< Orlando innamorato < Libro primo
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Libro primo - Canto ventesimoterzo Libro primo - Canto ventesimoquinto

 
1   Se non me inganna, segnor, la memoria,
  Seguir convene una zuffa grandissima,
  Ché a l’altro canto abandonai la istoria
  Della dama terribile e fortissima,
  Quale ha tanta arroganza e sì gran boria,
  Che vergognata se stima e vilissima
  E che beffando ogni om dietro gli rida,
  Se tutto il mondo a morte non disfida.

2   Da l’altra parte Aquilante e Grifone
  Eran duo cavallier di tanto ardire,
  Che lo universo non avea barone
  Qual gli potesse entrambi sostenire:
  Dico né Orlando, né il figlio de Amone,
  O di qual altro più se possa dire,
  Perché ciascun di lor, fronte per fronte,
  Tiene battaglia al pro’ Ranaldo e al conte.

3   Onde una zuffa sì pericolosa
  Non fo nel mondo più fatta giamai,
  Come fu tra Marfisa valorosa
  E i duo guerrer, che avean prodezza assai.
  Per ordine vi voglio or dir la cosa,
  Ché, se ben mi ramento, io ve lasciai
  Come la dama ne l’elmo forbito
  Era percossa da Grifone ardito.

4   A lui se volta con tanta ruina,
  Che lo credette al tutto dissipare;
  Gionse nel scudo la forte regina,
  E quel spezzato fa per terra andare;
  E se non era l’armatura fina
  Che quella fata bianca ebbe a incantare,
  Tagliava lui con tutto il suo destriero,
  Tanto fu il colpo dispietato e fiero.

5   Ben gli rispuose il franco giovanetto
  Ed a due man ne l’elmo la percosse,
  E callò il brando ne lo armato petto.
  Aquilante a quel tempo ancor se mosse;
  Ma la regina con molto dispetto
  Contra di lui turbata rivoltosse,
  E nel viso il ferì con tal tempesta,
  Che su le groppe il fie’ piegar la testa.

6   Né pone indugia, che a Grifon se volta,
  E mena un colpo tanto disperato,
  Che al giovanetto avria la vita tolta,
  Se quel non fusse per incanto armato.
  Mentre a quel colpo è la dama disciolta,
  Aquilante arivò da l’altro lato,
  E con gran furia ne l’elmo la afferra,
  Credendo a forza metterla per terra.

7   Forte tira Aquilante ad ambe braccia;
  Marfisa abranca lui di sopra al scudo,
  E via dal petto con la mano il straccia.
  Allor Grifone, il giovanetto drudo,
  De aiutare Aquilante se procaccia,
  E menò un colpo dispietato e crudo,
  Tal che col brando il scudo gli fracassa;
  Lei se rivolta ed Aquilante lassa.

8   Lascia Aquilante e voltasi al germano,
  E lo ferì de un colpo furïoso;
  Or chi più presto può, gioca de mano,
  Né indugia vi si pone, o alcun riposo.
  Come in un tempo oscuro e subitano,
  Che vien con troni e vento ruïnoso,
  Grandine e pioggia batte in ogni sponda,
  Che l’erbe strugge e gli arbori disfronda;

9   Così son essi, ed era il suo colpire:
  Nïun de’ duo quella dama abandona,
  Or l’uno or l’altro l’ha sempre a ferire.
  Lei da altra parte è sì franca persona,
  Che il lor vantaggio poco viene a dire.
  Alle spesse percosse il cel risuona;
  Né vinti fabri a botta di martello
  Farian tanto rumore e tal flagello.

10 Vicino a questi, proprio in su quel piano,
  Era un’altra terribil questïone,
  Però che ’l franco sir de Montealbano
  Ha il re Adrïano adosso e Chiarïone.
  Benché ferito è quel baron soprano
  Forte nel braccio manco e nel gallone,
  Pure è sì fiero e sì di guerra saggio,
  Che a’ duo combatte ed ha sempre avantaggio.

11 Tra il forte Oberto e quel re de Turchia
  La zuffa cominciata ancor durava;
  Torindo la battaglia mantenia,
  Abenché Oberto forte lo avanzava.
  Più fier cresce lo assalto tutta via,
  In quei tre lochi ogni om se adoperava;
  Vero è che con più ardore ed altra guisa
  Se combattea là dove era Marfisa.

12 Ma poi de tutte tre queste battaglie
  Vi contaraggio il fin, ciò vi prometto;
  Or convengo narrarvi altre travaglie
  De il conte Orlando, che giva soletto
  Tra l’aspre spine e le sassose scaglie,
  Dove il lasciai, in quel folto boschetto;
  Sol di trovare il suo compagno ha cura,
  Sempre cercando insino a notte scura.

13 Da poi che ’l giorno al tutto fu passato,
  E già splendia nel cel ciascuna stella,
  E non trova colui che egli ha cercato,
  Né scontra che de quel sappia novella,
  Smonta Baiardo e discese nel prato,
  Ed avea seco quella damigella
  Di cui longo parlare aveti odito,
  Qual fie’ la beffa al suo vecchio marito.

14 Lei de essere assalita dubitava,
  E forse non gli avria fatto contrasto;
  Ma questo dubbio non gli bisognava,
  Ché Orlando non era uso a cotal pasto.
  Turpino affirma che il conte de Brava
  Fo ne la vita sua vergine e casto.
  Credete voi quel che vi piace ormai;
  Turpin de l’altre cose dice assai.

15 Colcossi a l’erba verde il conte Orlando,
  Né mai se mosse insino al dì nascente.
  Lui dormia forte, sempre sornachiando;
  Ma la donzella non dormì nïente,
  Perché stava sospesa, imaginando
  Che questo cavallier tanto valente
  Non fosse al tutto sì crudo de core,
  Che non pigliasse alcun piacer de amore.

16 Ma poi che la chiara alba era levata,
  E vide del baron le triste prove,
  In groppa gli montò disconsolata,
  E se saputo avesse andare altrove,
  Via volentieri ne serebbe andata;
  Ma, come io dico, non sapeva il dove.
  Malinconiosa e tacita si stava:
  Il conte la cagion gli domandava.

17 Ella rispose: - Il vostro sornacchiare
  Non mi lasciò questa notte dormire,
  Et, oltra a ciò, me sentia piziccare. -
  Dicendo questo e volendo altro dire,
  Avanti a loro una donzella appare,
  Che fuor de un bel boschetto ebbe ad uscire,
  Sopra de un palafren di seta adorno;
  Un libro ha in mano ed alle spalle un corno.

18 Bianco era il corno e d’un ricco lavoro,
  Troppo mirabilmente fabricato;
  Di smalto colorito e splendido oro
  Da ciascun capo e in mezo era legato;
  E ben valeva infinito tesoro,
  De tante ricche pietre era adornato:
  E, come io dissi, il porta una donzella
  Sopra de l’altre grazïosa e bella.

19 Come fu giunta, ad Orlando se inchina,
  E con parlar cortese e voce pura
  Gli disse: - Cavallier, questa matina
  Trovato aveti la maggior ventura
  Che abbia la terra e tutta la marina;
  Ma a ciò bisogna un cor senza paura,
  Quale aver debbe un cavallier perfetto,
  Sì come voi mostrati nello aspetto.

20 Questo libro la insegna ad acquistare,
  Ma il modo e la maniera convien dire.
  Prima il bel corno vi convien suonare,
  Poi de improviso questo libro aprire,
  E leggeriti quel che avriti a fare
  Di quella cosa che abbia ad apparire;
  Perché, suonando il corno, a prima voce
  Verrà qualcosa orribile e feroce.

21 Ma il libro chiarirà, quale io ve ho detto,
  Come vi abbiate in quella a governare;
  E non crediati già di aver diletto,
  Ma converravi il brando adoperare.
  Come sereti fuor di quel sospetto,
  Non vi bisogna ponto indugïare,
  Ché vostra libertà vi serìa tolta;
  Ma il corno suonareti un’altra volta.

22 Ed a quel suono ancor qualche altra cosa
  Vedreti uscire e qualche gran periglio;
  E voi, come persona valorosa,
  Aprite il libro e prendite consiglio;
  Ma se teneti l’alma paurosa,
  A tal ventura non dati de piglio;
  Perché ardito principio e mala fine
  Fatto ha più volte assai gente tapine.

23 E ciò ve dico per questa ragione:
  Il corno per incanto è fabricato,
  E se alcun cavalliero è sì fellone,
  Che dopo il primo suon sia spaventato,
  Sempre seranne in sua vita pregione,
  Ché a la Isola del Lago fia menato;
  Né a cui spiace il finir, die’ cominciare:
  Tre volte il corno se convien sonare.

24 Alle due prime incontra gran travaglia,
  Pena e fatica troppo smisurata,
  Ed a ciascuna convien far battaglia;
  Ma, suonando da poi la terza fiata,
  Non bisogna adoprar brando né maglia,
  Che uscirà cosa tanto aventurata,
  Qual, se campasti ancor de li anni cento
  In vostra vita, vi farà contento. -

25 Da poi che il conte dalla dama intese
  L’alta ventura e la gran meraviglia,
  De trarla al fine entro al suo cor se accese,
  Né fra sé pensa o con altrui consiglia,
  Ma con gran voluntà la man distese,
  E prestamente il libro e il corno piglia;
  E per meglio acconciarse a quella guerra,
  La dama che avea in groppa pose a terra.

26 Poi messe a bocca il corno in abandono,
  Come colui che ciò ben far sapiva.
  Sembrava quasi quella voce un trono,
  E ben da longe de intorno se odiva;
  Ed ecco nella fin del primo suono
  Una gran pietra in due parte se apriva;
  La pietra a cento braccia era vicina:
  Tutta se aperse con molta ruina.

27 Rotta che fo la pietra per traverso,
  Duo tori uscirno con molto rumore,
  Ciascun più fiero orribile e diverso,
  Con vista cruda e piena di terrore.
  Le corne avian di ferro, e il pel riverso
  Tutto alla testa, e di strano colore,
  Però che or verde, or negro se mostrava,
  Or giallo, or rosso, e sempre lustrigiava.

28 Aperse Orlando il libro incontinente;
  Così diceva a ponto la scrittura:
  ’Cavallier, sappi che serai perdente,
  Se ad occider quei duo tu poni cura,
  Ché con la spada faresti nïente;
  Ma se vôi trare a fin questa ventura,
  Pigliarli te convien con molta pena
  E legarli ambi insieme a una catena.

29 Poi che sian gionti, ti conviene andare
  Là dove vedi la pietra intagliata,
  E il campo ivi de intorno tutto arare;
  E questo è quanto alla prima sonata.
  Nella seconda torna a riguardare,
  Perché il modo e la via te fia mostrata
  De aver de questa impresa onore o morte.
  Via! via! barone; e fa che te conforte.’

30 Non fece Orlando al libro più riguardo,
  Ma se rivolse al fraccassato sasso;
  Né certo bisognava esser più tardo,
  Però che e tori uscirno a gran fracasso.
  Esso era già smontato di Baiardo,
  E lor contra ne andava a fermo passo.
  Or gionse il primo ed abassa la testa
  E ferì in fianco il conte a gran tempesta.

31 Più de otto braccia ad alto l’ha gettato,
  E cade in terra con grave percossa.
  Gionse il secondo, e col corno ferrato
  Ruppe le piastre, usbergo e maglia grossa,
  E un’altra fiata al cel lo ebbe levato,
  E ben gli fe’ doler le polpe e l’ossa;
  Vero è che alcun di lor non l’ha ferito,
  Perché è fatato il cavalliero ardito.

32 Or se lui se turbò, non dimandate,
  Ché contar non puotria la voce umana;
  Come ebbe in terra le piante fermate,
  Ben dimostrava sua forza soprana,
  Botte menando tanto desperate
  Che sibillar faceva Durindana;
  E per le corne e pel dosso peloso
  Mena a traverso il conte furïoso.

33 Ma, come il brando suo fosse de un fusto,
  Non li puotea tagliar la pelle adosso;
  Così fatato avean quei tori il busto,
  Che tutti e brandi un pel no’ gli avrian mosso;
  E benché ’l conte fosse aspro e robusto,
  L’avean di qua, di là tanto percosso,
  Con le corne di ferro sì pistato,
  Che a gran fatica puotea trar il fiato.

34 Pur, come quel che è fiero oltra a misura,
  Facea del suo dolore aspra vendetta;
  Sempre combatte con vista secura,
  E de ferire a l’uno e a l’altro afretta;
  E benché abbian la pelle e grossa e dura,
  Muggiavan molte fiate per gran stretta,
  Ché lui feriva con tanta roina,
  Che spesso a terra or questo or quello inchina.

35 E cominciavan già de rinculare,
  A testa bassa facendo diffesa;
  Ma, come il conte gli andava a trovare,
  Era di novo sua superbia accesa.
  Così tre volte se ebbero a fermare,
  E tre volte tornarno alla contesa:
  Al fine Orlando, per finir la guerra,
  Un d’essi in fronte per un corno afferra.

36 Con la sinistra man nel corno il piglia,
  E quel, forte mugiando, furïava
  Facendo salti grandi a meraviglia,
  E già per questo Orlando nol lasciava.
  Esso avea tratto a Baiardo la briglia
  E sotto la cintura la portava.
  Questa era aredinata di catena:
  Prendela il conte e il toro intorno mena.

37 E mentre che così questo ragira,
  Tenendol tuttavia preso nel corno,
  Quell’altro toro, acceso de molta ira,
  Sempre ferendo a lui giva d’intorno.
  Il conte con gran forza il primo tira
  Dove è un pilastro de marmore adorno,
  Che fu del re Bavardo sepultura,
  Come mostrava intorno la scrittura.

38 Con questa briglia il primo ebbe legato,
  E similmente ancor prese il secondo;
  E poi che l’ebbe a quel sasso menato,
  Tanto gli batte al colpo furibondo,
  Che a l’uno e l’altro è l’orgoglio mancato.
  Non se indugia il guerrer, che è fior del mondo,
  Ma sì fra e tori attacca la sua spada,
  Che ’l stocco avanti e l’elzo adrieto vada.

39 Poi se fece d’un tronco una gran mazza,
  E come biolco se pone ad arare;
  Quei duo feroci tori avanti cazza
  E dritto il solco li fa caminare.
  Sempre col tronco li batte e minazza:
  Mai non fu visto il più bel lavorare.
  Per terra è Durindana e par che rada,
  Radice e pietre taglia quella spada.

40 Poi che fu il campo nelle sue confine
  Arato tutto, Orlando fie’ gran festa,
  Dio ringraziando e sue virtù divine,
  Che gli avea dato onor de tanta inchiesta.
  Poi lasciò e tori, e non se vidde il fine
  De lor, che se ne andarno con tempesta;
  Muggiando forte via passarno un monte,
  E uscîr de vista alle donzelle e al conte.

41 Benché sofferto avesse molto affanno
  Il franco conte alla battaglia dura,
  A lui pareva ciascuna ora uno anno
  De poter trare a fin tanta ventura;
  Né stima che per forza o per inganno
  Possa esser vinta sua mente sicura.
  Senza altramente adunque riposare,
  Prende il bel corno e comincia a suonare.

42 Era smontata giù del palafreno
  Quella donzella che portava il corno,
  E nel bel prato de fioretti pieno
  Se avea d’una ghirlanda il capo adorno;
  Ma, come il suon del conte venne meno,
  Tremò quella campagna tutta intorno,
  E un piccol monticel ch’era in quel loco,
  Se aperse in cima e fuor gettò gran foco.

43 Stavasi queto il figlio di Melone,
  Per veder ciò che al fine avesse a uscire.
  Ecco fuor di quel monte esce un dragone,
  Terribil tanto, ch’io nol posso dire.
  La dama, che sapea la fatasone,
  Tenne quell’altra, che volea fuggire,
  Dicendo: - Sopra me stati sicura,
  Ché solo al cavallier tocca paura.

44 Questa facenda a noi non apartiene,
  Ma quel barone al tutto fia deserto. -
  Rispose l’altra: - Ben se gli conviene,
  Ché un più malvaggio al mondo non è certo. -
  Adunque ciascadun m’intenda bene,
  Perché il caso de Orlando mostra aperto
  Che ogni servigio di dama si perde
  Chi non adacqua il suo fioretto verde.

45 Or torno a ragionar di quel serpente
  Che un altro non fu mai visto maggiore.
  Di scaglie verde e d’oro era lucente,
  L’ale ha depinte in diverso colore.
  Tre lingue avea ed acuto ogni dente,
  Battea la coda con molto rumore,
  Sempre gettava foco e fiamma viva,
  Che da l’orecchie e di bocca li usciva.

46 Come il serpente in tutto si scoperse,
  Il conte, che teniva il libro in mano,
  Gli vide scritto ove prima lo aperse:
  ’ Nel mondo tutto, per monte e per piano,
  Tanta fatica mai altrui sofferse
  Come tu soffrirai, baron soprano;
  Ma forse ancora potresti campare,
  Se quel ch’io dico, te amenti di fare.

47 Questa battaglia conviene esser presta,
  Perché il serpente è di tossico pieno,
  E getta fumo e fiamma sì molesta,
  Che ti farebbe tosto venir meno;
  Ma stu potesti tagliarli la testa,
  Non dubitar di foco o di veleno,
  E piglia pur quel capo arditamente:
  Rompilo sì, che ne traggi ogni dente.

48 E questi denti tu seminerai
  In questa terra per te lavorata,
  E poi mirabil cosa vederai:
  Di tal semente nascer gente armata,
  Forte ed ardita, e tu lo provarai.
  Or va, che se tu campi a questa fiata
  E se tu porti di tal guerra onore,
  Di tutto il mondo pôi chiamarti il fiore.’

49 Non par che in quel libro altro più se scriva:
  Il conte prestamente lo serrava,
  Perché il serpente già sopra gli ariva
  Con l’ale aperte, e gran furia menava,
  Gettando sempre foco e fiama viva.
  Con alto ardire Orlando l’aspettava;
  La bocca aperse il diverso dragone,
  Credendosi ingiottirlo in un boccone.

50 Ma, come piacque a Dio, nel scudo il prese,
  E tutto quanto l’ebbe dissipato.
  Era di legno, e sì forte se accese,
  Che presto e incontinente fu bruciato;
  E così il sbergo e l’elmo e ogni altro arnese
  Venne quasi rovente ed affocato:
  Arsa è la sopravesta, e il bel cimiero
  Ardea tuttora in capo al cavalliero.

51 Non ebbe il conte mai cotal battaglia,
  Poi che a quel foco contrastar conviene;
  Forza non giova o arte di scrimaglia,
  Perché gran fumo, che con fiamma viene,
  Gli entra ne l’elmo e la vista li abaglia,
  Né apena vede il brando che in man tiene;
  Ma, ben che abbia il veder quasi già perso,
  Pur mena il brando a dritto ed a roverso.

52 Così di qua di là sempre menando
  In quella zuffa oscura e tenebrosa,
  Nel collo il gionse pure al fin col brando,
  E via tagliò la testa sanguinosa;
  Quella poi prese il conte e, remirando,
  Ben gli parve quel capo orribil cosa,
  Ch’era vermiglio, d’oro, verde e bruno;
  Fuor di quel trasse e denti ad uno ad uno.

53 L’elmo se trasse poi quel conte ardito
  E dentro i denti di quel drago pose;
  Dapoi nel campo arato se ne è gito,
  Sì come il libro nel suo canto espose.
  Dove Bavardo il re fu sepellito,
  Seminò lui le seme venenose;
  Turpin, che mai non mente in alcun loco,
  Dice che penne uscirno a poco a poco.

54 Penne depinte, dico, de cimieri
  Uscirno a poco a poco de la terra,
  E dapoi gli elmi e’ petti de’ guerreri
  E tutto il busto integro si disserra.
  Prima pedoni, e poscia cavallieri
  Uscîr, tutti cridando: - Guerra, guerra! -
  Con trombe e con bandiere, a gran tempesta:
  Ciascun la lancia verso Orlando arresta.

55 Veggendo il conte la cosa sì strana,
  Disse fra sé: "Questa semenza ria
  Mieter mi converrà con Durindana,
  Ma s’io n’ho mal, la colpa è tutta mia,
  Perché diletto ha pur la gente umana
  Lamentarsi d’altrui per sua follia:
  Ma colui pianger debbe a doppie doglie
  Che per mal seminar peggio raccoglie."

56 Così dicendo il conte non fu tardo,
  Perché a guarnirsi tempo non gli avanza;
  L’elmo se alaccia il cavallier gagliardo,
  E non aveva più scudo né lanza.
  Di piana terra salta su Baiardo
  E quel percote con molta arroganza
  Contra alla gente che gli ariva intorno,
  Che, pur mo nata, die’ morir quel giorno.

57 Or che bisogna ch’io vada contando
  E colpi ad un ad uno e il lor ferire,
  Dapoi che contra a Durindana il brando
  Non val coperta, né arme, né scrimire?
  Però concludo in fin che il conte Orlando
  Tutti li fece in quel giorno morire;
  Come nel campo fur morti e dispersi,
  L’arme e i cavalli e i corpi fôr somersi.

58 Da poi che il conte per tutto ivi intorno
  Vide la gente morta e dissipata,
  Che in vita fatto avea poco soggiorno,
  E dove nacque se era sotterrata,
  Lui non indugia e pone a bocca il corno,
  Per donar fine alla terza suonata,
  E darsi a tal ventura ultimo vanto,
  Come io vi contarò ne l’altro canto.

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