< Orlando innamorato < Libro primo
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Libro primo - Canto primo Libro primo - Canto terzo

 
1   Io vi cantai, segnor, come a battaglia
  Eran condotti con molta arroganza
  Argalia, il forte cavallier di vaglia,
  E Feraguto, cima di possanza.
  L’uno ha incantata ogni sua piastra e maglia,
  L’altro è fatato, fuor che nella panza;
  Ma quella parte d’acciarro è coperta
  Con vinte piastre, quest’è cosa certa.

2   Chi vedesse nel bosco duo leoni
  Turbati, ed a battaglia insieme appresi,
  O chi odisse ne l’aria duo gran troni
  Di tempeste, rumore e fiamma accesi,
  Nulla sarebbe a mirar quei baroni,
  Che tanto crudelmente se hanno offesi;
  Par che il celo arda e il mondo a terra vada,
  Quando se incontra l’una e l’altra spada.

3   E’ si feriano insieme a gran furore,
  Guardandosi l’un l’altro in vista cruda;
  E credendo ciascuno esser megliore
  Trema per ira, e per affanno suda.
  Or lo Argalia con tutto suo valore
  Ferì il nemico in su la testa nuda,
  E ben si crede senza dubitanza
  Aver finita a quel colpo la danza.

4   Ma poi che vidde il suo brando polito
  Senza alcun sangue ritornar al celo,
  Per meraviglia fu tanto smarito
  Che in capo e in dosso se li aricciò il pelo.
  In questo Feraguto l’ha assalito;
  Ben crede fender l’arme come un gelo,
  E crida: - Ora a Macon ti raccomando,
  Ché a questo colpo a star con lui ti mando. -

5   Così dicendo, quel barone aitante
  Ferisce ad ambe man con forza molta;
  Se stato fosse un monte de diamante,
  Tutto l’avria tagliato in quella volta.
  L’elmo affatato a quel brando troncante
  Ogni possanza di tagliare ha tolta.
  Se Feragù turbosse, io non lo scrivo;
  Per gran stupor non sa se è morto o vivo.

6   Ma poi che ciascadun fu dimorato
  Tacito alquanto, senza colpezare
  (Ché l’un de l’altro è sì meravigliato,
  Che non ardiva a pena di parlare),
  L’Argalia prima a Ferragù dricciato
  Disse: - Barone, io ti vo’ palesare,
  Che tutte le arme che ho, da capo e piedi,
  Sono incantate, quante tu ne vedi.

7   Però con meco lascia la battaglia,
  Ché altro aver non ne puoi, che danno e scorno. -
  Feragù disse: - Se Macon mi vaglia,
  Quante arme vedi a me sopra ed intorno,
  E questo scudo e piastre, e questa maglia,
  Tutte le porto per essere adorno,
  Non per bisogno; ch’io son affatato
  In ogni parte, fuor che in un sol lato.

8   Sì che, a donarti un ottimo consiglio,
  Benché nol chiedi, io ti so confortare
  Che non te metti de morte a periglio;
  Senza contesa vogli a me lasciare
  La tua sorella, quel fiorito giglio,
  Ed altramente tu non puoi campare.
  Ma se mi fai con pace questo dono,
  Eternamente a te tenuto sono. -

9   Rispose lo Argalia: - Barone audace,
  Ben aggio inteso quanto hai ragionato,
  E son contento aver con teco pace,
  E tu sia mio fratello e mio cognato:
  Ma vo’ saper se ad Angelica piace,
  Ché senza lei non si faria il mercato. -
  E Feragù gli dice esser contento,
  Che con essa ben parli a suo talento.

10 A benché Feragù sia giovanetto,
  Bruno era molto e de orgogliosa voce,
  Terribile a guardarlo nello aspetto;
  Gli occhi avea rossi, con batter veloce.
  Mai di lavarse non ebbe diletto,
  Ma polveroso ha la faccia feroce:
  Il capo acuto aveva quel barone,
  Tutto ricciuto e ner come un carbone.

11 E per questo ad Angelica non piacque,
  Ché lei voleva ad ogni modo un biondo;
  E disse allo Argalia, come lui tacque:
  - Caro fratello, io non mi ti nascondo:
  Prima me affogarei dentro a quest’acque,
  E mendicando cercarebbi ’l mondo,
  Che mai togliessi costui per mio sposo.
  Meglio è morir che star con furïoso.

12 Però ti prego per lo dio Macone,
  Che te contenti de la voglia mia.
  Ritorna a la battaglia col barone,
  Ed io fra tanto per necromanzia
  Farò portarme in nostra regïone.
  Volta le spalle, e vieni anco tu via
  (Destrier non è che ’l tuo segua di lena:
  Io fermarommi alla selva de Ardena)

13 Acciò ch’insieme facciamo ritorno
  Dal vecchio patre, al regno de oltra mare.
  Ma se quivi non giongi il terzo giorno,
  Soletta al vento me farò passare,
  Poi che aggio il libro di quel can musorno,
  Che me credette al prato vergognare.
  Tu poi adaggio per terra venrai;
  La strata hai caminata, e ben la sai. -

14 Così tornarno e baroni al ferire,
  Dapoi che questo a quello ha referito
  Che la sorella non vôle assentire;
  Ma Feragù perciò non è partito,
  Anci destina o vincere o morire.
  Ecco la dama dal viso florito
  Subito sparve a i cavallier davante:
  Presto sen corse il suspettoso amante.

15 Però che spesso la guardava in volto,
  Parendogli la forza radoppiare;
  Ma poi che gli è davanti così tolto,
  Non sa più che si dir, né che si fare.
  In questo tempo lo Argalia rivolto,
  Con quel destrier che al mondo non ha pare
  Fugge del prato e quanto può sperona,
  E Feraguto e la guerra abandona.

16 Lo inamorato giovanetto guarda,
  Come gabato si trova quel giorno.
  Esce del prato correndo e non tarda,
  E cerca il bosco, che è folto, d’intorno.
  Ben par che nella faccia avampa ed arda,
  Tra sé pensando il recevuto scorno,
  E non se arresta correre e cercare;
  Ma quel che cerca non può lui trovare.

17 Tornamo ora ad Astolfo, che soletto,
  Come sapete, rimase alla Fonte.
  Mirata avea la pugna con diletto,
  E de ciascun guerrer le forze pronte;
  Or resta in libertà senza suspetto,
  Ringrazïando Iddio con le man gionte;
  E per non dare indugia a sua ventura
  Monta a destrier con tutta l’armatura.

18 E non aveva lancia il paladino,
  Ché la sua nel cadere era spezzata.
  Guardasi intorno, ed al troncon del pino
  Quella de lo Argalia vidde appoggiata.
  Bella era molto, e con lame d’ôr fino,
  Tutta di smalto intorno lavorata;
  Prendela Astolfo quasi per disaggio,
  Senza pensare in essa alcun vantaggio.

19 Così tornando a dietro allegro e baldo,
  Come colui che è sciolto di pregione,
  Fuor del boschetto ritrovò Ranaldo,
  E tutto il fatto appunto gli contone.
  Era il figlio de Amon d’amor sì caldo,
  Che posar non puotea di passïone:
  Però fuor della terra era venuto,
  Per saper che aggia fatto Feraguto.

20 E come odì che fuggian verso Ardena,
  Nulla rispose a quel duca dal pardo.
  Volta il destriero e le calcagne mena,
  E di pigricia accusa il suo Baiardo.
  De l’amor del patron quel porta pena;
  E chiamato è rozone, asino tardo,
  Quel bon destrier che va con tanta fretta,
  Ch’a pena l’avria gionto una saetta.

21 Lasciamo andar Ranaldo inamorato.
  Astolfo ritornò nella citade;
  Orlando incontinente l’ha trovato,
  E dalla lunga, con sagacitade,
  Dimanda come il fatto sia passato
  Della battaglia, e de sua qualitade.
  Ma nulla gli ragiona del suo amore,
  Perché vano il cognosce e zanzatore.

22 Ma come intese ch’egli era fuggito
  L’Argalia al bosco e seco la donzella,
  E che Rainaldo lo aveva seguito,
  Partisse in vista nequitosa e fella;
  E sopra al letto suo cadde invilito,
  Tanto è il dolor che dentro lo martella.
  Quel valoroso, fior d’ogni campione,
  Piangea nel letto come un vil garzone.

23 "Lasso, - diceva - ch’io non ho diffesa
  Contra al nemico che mi sta nel core!
  Or ché non aggio Durindana presa
  A far battaglia contra a questo amore,
  Qual m’ha di tanto foco l’alma accesa,
  Che ogni altra doglia nel mondo è minore?
  Qual pena è in terra simile alla mia,
  Che ardo d’amore e giazo in zelosia?

24 Né so se quella angelica figura
  Se dignarà de amar la mia persona;
  Ché ben serà figliol della ventura,
  E de felice portarà corona,
  Se alcun fia amato da tal creatura.
  Ma se speranza de ciò me abandona,
  Ch’io sia sprezato da quel viso umano,
  Morte me donarò con la mia mano.

25 Ahi sventurato! Se forse Rainaldo
  Trova nel bosco la vergine bella,
  Ché ben cognosco io come l’è ribaldo,
  Giamai di man non gli uscirà polcella.
  Forse gli è mo ben presso il viso saldo!
  Ed io, come dolente feminella,
  Tengo la guancia posata alla mano,
  E sol me aiuto lacrimando in vano.

26 Forse ch’io credo tacendo coprire
  La fiamma che me rode il core intorno?
  Ma per vergogna non voglio morire.
  Sappialo Dio ch’allo oscurir del giorno
  Sol di Parigio mi voglio partire,
  Ed andarò cercando il viso adorno,
  Sin che lo trovo, e per state e per verno,
  E in terra e in mare, e in cielo e nello inferno."

27 Così dicendo dal letto si leva,
  Dove giaciuto avea sempre piangendo;
  La sera aspetta, e lo aspettar lo agreva,
  E su e giù si va tutto rodendo.
  Uno atimo cento anni li rileva,
  Or questo avviso or quello in sé facendo.
  Ma come gionta fu la notte scura,
  Nascosamente veste l’armatura.

28 Già non portò la insegna del quartero,
  Ma de un vermiglio scuro era vestito.
  Cavalca Brigliadoro il cavalliero,
  E soletto alla porta se ne è gito.
  Non sa de lui famiglio, né scudero;
  Tacitamente è della terra uscito.
  Ben sospirando ne andava il meschino,
  E verso Ardena prese il suo cammino.

29 Or son tre gran campioni alla ventura:
  Lasciali andar, che bei fati farano,
  Rainaldo e Orlando, ch’è di tanta altura,
  E Feraguto, fior d’ogni pagano.
  Tornamo a Carlo Magno, che procura
  Ordir la giostra, e chiama il conte Gano,
  Il duca Namo e lo re Salamone,
  E del consiglio ciascadun barone.

30 E disse lor: - Segnori, il mio parere
  È che il giostrante ch’al rengo ne viene,
  Contrasti ciascaduno al suo potere,
  Sin che fortuna o forza lo sostiene;
  E ’l vincitor dipoi, come è dovere,
  Dello abbattuto la sorte mantiene,
  Sì che rimanga la corona a lui,
  O sia abbattuto, e dia loco ad altrui. -

31 Ciascuno afferma il ditto de Carlone,
  Sì come de segnore alto e prudente:
  Lodano tutti quella invenzïone.
  L’ordine dasse: nel giorno seguente
  Chi vôl giostrar se trovi su l’arcione.
  E fu ordinato che primieramente
  Tenesse ’l rengo Serpentino ardito
  A real giostra dal ferro polito.

32 Venne il giorno sereno e l’alba gaglia:
  Il più bel sol giamai non fu levato.
  Prima il re Carlo entrò ne la travaglia,
  Fuor che de gambe tutto disarmato,
  Sopra de un gran corsier coperto a maglia,
  Ed ha in mano un bastone e il brando a lato.
  Intorno a’ pedi aveva per serventi
  Conti, baroni e cavallier possenti.

33 Eccoti Serpentin che al campo viene,
  Armato e da veder meraviglioso:
  Il gran corsier su la briglia sostiene;
  Quello alcia i piedi, de andare animoso.
  Or qua, or là la piaza tutta tiene,
  Gli occhi ha abragiati, e il fren forte è schiumoso;
  Ringe il feroce e non ritrova loco,
  Borfa le nari e par che getti foco.

34 Ben lo somiglia il cavalliero ardito,
  Che sopra li venìa col viso acerbo;
  Di splendide arme tutto era guarnito,
  Nello arcion fermo e ne l’atto superbo.
  Fanciulli e donne, ogni om lo segna a dito;
  Di tal valor si mostra e di tal nerbo,
  Che ciascadun ben iudica a la vista,
  Che altri che lui quel pregio non acquista.

35 Per insegna portava il cavalliero
  Nel scudo azuro una gran stella d’oro;
  E similmente il suo ricco cimiero,
  E sopravesta fatta a quel lavoro,
  La cotta d’arme e il forte elmo e leggiero
  Eran stimati infinito tesoro;
  E tutte quante l’arme luminose
  Frixate a perle e pietre precïose.

36 Così prese l’arengo quel campione,
  E poi che l’ebbe intorno passeggiato,
  Fermosse al campo, come un torrïone.
  Ma già suonan le trombe da ogni lato;
  Entrono giostratori a ogni cantone,
  L’un più che l’altro riccamente armato,
  Con tante perle e oro e zoie intorno,
  Che il paradiso ne sarebbe adorno.

37 Colui che vien davanti, è paladino;
  Porta nel blavo la luna de argento,
  Sir di Bordella, nomato Angelino,
  Maestro di guerra e giostra e torniamento.
  Subitamente mosse Serpentino,
  Con tal velocità che parve un vento.
  Da l’altra parte, menando tempesta,
  Viene Angelino, e pone l’asta a resta.

38 Là dove l’elmo al scudo se confina,
  Ferì Angelino a Serpentino avante;
  Ma non se piega adietro, anze se china
  Adosso al colpo il cavalliero aitante,
  E lui la vista incontra in tal ruina,
  Che il fe’ mostrare al cielo ambe le piante.
  Levasi il grido in piaza, ogni om favella
  Che ’l pregio al tutto è di quel dalla Stella.

39 Ora se mosse il possente Ricardo,
  Che signoreggia tutta Normandia.
  Un leon d’oro ha quel baron gagliardo
  Nel campo rosso, e ben ratto venìa.
  Ma Serpentino a mover non fu tardo,
  E rescontrollo a mezo della via,
  Dandogli un colpo de cotanta pena,
  Che il capo gli fe’ batter su l’arena.

40 O quanto Balugante se conforta,
  Veggendo al figliol sì franca persona!
  Or vien colui che i scacchi al scudo porta,
  E d’oro ha sopra l’elmo la corona:
  Re Salamone, quella anima acorta.
  Stretto a la giostra tutto se abandona;
  Ma Serpentino a mezo il scudo il fiere,
  E lui getta per terra e il suo destriere.

41 Astolfo alla sua lancia diè de piglio,
  Quella che l’Argalia lasciò su il prato.
  Tre pardi d’oro ha nel campo vermiglio,
  Ben ne venìa su l’arcione assettato.
  Ma egli incontrò grandissimo periglio,
  Ché il destrier sotto li fu trabuccato.
  Tramortì Astolfo, e lume e ciel non vede,
  E dislocosse ancora il destro piede.

42 Spiacque a ciascuno del caso malvaggio,
  E forse più che a gli altri a Serpentino,
  Perché sperava gettarlo al rivaggio;
  Ma certamente era falso indovino.
  Il duca fu portato al suo palaggio,
  E ritornògli il spirto pelegrino;
  E similmente il piede dislocato
  Gli fu raconcio e stretto e ben legato.

43 E benché Serpentin tanto abbia fatto,
  Danese Ogier di lui non ha spavento.
  Mosse il destrier sì furïoso e ratto,
  Quale è nel mar di tramontana il vento.
  Era la insegna del guerrero adatto
  Il scudo azzurro e un gran scaglion d’argento;
  Un basalisco porta per cimero
  Di sopra a l’elmo lo ardito guerrero.

44 Suonâr le trombe: ogni om sua lancia aresta
  E vengonsi a ferir quei duo campioni.
  Non fu quel giorno botta sì rubesta,
  Ché parve nel colpir scontro de troni.
  Danese Ogieri con molta tempesta
  Ruppe di Serpentin ambi li arcioni:
  E per la groppa del destrieri il mena,
  Sì che disteso il pose in su l’arena.

45 Così rimase vincitore al campo
  Il forte Ogieri, e la renga difende.
  Re Balugante par che meni vampo,
  Sì la caduta del figliol lo offende.
  Anco egli ariva pur a quello inciampo,
  Perché il Danese per terra il distende.
  Ora si move il giovine Isolieri:
  Bene è possente e destro cavallieri.

46 Era costui di Feragù germano;
  Tre lune d’oro avea nel verde scudo.
  Mosse ’l destriero, e la lancia avea in mano:
  Nel corso l’arestò quel baron drudo.
  Il pro’ Danese lo mandò su ’l piano
  De un colpo tanto dispietato e crudo,
  Che non se avede se gli è morto o vivo,
  E ben sette ore stie’ del spirto privo.

47 Gualtiero da Monleon dopo colui
  Fu dal Danese per terra gettato.
  Un drago era la insegna di costui,
  Tutto vermiglio nel campo dorato.
  - Deh non facciamo la guerra tra nui, -
  Diceva Ogieri - o popol battizato!
  Ch’io vedo caleffarci a’ Saracini,
  Perché facciamo l’un l’altro tapini. -

48 Spinella da Altamonte fu un pagano,
  Ch’era venuto a provar sua persona
  A questa corte del re Carlo Mano:
  Nel scudo azuro ha d’oro una corona.
  Questo fu messo dal Danese al piano.
  Or Matalista al tutto se abandona:
  Fratello è questo a Fiordespina bella,
  Ardito, forte e destro su la sella.

49 Costui portava il scudo divisato
  Di bruno e d’oro, e un drago per cimiero;
  E cadde sopra al campo riversato.
  A vota sella ne andò il suo destriero.
  Mosse Grandonio, il cane arabïato:
  Aiuti Ogieri Iddio, ché gli è mistiero!
  Ché in tutto il mondo, per ogni confino,
  Non è di lui più forte Saracino.

50 Avea quel re statura de gigante,
  E venne armato sopra a un gran ronzone;
  Il scudo negro portava davante,
  E d’ôr scolpito ha quel dentro un Macone.
  Non vi fu Cristïan tanto arrogante
  Che non temesse di quel can felone:
  Gan da Pontier, come lo vide in faza,
  Nascosamente uscì fuor della piaza.

51 Il simil fe’ Macario de Lusana,
  E Pinabello e il conte de Altafoglia,
  Né già Falcon da gli altri se alontana:
  Parli mille anni che de qui se toglia.
  Sol della gesta perfida e villana
  Grifon rimase fermo in su la soglia,
  O virtute o vergogna che il rimorse,
  O che al partir degli altri non se accorse.

52 Ora torniamo a quel pagano orribile,
  Che per il campo tal tempesta mena.
  La sua possanza par cosa incredibile;
  Porta per lancia un gran fusto de antena.
  Né di lui manco è il suo corsier terribile,
  Che nella piazza profonda l’arena,
  Rompe le pietre, fa tremar la terra,
  Quando nel corso tutto se disserra.

53 Con questa furia andò verso il Danese,
  E proprio a mezo il scudo l’ha colpito:
  Tutto lo spezza, e per terra il distese
  Col suo destriero insieme e sbalordito.
  Il duca Naimo sotto il braccio il prese,
  E con lui fuor del campo si ne è gito;
  E fêgli medicare e braccio e petto,
  Che più che un mese poi stette nel letto.

54 Grande fu il crido per tutta la piaza,
  E più de gli altri i Saracin se odirno.
  Grandonio al rengo superbo minaza,
  Ma non per questo gli altri isbigotirno.
  Turpin di Rana adosso a lui si caza,
  E nel mezo del corso se colpirno;
  Ma il prete uscì de arcion con tal martìre,
  Che ben fu presso al ponto del morire.

55 Astolfo ne la piaza era tornato
  Sopra a un portante e bianco palafreno;
  Non avea arme, fuor che ’l brando a lato,
  E tra le dame, con viso sereno,
  Piacevolmente s’era solacciato,
  Come quel che de motti è tutto pieno.
  Ma mentre che lui ciancia, ecco Grifone
  Fu da Grandonio messo in sul sabbione.

56 Era costui di casa di Maganza,
  Che porta in scudo azuro un falcon bianco.
  Crida Grandonio con molta arroganza:
  - O Cristïani, è già ciascadun stanco?
  Non gli è chi faccia più colpo de lanza? -
  Allor se mosse Guido, il baron franco,
  Quel de Borgogna, che porta il leone
  Negro ne l’oro; e cadde dello arcione.

57 Cadde per terra il possente Angelieri,
  Che porta il drago a capo de donzella.
  Avino, Avolio, Otone e Berlenzeri,
  L’un dopo l’altro fur tolti di sella.
  L’acquila nera portan per cimeri,
  La insegna a tutti quattro era pur quella;
  Ma il scudo a scacchi d’oro e de azuro era,
  Come oggi ancora è l’arma di Bavera.

58 Ad Ugo di Marsilia diè la morte
  Questo Grandonio, che è tanto gagliardo.
  Quanto più giostra, più se mostra forte;
  Abbatte Ricciardetto e il franco Alardo,
  Svilaneggiando Carlo e la sua corte,
  Chiamando ogni cristian vile e codardo.
  Ben sta turbato in faccia lo imperieri;
  Eccoti gionto il marchese Olivieri.

59 Parve che il ciel se aserenasse intorno,
  Alla sua gionta ogni omo alciò la testa.
  Venìa il marchese in atto molto adorno;
  Carlo li uscitte incontra con gran festa.
  Non vi sta queta né tromba, né corno,
  Piccoli e grandi de cridar non resta:
  - Viva Olivier, marchese di Vïena! -
  Ride Grandonio e prende la sua antena.

60 Or se ne va ciascun de animo acceso,
  Con tanta furia quanta si può dire;
  Ma chiunche guarda, attonito e suspeso,
  Aspetta il colpo di quel gran ferire;
  Né solo una parola avresti inteso,
  Tanto par che ciascuno attento mire.
  Ma nello scontro Olivier di possanza
  Nel scudo ad alto li attaccò la lanza.

61 Nove piastre de acciaro avea quel scudo:
  Tutte le passa Olivier de Vïena.
  Ruppe lo usbergo, e dentro al petto nudo
  Ben mezo il ferro gl’inchiavò con pena.
  Ma quel gigante dispietato e crudo
  Ferì in fronte Olivier con quella antena;
  E con tanto furor di sella il caccia,
  Che andò longe al destrier ben sette braccia.

62 Ogni om crede di certo che ’l sia morto,
  Perché l’elmo per mezo era partito,
  E ciascadun che l’ha nel viso scorto,
  Giura che il spirto al tutto se n’è gito.
  Oh quanto Carlo Magno ha disconforto!
  E piangendo dicea: - Baron fiorito,
  Onor della mia corte, figliol mio,
  Come comporta tanto male Iddio? -

63 Se quel pagano in prima era superbo,
  Or non se può se stesso supportare,
  Cridando a ciascadun con atto acerbo:
  - O paladini, o gente da trincare,
  Via alla taverna, gente senza nerbo!
  Io de altro che di coppa so giuocare.
  Gagliarda è questa Tavola Ritonda,
  Quando minaccia e non vi è chi risponda! -

64 Quando il re Carlo intende tanto oltraggio,
  E di sua corte così fatto scorno,
  Turbato nella vista e nel coraggio,
  Con gli occhi accesi se guardava intorno.
  - Ove son quei che me dièn fare omaggio,
  Che m’hanno abandonato in questo giorno?
  Ov’è Gan da Pontieri? Ove è Rainaldo?
  Ove ene Orlando, traditor bastardo?

65 Figliol de una puttana, rinegato!
  Che, stu ritorni a me, poss’io morire,
  Se con le proprie man non t’ho impiccato! -
  Questo e molt’altro il re Carlo ebbe a dire.
  Astolfo, che di dietro l’ha ascoltato,
  Occultamente se ebbe a dispartire,
  E torna a casa, e sì presto si spaccia,
  Che in un momento gionse armato in piaccia.

66 Né già se crede quel franco barone
  Aver vittoria contra del pagano,
  Ma sol con pura e bona intenzïone
  Di far il suo dover per Carlo Mano.
  Stava molto atto sopra dello arcione,
  E somigliava a cavallier soprano;
  Ma color tutti che l’han cognosciuto,
  Diceano: - Oh Dio! deh mandaci altro aiuto! -

67 Chinando il capo in atto grazïoso
  Davante a Carlo, disse: - Segnor mio,
  Io vado a tuor d’arcion quello orgoglioso,
  Poi ch’io comprendo che tu n’hai desio. -
  Il re, turbato d’altro e disdegnoso,
  Disse: - Va pur, ed aiuteti Iddio! -
  E poi, tra’ soi rivolto, con rampogna
  Disse: - E’ ci manca questa altra vergogna. -

68 Astolfo quel pagano ha minacciato
  Menarlo preso e porlo in mar al remo,
  Onde il gigante sì forte è turbato,
  Che cruccio non fu mai cotanto estremo.
  Nell’altro canto ve averò contato,
  Se sia concesso dal Segnor supremo,
  Gran meraviglia e più strana ventura
  Ch’odisti mai per voce, o per scrittura.

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