore antico né pittor moderno:
e ceda pur quest’arte al solo incanto,
del qual trieman gli spirti de lo ’nferno.
La sala ch’io dicea ne l’altro canto,
Merlin col libro, o fosse al lago Averno,
o fosse sacro alle Nursine grotte,
fece far dai demonii in una notte.
5
Quest’arte, con che i nostri antiqui fenno
mirande prove, a nostra etade è estinta.
Ma ritornando ove aspettar mi denno
quei che la sala hanno a veder dipinta,
dico ch’a uno scudier fu fatto cenno,
ch’accese i torchi; onde la notte, vinta
dal gran splendor, si dileguò d’intorno;
né piú vi si vedria, se fosse giorno.
6
Quel signor disse lor: — Vo’ che sappiate,
che de le guerre che son qui ritratte,
fin al dí d’oggi poche ne son state;
e son prima dipinte, che sian fatte.
Chi l’ha dipinte, ancor l’ha indovinate.
Quando vittoria avran, quando disfatte
in Italia saran le genti nostre,
potrete qui veder come si mostre.
7
Le guerre ch’i Franceschi da far hanno
di lá da l’Alpe, o bene o mal successe,
dal tempo suo fin al millesim’anno,
Merlin profeta in questa sala messe;
il qual mandato fu dal re britanno
al franco re ch’a Marcomir successe:
e perché lo mandassi, e perché fatto
da Merlin fu il lavor, vi dirò a un tratto.
8
Re Fieramonte, che passò primiero
con l’esercito franco in Gallia il Reno,
poi che quella occupò, facea pensiero
di porre alla superba Italia il freno.
Faceal perciò, che piú ’l romano Impero
vedea di giorno in giorno venir meno:
e per tal causa col britanno Arturo
volse far lega; ch’ambi a un tempo furo.
9
Artur, ch’impresa ancor senza consiglio
del profeta Merlin non fece mai,
di Merlin, dico, del demonio figlio,
che del futuro antivedeva assai,
per lui seppe, e saper fece il periglio
a Fieramonte, a che di molti guai
porrá sua gente, s’entra ne la terra
ch’Apenin parte, e il mare e l’Alpe serra.
10
Merlin gli fe’ veder che quasi tutti
gli altri che poi di Francia scettro avranno,
o di ferro gli eserciti distrutti,
o di fame o di peste si vedranno;
e che brevi allegrezze e lunghi lutti,
poco guadagno et infinito danno
riporteran d’Italia; che non lice
che ’l Giglio in quel terreno abbia radice.
11
Re Fieramonte gli prestò tal fede,
ch’altrove disegnò volger l’armata;
e Merlin, che cosí la cosa vede,
ch’abbia a venir, come se giá sia stata,
avere a’ prieghi di quel re si crede
la sala per incanto istorïata,
ove dei Franchi ogni futuro gesto,
come giá stato sia, fa manifesto.
12
Acciò chi poi succederá, comprenda
che, come ha d’acquistar vittoria e onore,
qualor d’Italia la difesa prenda
incontra ogn’altro barbaro furore;
cosí, s’avvien ch’a danneggiarla scenda,
per porle il giogo e farsene signore,
comprenda, dico, e rendasi ben certo
ch’oltre a quei monti avrá il sepulcro aperto. —
13
Cosí disse; e menò le donne dove
incomincian l’istorie: e Singiberto
fa lor veder, che per tesor si muove,
che gli ha Maurizio imperatore offerto.
— Ecco che scende dal monte di Giove
nel pian da l’Ambra e dal Ticino aperto.
Vedete Eutar, che non pur l’ha respinto,
ma volto in fuga e fracassato e vinto.
14
Vedete Clodoveo, ch’a piú di cento
mila persone fa passare il monte:
vedete il duca lá di Benevento,
che con numer dispar vien loro a fronte.
Ecco finge lasciar l’alloggiamento,
e pon gli aguati: ecco, con morti et onte,
al vin lombardo la gente francesca
corre, e riman come la lasca all’esca.
15
Ecco in Italia Childiberto quanta
gente di Francia e capitani invia;
né piú che Clodoveo, si gloria e vanta
ch’abbia spogliata o vinta Lombardia;
che la spada del ciel scende con tanta
strage de’ suoi, che n’è piena ogni via,
morti di caldo e di profluvio d’alvo;
sí che di dieci un non ne torna salvo. —
16
Mostra Pipino, e mostra Carlo appresso,
come in Italia un dopo l’altro scenda,
e v’abbia questo e quel lieto successo,
che venuto non v’è perché l’offenda;
ma l’uno, acciò il pastor Stefano oppresso,
l’altro Adrïano, e poi Leon difenda:
l’un doma Aistulfo, e l’altro vince e prende
il successore, e al papa il suo onor rende.
17
Lor mostra appresso un giovene Pipino,
che con sua gente par che tutto cuopra
da le Fornaci al lito pelestino;
e faccia con gran spesa e con lung’opra
il ponte a Malamocco, e che vicino
giunga a Rialto, e vi combatta sopra.
Poi fuggir sembra, e che i suoi lasci sotto
l’acque; che ’l ponte il vento e ’l mar gli han rotto.
18
— Ecco Luigi Borgognon, che scende
lá dove par che resti vinto e preso,
e che giurar gli faccia chi lo prende,
che piú da l’arme sue non sará offeso.
Ecco che ’l giuramento vilipende;
ecco di nuovo cade al laccio teso;
ecco vi lascia gli occhi, e come talpe
lo riportano i suoi di qua da l’Alpe.
19
Vedete un Ugo d’Arli far gran fatti,
e che d’Italia caccia i Berengari;
e due o tre volte gli ha rotti e disfatti,
or dagli Unni rimessi, or dai Bavari.
Poi da piú forza è stretto di far patti
con l’inimico, e non sta in vita guari;
né guari dopo lui vi sta l’erede,
e ’l regno intero a Berengario cede.
20
Vedete un altro Carlo, che a’ conforti
del buon Pastor fuoco in Italia ha messo;
e in due fiere battaglie ha duo re morti,
Manfredi prima, e Coradino appresso.
Poi la sua gente, che con mille torti
sembra tenere il nuovo regno oppresso,
di qua e di lá per le cittá divisa,
vedete a un suon di vespro tutta uccisa. —
21
Lor mostra poi (ma vi parea intervallo
di molti e molti, non ch’anni, ma lustri)
scender dai monti un capitano Gallo,
e romper guerra ai gran Visconti illustri;
e con gente francesca a piè e a cavallo
par ch’Alessandria intorno cinga e lustri;
e che ’l duca il presidio dentro posto,
e fuor abbia l’aguato un po’ discosto;
22
e la gente di Francia malaccorta,
tratta con arte ove la rete è tesa,
col conte Armenïaco, la cui scorta
l’avea condotta all’infelice impresa,
giaccia per tutta la campagna morta,
parte sia tratta in Alessandria presa:
e di sangue non men che d’acqua grosso,
il Tanaro si vede il Po far rosso.
23
Un, detto de la Marca, e tre Angioini
mostra l’un dopo l’altro, e dice: — Questi
a Bruci, a Dauni, a Marsi, a Salentini
vedete come son spesso molesti.
Ma né de’ Franchi val né de’ Latini
aiuto sí, ch’alcun di lor vi resti:
ecco li caccia fuor del regno, quante
volte vi vanno, Alfonso e poi Ferrante.
24
Vedete Carlo ottavo, che discende
da l’Alpe, e seco ha il fior di tutta Francia,
che passa il Liri e tutto ’l regno prende
senza mai stringer spada o abbassar lancia,
fuor che lo scoglio ch’a Tifeo si stende
su le braccia, sul petto e su la pancia;
che del buon sangue d’Avalo al contrasto
la virtú trova d’Inico del Vasto. —
25
Il signor de la ròcca, che venía
quest’istoria additando a Bradamante,
mostrato che l’ebbe Ischia, disse: — Pria
ch’a vedere altro piú vi meni avante,
io vi dirò quel ch’a me dir solia
il bisavolo mio, quand’io era infante,
e quel che similmente mi dicea
che da suo padre udito anch’esso avea;
26
e ’l padre suo da un altro, o padre o fosse
avolo, e l’un da l’altro sin a quello
ch’a udirlo da quel proprio ritrovosse,
che l’imagini fe’ senza pennello,
che qui vedete bianche, azzurre e rosse:
udí che, quando al re mostrò il castello
ch’or mostro a voi su quest’altiero scoglio,
gli disse quel ch’a voi riferir voglio.
27
Udí che gli dicea ch’in questo loco
di quel buon cavallier che lo difende
con tanto ardir, che par disprezzi il fuoco
che d’ogn’intorno e sino al Faro incende,
nascer debbe in quei tempi o dopo poco
(e ben gli disse l’anno e le calende)
un cavalliero, a cui sará secondo
ogn’altro che sin qui sia stato al mondo.
28
Non fu Nireo sí bel, non sí eccellente
di forze Achille, e non sí ardito Ulisse,
non sí veloce Lada, non prudente
Nestor, che tanto seppe e tanto visse,
non tanto liberal, tanto clemente,
l’antica fama Cesare descrisse;
che verso l’uom ch’in Ischia nascer deve,
non abbia ogni lor vanto a restar lieve.
29
E se si glorïò l’antiqua Creta,
quando il nipote in lei nacque di Celo,
se Tebe fece Ercole e Bacco lieta,
se si vantò dei duo gemelli Delo;
né questa isola avrá da starsi cheta,
che non s’esalti e non si levi in cielo,
quando nascerá in lei quel gran marchese
ch’avrá sí d’ogni grazia il ciel cortese.
30
Merlin gli disse, e replicògli spesso,
ch’era serbato a nascere all’etade
che piú il romano Imperio saria oppresso,
acciò per lui tornasse in libertade.
Ma perché alcuno de’ suoi gesti appresso
vi mostrerò, predirli non accade. —
Cosí disse; e tornò all’istoria dove
di Carlo si vedean l’inclite prove.
31
— Ecco (dicea) si pente Ludovico
d’aver fatto in Italia venir Carlo;
che sol per travagliar l’emulo antico
chiamato ve l’avea, non per cacciarlo;
e se gli scuopre al ritornar nimico
con Veneziani in lega, e vuol pigliarlo.
Ecco la lancia il re animoso abbassa,
apre la strada e, lor mal grado, passa.
32
Ma la sua gente ch’a difesa resta
del nuovo regno, ha ben contraria sorte;
che Ferrante, con l’opra che gli presta
il signor mantuan, torna sí forte,
ch’in pochi mesi non ne lascia testa,
o in terra o in mar, che non sia messa a morte:
poi per un uom che gli è con fraude estinto,
non par che senta il gaudio d’aver vinto. —
33
Cosí dicendo, mostragli il marchese
Alfonso di Pescara, e dice: — Dopo
che costui comparito in mille imprese
sará piú risplendente che piropo,
ecco qui ne l’insidie che gli ha tese
con un trattato doppio il rio Etïopo,
come scannato di saetta cade
il miglior cavallier di quella etade.
34
Poi mostra ove il duodecimo Luigi
passa con scorta italiana i monti,
e svelto il Moro, pon la Fiordaligi
nel fecondo terren giá de’ Visconti.
Indi manda sua gente pei vestigi
di Carlo, a far sul Garigliano i ponti;
la quale appresso andar rotta e dispersa
si vede, e morta, e nel fiume summersa.
35
Vedete in Puglia non minor macello
de l’esercito franco in fuga volto;
e Consalvo Ferrante ispano è quello
che due volte alla trappola l’ha colto.
E come qui turbato, cosí bello
mostra Fortuna al re Luigi il volto
nel ricco pian che, fin dove Adria stride,
tra l’Apenino e l’Alpe il Po divide. —
36
Cosí dicendo, se stesso riprende
che quel ch’avea a dir prima abbia lasciato;
e torna a dietro, e mostra uno che vende
il castel che ’l signor suo gli avea dato;
mostra il perfido Svizzero che prende
colui ch’a sua difesa l’ha assoldato:
le quai due cose, senza abbassar lancia,
han dato la vittoria al re di Francia.
37
Poi mostra Cesar Borgia col favore
di questo re farsi in Italia grande;
ch’ogni baron di Roma, ogni signore
suggietto a lei, par ch’in esilio mande.
Poi mostra il re che di Bologna fuore
leva la Sega, e vi fa entrar le Giande;
poi come volge i Genovesi in fuga
fatti ribelli, e la cittá suggiuga.
38
— Vedete (dice poi) di gente morta
coperta in Giaradada la campagna.
Par ch’apra ogni cittade al re la porta,
e che Venezia a pena vi rimagna.
Vedete come al papa non comporta
che, passati i confini di Romagna,
Modana al duca di Ferrara toglia,
né qui si fermi, e ’l resto tor gli voglia:
39
e fa, all’incontro, a lui Bologna tôrre;
che v’entra la Bentivola famiglia.
Vedete il campo de’ Francesi porre
a sacco Brescia, poi che la ripiglia;
e quasi a un tempo Felsina soccorre,
e ’l campo ecclesïastico sgombiglia:
e l’uno e l’altro poi nei luoghi bassi
par si riduca del lito de Chiassi.
40
Di qua la Francia, e di lá il campo ingrossa
la gente ispana; e la battaglia è grande.
Cader si vede e far la terra rossa
la gente d’arme in amendua le bande.
Piena di sangue uman pare ogni fossa:
Marte sta in dubbio u’ la vittoria mande.
Per virtú d’un Alfonso al fin si vede
che resta il Franco, e che l’Ispano cede,
41
e che Ravenna saccheggiata resta.
Si morde il papa per dolor le labbia,
e fa da’ monti, a guisa di tempesta,
scendere in fretta una tedesca rabbia,
ch’ogni Francese, senza mai far testa,
di qua da l’Alpe par che cacciat’abbia,
e che posto un rampollo abbia del Moro
nel giardino onde svelse i Gigli d’oro.
42
Ecco torna il Francese: eccolo rotto
da l’infedele Elvezio ch’in suo aiuto
con troppo rischio ha il giovine condotto,
del quale il padre avea preso e venduto.
Vedete poi l’esercito, che sotto
la ruota di Fortuna era caduto,
creato il novo re, che si prepara
de l’onta vendicar ch’ebbe a Novara:
43
e con migliore auspizio ecco ritorna.
Vedete il re Francesco inanzi a tutti,
che cosí rompe a’ Svizzeri le corna,
che poco resta a non gli aver distrutti:
sí che ’l titolo mai piú non gli adorna,
ch’usurpato s’avran quei villan brutti,
che domator de’ principi, e difesa
si nomeran de la cristiana Chiesa.
44
Ecco, mal grado de la lega, prende
Milano, e accorda il giovene Sforzesco.
Ecco Borbon che la cittá difende
pel re di Francia dal furor tedesco.
Eccovi poi, che mentre altrove attende
ad altre magne imprese il re Francesco,
né sa quanta superbia e crudeltade
usino i suoi, gli è tolta la cittade.
45
Ecco un altro Francesco ch’assimiglia
di virtú all’avo, e non di nome solo;
che, fatto uscirne i Galli, si ripiglia
col favor de la Chiesa il patrio suolo.
Francia anco torna, ma ritien la briglia,
né scorre Italia, come suole, a volo;
che ’l bon duca di Mantua sul Ticino
le chiude il passo, e le taglia il camino.
46
Federico, ch’ancor non ha la guancia
de’ primi fiori sparsa, si fa degno
di gloria eterna, ch’abbia con la lancia,
ma piú con diligenzia e con ingegno,
Pavia difesa dal furor di Francia,
e del Leon del mar rotto il disegno.
Vedete duo marchesi, ambi terrore
di nostre genti, ambi d’Italia onore;
47
ambi d’un sangue, ambi in un nido nati.
Di quel marchese Alfonso il primo è figlio,
il qual tratto dal Negro negli aguati,
vedeste il terren far di sé vermiglio.
Vedete quante volte son cacciati
d’Italia i Franchi pel costui consiglio.
L’altro di sí benigno e lieto aspetto
il Vasto signoreggia, e Alfonso è detto.
48
Questo è il buon cavallier, di cui dicea,
quando l’isola d’Ischia vi mostrai,
che giá profetizzando detto avea
Merlino a Fieramonte cose assai:
che diferire a nascere dovea
nel tempo che d’aiuto piú che mai
l’afflitta Italia, la Chiesa e l’Impero
contra ai barbari insulti avria mistiero.
49
Costui dietro al cugin suo di Pescara
con l’auspicio di Prosper Colonnese,
vedete come la Bicocca cara
fa parere all’Elvezio e piú al Francese.
Ecco di nuovo Francia si prepara
di ristaurar le mal successe imprese:
scende il re con un campo in Lombardia,
un altro per pigliar Napoli invia.
50
Ma quella che di noi fa come il vento
d’arida polve, che l’aggira in volta,
la leva fin al cielo, e in un momento
a terra la ricaccia, onde l’ha tolta;
fa ch’intorno a Pavia crede di cento
mila persone aver fatto raccolta
il re, che mira a quel che di man gli esce,
non se la gente sua si scema o cresce.
51
Cosí per colpa de’ ministri avari,
e per bontá del re che se ne fida,
sotto l’insegne si raccoglion rari,
quando la notte il campo all’arme grida,
che si vede assalir dentro ai ripari
dal sagace Spagnuol, che con la guida
di duo del sangue d’Avalo ardiria
farsi nel cielo e ne lo ’nferno via.
52
Vedete il meglio de la nobiltade
di tutta Francia alla campagna estinto.
Vedete quante lance e quante spade
han d’ogn’intorno il re animoso cinto;
vedete che ’l destrier sotto gli cade:
né per questo si rende o chiama vinto,
ben ch’a lui solo attenda, a lui sol corra
lo stuol nimico, e non è chi ’l soccorra.
53
Il re gagliardo si difende a piede,
e tutto de l’ostil sangue si bagna:
ma virtú al fine a troppa forza cede.
Ecco il re preso, et eccolo in Ispagna:
et a quel di Pescara dar si vede,
et a chi mai da lui non si scompagna,
a quel del Vasto, le prime corone
del campo rotto e del gran re prigione.
54
Rotto a Pavia l’un campo, l’altro ch’era,
per dar travaglio a Napoli, in camino,
restar si vede, come, se la cera
gli manca o l’oglio, resta il lumicino.
Ecco che ’l re ne la prigione ibera
lascia i figliuoli, e torna al suo domíno:
ecco fa a un tempo egli in Italia guerra;
ecco altri la fa a lui ne la sua terra.
55
Vedete gli omicidii e le rapine
in ogni parte far Roma dolente;
e con incendi e stupri le divine
e le profane cose ire ugualmente.
Il campo de la lega le ruine
mira d’appresso, e ’l pianto e ’l grido sente;
e dove ir dovria inanzi, torna indietro,
e prender lascia il successor di Pietro.
56
Manda Lotrecco il re con nuove squadre,
non piú per fare in Lombardia l’impresa,
ma per levar de le mani empie e ladre
il capo e l’altre membra de la Chiesa;
che tarda sí, che trova al Santo Padre
non esser piú la libertá contesa.
Assedia la cittade ove sepolta
è la sirena, e tutto il regno volta.
57
Ecco l’armata imperial si scioglie
per dar soccorso alla cittá assediata;
et ecco il Doria che la via le toglie,
e l’ha nel mar sommersa, arsa e spezzata.
Ecco Fortuna come cangia voglie,
sin qui a’ Francesi sí propizia stata;
che di febbre gli uccide, e non di lancia,
sí che di mille un non ne torna in Francia. —
58
La sala queste et altre istorie molte,
che tutte saria lungo riferire,
in varii e bei colori avea raccolte;
ch’era ben tal che le potea capire.
Tornano a rivederle due e tre volte,
né par che se ne sappiano partire;
e rilegon piú volte quel ch’in oro
si vedea scritto sotto il bel lavoro.
59
Le belle donne e gli altri quivi stati
mirando e ragionando insieme un pezzo,
fur dal signore a riposar menati,
ch’onorar gli osti suoi molt’era avezzo.
Giá sendo tutti gli altri addormentati,
Bradamante a corcar si va da sezzo,
e si volta or su questo or su quel fianco,
né può dormir sul destro né sul manco.
60
Pur chiude alquanto appresso all’alba i lumi,
e di veder le pare il suo Ruggiero,
il qual le dica: — Perché ti consumi,
dando credenza a quel che non è vero?
Tu vedrai prima all’erta andare i fiumi,
ch’ad altri mai, ch’a te, volga il pensiero.
S’io non amassi te, né il cor potrei
né le pupille amar degli occhi miei. —
61
E par che le suggiunga: — Io son venuto
per battezzarmi e far quanto ho promesso;
e s’io son stato tardi, m’ha tenuto
altra ferita, che d’amore, oppresso. —
Fuggesi in questo il sonno, né veduto
è piú Ruggier che se ne va con esso.
Rinuova allora i pianti la donzella,
e ne la mente sua cosí favella:
62
— Fu quel che piacque, un falso sogno; e questo
die mi tormenta, ahi lassa! è un veggiar vero.
Il ben fu sogno a dileguarsi presto,
ma non è sogno il martíre aspro e fiero.
Perch’or non ode e vede il senso desto
quel ch’udire e veder parve al pensiero?
A che condizione, occhi miei, sète,
che chiusi il ben, e aperti il mal vedete?
63
Il dolce sonno mi promise pace,
ma l’amaro veggiar mi torna in guerra:
il dolce sonno è ben stato fallace,
ma l’amaro veggiare, ohimè! non erra.
Se ’l vero annoia, e il falso sí mi piace,
non oda o vegga mai piú vero in terra:
se ’l dormir mi dá gaudio, e il veggiar guai,
possa io dormir senza destarmi mai.
64
O felice anima! ch’un sonno forte
sei mesi tien senza mai gli occhi aprire!
Che s’assimigli tal sonno alla morte,
tal veggiare alla vita, io non vo’ dire;
ch’a tutt’altre contraria la mia sorte
sente morte a veggiar, vita a dormire:
ma s’a tal sonno morte s’assimiglia,
deh, Morte, or ora chiudimi le ciglia! —
65
De l’orizzonte il sol fatte avea rosse
l’estreme parti, e dileguato intorno
s’eran le nubi, e non parea che fosse
simile all’altro il cominciato giorno;
quando svegliata Bradamante armosse
per fare a tempo al suo camin ritorno,
rendute avendo grazie a quel signore
del buono albergo e de l’avuto onore.
66
E trovò che la donna messaggiera,
con damigelle sue, con suoi scudieri
uscita de la ròcca, venut’era
lá dove l’attendean quei tre guerrieri;
quei che con l’asta d’oro essa la sera
fatto avea riversar giú dei destrieri,
e che patito avean con gran disagio
la notte l’acqua e il vento e il ciel malvagio.
67
Arroge a tanto mal, ch’a corpo vòto
et essi e i lor cavalli eran rimasi,
battendo i denti e calpestando il loto:
ma quasi lor piú incresce, e senza quasi
incresce e preme piú, che fará noto
la messaggiera, appresso agli altri casi,
alla sua donna, che la prima lancia
gli abbia abbattuti, c’han trovata in Francia.
68
E presti o di morire, o di vendetta
subito far del ricevuto oltraggio,
acciò la messaggiera, che fu detta
Ullania, che nomata piú non aggio,
la mala opinïon ch’avea concetta
forse di lor, si tolga del coraggio,
la figliuola d’Amon sfidano a giostra,
tosto che fuor del ponte ella si mostra;
69
non pensando però che sia donzella,
che nessun gesto di donzella avea.
Bradamante ricusa, come quella
ch’in fretta gía, né soggiornar volea.
Pur tanto e tanto fur molesti, ch’ella,
che negar senza biasmo non potea,
abbassò l’asta, et a tre colpi in terra
li mandò tutti; e qui finí la guerra:
70
che senza piú voltarsi mostrò loro
lontan le spalle, e dileguossi tosto.
Quei che, per guadagnar lo scudo d’oro,
di paese venian tanto discosto,
poi che senza parlar ritti si fôro,
che ben l’avean con ogni ardir deposto,
stupefatti parean di maraviglia,
né verso Ullania ardian d’alzar le ciglia;
71
che con lei molte volte per camino
dato s’avean troppo orgogliosi vanti:
che non è cavallier né paladino
ch’al minor di lor tre durasse avanti.
La donna, perché ancor piú a capo chino
vadano, e piú non sian cosí arroganti,
fa lor saper che fu femina quella,
non paladin, che li levò di sella.
72
— Or che dovete (diceva ella), quando
cosí v’abbia una femina abbattuti,
pensar che sia Rinaldo o che sia Orlando,
non senza causa in tant’onore avuti?
S’un d’essi avrá lo scudo, io vi domando
se migliori di quel che siate suti
contra una donna, contra lor sarete?
Nol credo io giá, né voi forse il credete.
73
Questo vi può bastar; né vi bisogna
del valor vostro aver piú chiara prova:
e quel di voi che temerario aggogna
far di sé in Francia esperïenzia nuova,
cerca giungere il danno alla vergogna
in che ieri et oggi s’è trovato e trova;
se forse egli non stima utile e onore,
qualor per man di tai guerrier si muore. —
74
Poi che ben certi i cavallieri fece
Ullania, che quell’era una donzella,
la qual fatto avea nera piú che pece
la fama lor, ch’esser solea sí bella;
e dove una bastava, piú di diece
persone il detto confermâr di quella;
essi fur per voltar l’arme in se stessi,
da tal dolor, da tanta rabbia oppressi.
75
E da lo sdegno e da la furia spinti,
l’arme si spoglian, quante n’hanno indosso;
né si lascian la spada onde eran cinti,
e del castel la gittano nel fosso:
e giuran, poi che gli ha una donna vinti,
e fatto sul terren battere il dosso,
che, per purgar sí grave error, staranno
senza mai vestir l’arme intero un anno;
76
e che n’andranno a piè pur tuttavia,
o sia la strada piana, o scenda e saglia;
né, poi che l’anno anco finito sia,
saran per cavalcare o vestir maglia,
s’altr’arme, altro destrier da lor non fia
guadagnato per forza di battaglia.
Cosí senz’arme, per punir lor fallo,
essi a piè se n’andâr, gli altri a cavallo.
77
Bradamante la sera ad un castello
ch’alla via di Parigi si ritrova,
di Carlo e di Rinaldo suo fratello,
ch’avean rotto Agramante, udí la nuova.
Quivi ebbe buona mensa e buono ostello:
ma questo et ogn’altro agio poco giova;
che poco mangia e poco dorme, e poco,
non che posar, ma ritrovar può loco.
78
Non però di costei voglio dir tanto,
ch’io non ritorni a quei duo cavallieri
che d’accordo legato aveano a canto
la solitaria fonte i duo destrieri.
La pugna lor, di che vo’ dirvi alquanto,
non è per acquistar terre né imperi,
ma perché Durindana il piú gagliardo
abbia ad avere, e a cavalcar Baiardo.
79
Senza che tromba o segno altro accennasse
quando a muover s’avean, senza maestro
che lo schermo e ’l ferir lor ricordasse,
e lor pungesse il cor d’animoso estro,
l’uno e l’altro d’accordo il ferro trasse,
e si venne a trovare agile e destro.
I spessi e gravi colpi a farsi udire
incominciaro, et a scaldarsi l’ire.
80
Due spade altre non so per prova elette
ad esser ferme e solide e ben dure,
ch’a tre colpi di quei si fosser rette,
ch’erano fuor di tutte le misure:
ma quelle fur di tempre sí perfette,
per tante esperïenzie sí sicure,
che ben poteano insieme riscontrarsi
con mille colpi e piú, senza spezzarsi.
81
Or qua Rinaldo or lá mutando il passo,
con gran destrezza e molta industria et arte
fuggia di Durindana il gran fracasso,
che sa ben come spezza il ferro e parte.
Fería maggior percosse il re Gradasso;
ma quasi tutte al vento erano sparte:
se coglieva talor, coglieva in loco
ove potea gravare e nuocer poco.
82
L’altro con piú ragion sua spada inchina,
e fa spesso al pagan stordir le braccia;
e quando ai fianchi e quando ove confina
la corazza con l’elmo, gli la caccia:
ma trova l’armatura adamantina,
sí ch’una maglia non ne rompe o straccia.
Se dura e forte la ritrova tanto,
avvien perch’ella è fatta per incanto.
83
Senza prender riposo erano stati
gran pezzo tanto alla battaglia fisi,
che volti gli occhi in nessun mai de’ lati
aveano, fuor che nei turbati visi;
quando da un’altra zuffa distornati,
e da tanto furor furon divisi.
Ambi voltaro a un gran strepito il ciglio,
e videro Baiardo in gran periglio.
84
Vider Baiardo a zuffa con un mostro
ch’era piú di lui grande, et era augello:
avea piú lungo di tre braccia il rostro;
l’altre fattezze avea di vipistrello;
avea la piuma negra come inchiostro;
avea l’artiglio grande, acuto e fello;
occhi di fuoco, e sguardo avea crudele;
l’ale avea grandi, che parean due vele.
85
Forse era vero augel, ma non so dove
o quando un altro ne sia stato tale.
Non ho veduto mai, né letto altrove,
fuor ch’in Turpin, d’un sí fatto animale.
Questo rispetto a credere mi muove,
che l’augel fosse un diavolo infernale
che Malagigi in quella forma trasse,
acciò che la battaglia disturbasse.
86
Rinaldo il credette anco, e gran parole
e sconcie poi con Malagigi n’ebbe.
Egli giá confessar non glielo vuole;
e perché tor di colpa si vorrebbe,
giura pel lume che dá lume al sole,
che di questo imputato esser non debbe.
Fosse augello o demonio, il mostro scese
sopra Baiardo, e con l’artiglio il prese.
87
Le redine il destrier, ch’era possente,
subito rompe, e con sdegno e con ira
contra l’augello i calci adopra e ’l dente;
ma quel veloce in aria si ritira:
indi ritorna, e con l’ugna pungente
lo va battendo, e d’ogn’intorno aggira.
Baiardo offeso, e che non ha ragione
di schermo alcun, ratto a fuggir si pone.
88
Fugge Baiardo alla vicina selva,
e va cercando le piú spesse fronde.
Segue di sopra la pennuta belva
con gli occhi fisi ove la via seconde;
ma pure il buon destrier tanto s’inselva,
ch’al fin sotto una grotta si nasconde.
Poi che l’alato ne perde la traccia,
ritorna in cielo, e cerca nuova caccia.
89
Rinaldo e ’l re Gradasso, che partire
veggono la cagion de la lor pugna,
restan d’accordo quella differire
fin che Baiardo salvino da l’ugna
che per la scura selva il fa fuggire;
con patto, che qual d’essi lo raggiugna,
a quella fonte lo restituisca,
ove la lite lor poi si finisca.
90
Seguendo, si partîr da la fontana,
l’erbe novellamente in terra peste.
Molto da lor Baiardo s’allontana,
ch’ebbon le piante in seguir lui mal preste.
Gradasso, che non lungi avea l’alfana,
sopra vi salse, e per quelle foreste
molto lontano il paladin lasciosse,
tristo e peggio contento che mai fosse.
91
Rinaldo perde l’orme in pochi passi
del suo destrier, che fe’ strano vïaggio;
ch’andò rivi cercando, arbori e sassi,
il piú spinoso luogo, il piú selvaggio,
acciò che da quella ugna si celassi,
che cadendo dal ciel gli facea oltraggio.
Rinaldo, dopo la fatica vana,
ritornò ad aspettarlo alla fontana,
92
se da Gradasso vi fosse condutto,
sí come tra lor dianzi si convenne.
Ma poi che far si vide poco frutto,
dolente e a piedi in campo se ne venne.
Or torniamo a quell’altro, al quale in tutto
diverso da Rinaldo il caso avvenne.
Non per ragion, ma per suo gran destino
sentí anitrire il buon destrier vicino;
93
e lo trovò ne la spelonca cava,
da l’avuta paura anco sí oppresso,
ch’uscire allo scoperto non osava:
perciò l’ha in suo potere il pagan messo.
Ben de la convenzion si raccordava,
ch’alla fonte tornar dovea con esso;
ma non è piú disposto d’osservarla,
e cosí in mente sua tacito parla:
94
— Abbial chi aver lo vuol con lite e guerra:
io d’averlo con pace piú disio.
Da l’uno all’altro capo de la terra
giá venni, e sol per far Baiardo mio.
Or ch’io l’ho in mano, ben vaneggia et erra
chi crede che depor lo volesse io.
Se Rinaldo lo vuol, non disconviene,
come io giá in Francia, or s’egli in India viene.
95
Non men sicura a lui fia Sericana,
che giá due volte Francia a me sia stata. —
Cosí dicendo, per la via piú piana
ne venne in Arli, e vi trovò l’armata;
e quindi con Baiardo e Durindana
si partí sopra una galea spalmata.
Ma questo a un’altra volta; ch’or Gradasso,
Rinaldo e tutta Francia a dietro lasso.
96
Voglio Astolfo seguir, ch’a sella e a morso,
a uso facea andar di palafreno
l’ippogrifo per l’aria a sí gran corso,
che l’aquila e il falcon vola assai meno.
Poi che de’ Galli ebbe il paese scorso
da un mare a l’altro e da Pirene al Reno,
tornò verso ponente alla montagna
che separa la Francia da la Spagna.
97
Passò in Navarra, et indi in Aragona,
lasciando a chi ’l vedea gran maraviglia.
Restò lungi a sinistra Taracona,
Biscaglia a destra, et arrivò in Castiglia.
Vide Gallizia e ’l regno d’Ulisbona,
poi volse il corso a Cordova e Siviglia;
né lasciò presso al mar né fra campagna
cittá, che non vedesse tutta Spagna.
98
Vide le Gade e la meta che pose
ai primi naviganti Ercole invitto.
Per l’Africa vagar poi si dispose
dal mar d’Atlante ai termini d’Egitto.
Vide le Baleariche famose,
e vide Eviza appresso al camin dritto.
Poi volse il freno, e tornò verso Arzilla
sopra ’l mar che da Spagna dipartilla.
99
Vide Marocco, Feza, Orano, Ippona,
Algier, Buzea, tutte cittá superbe,
c’hanno d’altre cittá tutte corona,
corona d’oro, e non di fronde o d’erbe.
Verso Biserta e Tunigi poi sprona:
vide Capisse e l’isola d’Alzerbe
e Tripoli e Bernicche e Tolomitta,
sin dove il Nilo in Asia si tragitta.
100
Tra la marina e la silvosa schena
del fiero Atlante vide ogni contrada.
Poi diè le spalle ai monti di Carena,
e sopra i Cirenei prese la strada;
e traversando i campi de l’arena,
venne a’ confín di Nubia in Albaiada.
Rimase dietro il cimiter di Batto
e ’l gran tempio d’Amon, ch’oggi è disfatto.
101
Indi giunse ad un’altra Tremisenne,
che di Maumetto pur segue lo stilo.
Poi volse agli altri Etïopi le penne,
che contra questi son di lá dal Nilo.
Alla cittá di Nubia il camin tenne
tra Dobada e Coalle in aria a filo.
Questi cristiani son, quei saracini;
e stan con l’arme in man sempre a’ confini.
102
Senapo imperator de la Etïopia,
ch’in loco tien di scettro in man la croce,
di gente, di cittadi e d’oro ha copia
quindi fin lá dove il mar Rosso ha foce;
e serva quasi nostra fede propia,
che può salvarlo da l’esilio atroce.
Gli è, s’io non piglio errore, in questo loco
ove al battesmo loro usano il fuoco.
103
Dismontò il duca Astolfo alla gran corte
dentro di Nubia, e visitò il Senapo.
Il castello è piú ricco assai che forte,
ove dimora d’Etïopia il capo.
Le catene dei ponti e de le porte,
gangheri e chiavistei da piedi a capo,
e finalmente tutto quel lavoro
che noi di ferro usiamo, ivi usan d’oro.
104
Ancor che del finissimo metallo
vi sia tale abondanza, è pur in pregio.
Colonnate di limpido cristallo
son le gran loggie del palazzo regio.
Fan rosso, bianco, verde, azzurro e giallo
sotto i bei palchi un relucente fregio,
divisi tra proporzionati spazii,
rubin, smeraldi, zafiri e topazii.
105
In mura, in tetti, in pavimenti sparte
eran le perle, eran le ricche gemme.
Quivi il balsamo nasce; e poca parte
n’ebbe appo questi mai Ierusalemme.
Il muschio ch’a noi vien, quindi si parte;
quindi vien l’ambra, e cerca altre maremme:
vengon le cose in somma da quel canto,
che nei paesi nostri vaglion tanto.
106
Si dice che ’l soldan, re de l’Egitto,
a quel re dá tributo e sta suggetto,
perch’è in poter di lui dal camin dritto
levare il Nilo, e dargli altro ricetto,
e per questo lasciar subito afflitto
di fame il Cairo e tutto quel distretto.
Senapo detto è dai sudditi suoi;
gli dicián Presto o Preteianni noi.
107
Di quanti re mai d’Etïopia fôro,
il piú ricco fu questi e il piú possente;
ma con tutta sua possa e suo tesoro,
gli occhi perduti avea miseramente.
E questo era il minor d’ogni martoro:
molto era piú noioso e piú spiacente,
che, quantunque ricchissimo si chiame,
crucïato era da perpetua fame.
108
Se per mangiare o ber quello infelice
venía cacciato dal bisogno grande,
tosto apparia l’infernal schiera uitrice,
le monstruose arpie brutte e nefande,
che col griffo e con l’ugna predatrice
spargeano i vasi, e rapian le vivande;
e quel che non capia lor ventre ingordo,
vi rimanea contaminato e lordo.
109
E questo, perch’essendo d’anni acerbo,
e vistosi levato in tanto onore,
che, oltre alle ricchezze, di piú nerbo
era di tutti gli altri e di piú core;
divenne, come Lucifer, superbo,
e pensò muover guerra al suo Fattore.
Con la sua gente la via prese al dritto
al monte onde esce il gran fiume d’Egitto.
110
Inteso avea che su quel monte alpestre,
ch’oltre alle nubi e presso al ciel si leva,
era quel paradiso che terrestre
si dice, ove abitò giá Adamo et Eva.
Con camelli, elefanti, e con pedestre
esercito, orgoglioso si moveva
con gran desir, se v’abitava gente,
di farla alle sue leggi ubbidïente.
111
Dio gli ripresse il temerario ardire,
e mandò l’angel suo tra quelle frotte,
che centomila ne fece morire,
e condannò lui di perpetua notte.
Alla sua mensa poi fece venire
l’orrendo mostro da l’infernal grotte,
che gli rapisce e contamina i cibi,
né lascia che ne gusti o ne delibi.
112
Et in desperazion continua il messe
uno che giá gli avea profetizzato
che le sue mense non sariano oppresse
da la rapina e da l’odore ingrato,
quando venir per l’aria si vedesse
un cavallier sopra un cavallo alato.
Perché dunque impossibil parea questo,
privo d’ogni speranza vivea mesto.
61
Or che con gran stupor vede la gente
sopra ogni muro e sopra ogn’alta torre
entrare il cavalliero, immantinente
è chi a narrarlo al re di Nubia corre,
a cui la profezia ritorna a mente;
et oblïando per letizia tôrre
la fedel verga, con le mani inante
vien brancolando al cavallier volante.
114
Astolfo ne la piazza del castello
con spazïose ruote in terra scese.
Poi che fu il re condotto inanzi a quello,
inginochiossi, e le man giunte stese,
e disse: — Angel di Dio, Messia novello,
s’io non merto perdono a tante offese,
mira che proprio è a noi peccar sovente,
a voi perdonar sempre a chi si pente.
115
Del mio error consapevole, non chieggio
né chiederti ardirei gli antiqui lumi.
Che tu lo possa far, ben creder deggio,
che sei de’ cari a Dio beati numi.
Ti basti il gran martír ch’io non ci veggio,
senza ch’ognior la fame mi consumi:
almen discaccia le fetide arpie,
che non rapiscan le vivande mie.
116
E di marmore un tempio ti prometto
edificar de l’alta regia mia,
che tutte d’oro abbia le porte e ’l tetto,
e dentro e fuor di gemme ornato sia;
e dal tuo santo nome sará detto,
e del miracol tuo scolpito fia. —
Cosí dicea quel re che nulla vede,
cercando invan baciare al duca il piede.
117
Rispose Astolfo: — Né l’angel di Dio,
né son Messia novel, né dal ciel vegno;
ma son mortale e peccatore anch’io,
di tanta grazia a me concessa indegno.
Io farò ogn’opra acciò che ’l mostro rio,
per morte o fuga, io ti levi del regno.
S’io il fo, me non, ma Dio ne loda solo,
che per tuo aiuto qui mi drizzò il volo.
118
Fa questi voti a Dio, debiti a lui;
a lui le chiese edifica e gli altari. —
Cosí parlando, andavano ambidui
verso il castello fra i baron preclari.
Il re commanda ai servitori sui
che subito il convito si prepari,
sperando che non debba essergli tolta
la vivanda di mano a questa volta.
119
Dentro una ricca sala immantinente
apparecchiossi il convito solenne.
Col Senapo s’assise solamente
il duca Astolfo, e la vivanda venne.
Ecco per l’aria lo stridor si sente,
percossa intorno da l’orribil penne;
ecco venir l’arpie brutte e nefande,
tratte dal cielo a odor de le vivande.
120
Erano sette in una schiera, e tutte
volto di donne avean, pallide e smorte,
per lunga fame attenuate e asciutte,
orribili a veder piú che la morte.
L’alaccie grandi avean, deformi e brutte;
le man rapaci, e l’ugne incurve e torte;
grande e fetido il ventre, e lunga coda,
come di serpe che s’aggira e snoda.
121
Si sentono venir per l’aria, e quasi
si veggon tutte a un tempo in su la mensa
rapire i cibi e riversare i vasi:
e molta feccia il ventre lor dispensa,
tal che gli è forza d’atturare i nasi;
che non si può patir la puzza immensa.
Astolfo, come l’ira lo sospinge,
contra gli ingordi augelli il ferro stringe.
122
Uno sul collo, un altro su la groppa
percuote, e chi nel petto, e chi ne l’ala;
ma come fera in su ’n sacco di stoppa,
poi langue il colpo, e senza effetto cala:
e quei non vi lasciâr piatto né coppa
che fosse intatta, né sgombrâr la sala,
prima che le rapine e il fiero pasto
contaminato il tutto avesse e guasto.
123
Avuto avea quel re ferma speranza
nel duca, che l’arpie gli discacciassi;
et or che nulla ove sperar gli avanza,
sospira e geme, e disperato stassi.
Viene al duca del corno rimembranza,
che suole aitarlo ai perigliosi passi;
e conchiude tra sé, che questa via
per discacciare i mostri ottima sia.
124
E prima fa che ’l re con suoi baroni
di calda cera l’orecchia si serra,
acciò che tutti, come il corno suoni,
non abbiano a fuggir fuor de la terra.
Prende la briglia, e salta sugli arcioni
de l’ippogrifo, et il bel corno afferra;
e con cenni allo scalco poi commanda
che riponga la mensa e la vivanda.
125
E cosí in una loggia s’apparecchia
con altra mensa altra vivanda nuova.
Ecco l’arpie che fan l’usanza vecchia:
Astolfo il corno subito ritrova.
Gli augelli, che non han chiusa l’orecchia,
udito il suon, non puon stare alla prova;
ma vanno in fuga pieni di paura,
né di cibo né d’altro hanno piú cura.
126
Subito il paladin dietro lor sprona:
volando esce il destrier fuor de la loggia,
e col castel la gran cittá abandona,
e per l’aria, cacciando i mostri, poggia.
Astolfo il corno tuttavolta suona:
fuggon l’arpie verso la zona roggia,
tanto che sono all’altissimo monte
ove il Nilo ha, se in alcun luogo ha, fonte.
127
Quasi de la montagna alla radice
entra sotterra una profonda grotta,
che certissima porta esser si dice
di ch’allo ’nferno vuol scender talotta.
Quivi s’è quella turba predatrice,
come in sicuro albergo, ricondotta,
e giú sin di Cocito in su la proda
scesa, e piú lá, dove quel suon non oda.
128
All’infernal caliginosa buca
ch’apre la strada a chi abandona il lume,
finí l’orribil suon l’inclito duca,
e fe’ raccorre al suo destrier le piume.
Ma prima che piú inanzi io lo conduca,
per non mi dipartir dal mio costume,
poi che da tutti i lati ho pieno il foglio,
finire il canto, e riposar mi voglio.