< Orlando innamorato < Libro secondo
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Libro secondo - Canto ventesimosesto Libro secondo - Canto ventesimottavo

 
1   Un dicitor che avea nome Arïone,
  Nel mar Cicilïano, o in quei confini,
  Ebbe voce sì dolce al suo sermone,
  Che allo ascoltar venian tóni e delfini.
  Cosa è ben degna de amirazïone
  Che ’l pesce in mar ad ascoltar se inchini;
  Ma molto ha più di grazia la mia lira,
  Che voi, segnori, ad ascoltar retira.

2   Così dal cel lo stimo in summa graccia,
  E la mente vi pongo e lo intelletto
  Nel dire a modo che vi satisfaccia,
  E che vi doni allo ascoltar diletto.
  Pur ho speranza che io non vi dispiaccia,
  Come mi par comprender ne lo aspetto,
  Se ne la istoria ancora io me ritorni
  Di cui gran parte ho detto in molti giorni.

3   Nel canto qui di sopra io vi lasciai
  Di Fugiforca, il quale, essendo preso
  Per Brandimarte, menava gran guai,
  Ed essendosi a lui per morto reso,
  Con molto pianto e con lacrime assai,
  Standoli avante alla terra disteso,
  Per pietate e mercè l’avea a pregare
  Che non lo voglia alla Liza menare.

4   - Se tu mi meni alla Liza, barone,
  Di me fia fatta tanta crudeltate,
  Che, ancor che ben la merti di ragione,
  Insino a’ sassi ne verrà pietate.
  Deh prendate di me compassïone!
  Non che io voglia campare in veritate,
  Ch’io merto che la vita mi sia tolta,
  Ma non voria morir più de una volta.

5   E là di me fia fatto tanto strazio
  Quanto mai se facesse di persona;
  Quel re del mio morir non serà sazio,
  Ché troppo ingiurïai la sua corona;
  E forse questo me ha condotto al lazio,
  Sì come ne’ proverbi se ragiona
  E come esperienzia fa la prova:
  Peccato antiquo e penitenzia nova.

6   Perché, essendo una volta alla marina,
  Qual da la Liza poco se alontana,
  Perodia vi era in festa, la regina,
  Con Dolistone, intorno a la fontana;
  Io, là correndo, presi una fantina,
  Qual poi col conte di Rocca Silvana
  Cambiai ad aspri, e fôrno da due miglia:
  Questa di Dolistone era la figlia.

7   Né puotè il re, né altrui donarli aiuto,
  Sì che a Rocca Silvana la portai,
  A benché da ciascun fui cognosciuto,
  Però che in quella casa me allevai;
  Né cotal tema poi me ha ritenuto,
  Ma robbato ho il suo regno sempre mai,
  Dispogliando ciascun sino alla braga;
  Ma questo è quello che per tutto paga. -

8   Pensando Brandimarte a cotal dire,
  Ne fu contento assai per più cagione;
  Pur disse al ladro: - Il te convien venire
  In ogni modo a quel re Dolistone,
  Qual, come merti, ti farà punire. -
  Così dicendo il lega in su un ronzone,
  Con gran minaccie se ponto favella,
  Poi la sua briglia dette a Doristella.

9   E non parlava quel ladron nïente,
  Perché di Brandimarte avia paura.
  Or, giongendo alla Liza, una gran gente
  Trovarno armata sopra alla pianura;
  E Doristella fu molto dolente,
  - Lassa! - dicendo - in che disaventura
  Ritrovo il patre a questo mio ritorno,
  Che è posto in guerra ed ha l’assedio intorno! -

10 E facendo di ciò molti pensieri,
  Scoprisse avanti da cento pedoni
  E circa da altretanti cavallieri,
  I qual cridarno: - Voi sete pregioni! -
  - Altro che zanze vi sarà mestieri, -
  Rispose Brandimarte - o compagnoni,
  A volerci pigliar così di fatto! -
  Tra le parole il brando avia già tratto.

11 E gionse per traverso un contestabile,
  Quale era grande e portava la ronca,
  Armato a maglia e piastre innumerabile;
  Ma tutto a un tratto Tranchera lo tronca.
  Né mai se vidde un colpo più mirabile,
  Ché la persona sua rimase monca
  De un braccio e de la testa a un tratto solo,
  E l’uno e l’altro in pezzi andò di volo.

12 Ben ne fece de gli altri simiglianti,
  E de’ maggior, se Turpin dice il vero,
  Onde gli pose in rotta tutti quanti:
  Beato se tenìa chi era il primiero,
  Quel dico che a fuggire era davanti;
  E non tenean né strata né sentiero,
  Né in dietro a riguardar se voltan ponto;
  Fugge ciascuno insin che al ponto è gionto.

13 Ora nel campo si leva il romore.
  - A l’arme! a l’arme! - ciascadun cridava.
  Adosso a Brandimarte a gran furore
  Chi di qua chi di là ciascun toccava;
  E lui ben dimostrava un gran valore,
  Ma contra tanti poco gli giovava:
  A suo mal grado quella gente fella
  Pigliarno Fiordelisa e Doristella;

14 E seco Fugiforca, quel ladrone:
  Via ne ’l menarno, come era legato;
  Ma non cessa però la questïone,
  Ché Brandimarte al tutto è disperato,
  E fa col brando tal destruzïone,
  Che sino alla cintura è insanguinato,
  Né puote il suo destrier levare il passo
  Per la gran gente morta in quel fraccasso.

15 Ma per le dame è ciò poco ristoro,
  Quale ha perdute quel baron gagliardo.
  Lasciamo lui, e torniamo a coloro
  Che via ne le menarno senza tardo;
  E come avanti fôrno a Teodoro,
  Lui cognobbe Doristella al primo guardo,
  E lei cognobbe anch’esso al primo tratto,
  Come lo vidde, e ciò non fu gran fatto;

16 Però che ciascadun tanto se amava,
  Che altra sembianza non avea nel core.
  Or quando l’un quell’altro ritrovava,
  Non fu allegrezza al mondo mai maggiore;
  E ciascadun più stretto se abracciava,
  Dandosi basi sì caldi de amore,
  Che ciascadun che intorno era in quel loco,
  Morian de invidia, sì parea bel gioco.

17 Poi lui conta alla dama la ragione
  Perché alla Liza era intorno acampato,
  E facea guerra al patre Dolistone,
  Dicendo: - Io venni come disperato,
  A lui dando la colpa e la cagione
  Che via te conducesse il renegato,
  Dico Usbego, che Dio gli doni guai!
  Ove ne andasti, non seppi più mai. -

18 La dama ad ogni parte gli respose,
  E dègli alla risposta gran conforto,
  E la ventura sua tutta gli espose,
  E come Usbego a quel palagio è morto;
  Poi lo pregava con voce piatose
  Che divetasse ad ogni modo il torto
  Quale era fatto a quel baron valente,
  Che fo assalito da cotanta gente.

19 Per il dover fo lui mosso di saldo,
  E più dai preghi della giovanetta,
  Onde da lui mandò presto uno araldo,
  Ove era la battaglia, e un suo trombetta;
  E là trovarno Brandimarte caldo,
  Più che ancor fosse, a far la sua vendetta.
  Ma come il real bando a ponto intese,
  Lasciò la zuffa, tanto fu cortese.

20 E venne con gli araldi in compagnia
  De Teodoro al pavaglion reale
  (Costui già il regno de gli Armeni avia;
  Morto era il patre a corso naturale),
  E lo trovarno a mezo de la via,
  Con molta gente e pompa trïonfale,
  Intra quelle due dame, ogniuna bella:
  Qua Fiordelisa e là sta Doristella.

21 Ricevutolo in campo a grande onore,
  Re Teodoro il tutto gli contò,
  Cominciando al principio del suo amore,
  Insino al giorno ove gionti son mo;
  E poi elesse un degno ambasciatore,
  Che a Dolistone e Perodia mandò,
  Per voler pace e amendar quel che è fatto,
  Pur che abbia Doristella ad ogni patto.

22 La cosa era passata in tal travaso
  Quale io ve ho detto, e tal confusïone,
  E Fugiforca e’ pur preso è rimaso,
  Ché un tristo mai non trova bon gallone.
  Legato ancor si stava quel malvaso
  Con le mano alle rene in sul ronzone,
  E Brandimarte, che l’ebbe trovato,
  Dimandò al re che fusse ben guardato.

23 Onde per questo con gran diligenza
  Era guardato e con molta custodia,
  Co’ e ferri a’ piedi, e non stava mai senza,
  E per il suo mal far ciascadun lo odia.
  Ora lo ambasciador con riverenza
  A Dolistone e a sua dama Perodia
  Parlò sì bene, e fu tanto ascoltato,
  Che quel concluse per che egli era andato.

24 E tornò fora con lo olivo in testa,
  Che era un signale a quel tempo di pace,
  E poi la somma espose de sua inchiesta,
  Qual sopra a gli altri a Doristella piace.
  Tutti alla Liza intrarno con gran festa;
  Ma Fugiforca, quel ladro fallace,
  Via era condutto lui con mal pensiero
  Tra’ carrïaggi, sopra ad un somiero.

25 Ne la Liza per tutto è cognosciuto:
  Chi gli cridava dietro e chi da lato,
  E lui dicea: - Macon mi doni aiuto,
  Ché un altro non fu mai peggio trattato! -
  E Brandimarte, poiché fu venuto
  Avanti al re, quel ladro ha presentato.
  Il re mirando lui se meraviglia:
  Ben sa che è quel qual già tolse la figlia.

26 Ma che sia preso si meravigliava,
  Cognoscendol sì presto e tanto astuto.
  De la filiola poi lo adimandava,
  Se sapea lui quel che fosse avenuto;
  Ed esso a pieno il tutto racontava,
  Insin che il prezio ne avea recevuto:
  Ma che poi se partitte incontinente,
  Sì che di lei più non sapea nïente.

27 - Per prezzo al conte di Rocca Silvana
  Io la vendetti; - diceva il ladrone
  - Da mille miglia è forse di lontana
  Di sopra a Samadrìa la regïone. -
  E Brandimarte alor con voce umana
  Adimandava quel re Dolistone
  Se ebbe segnal la figlia, che abbia a mente;
  Ma Perodia rispose incontinente.

28 Come Perodia ha Brandimarte odito,
  Rispose al dimandar senza dimora;
  Né aspetta che parlasse il suo marito,
  Ma disse: - Se mia figlia vive ancora,
  Sotto alla poppa destra forse un dito
  Ha per segnale una voglia di mora;
  De una mora di celso, ora me amento,
  Essendo di lei pregna ebbi talento.

29 Là mi toccai; ed ella, come nacque,
  Sotto la poppa avea quel segno nero;
  Né mai per medicine o forza de acque
  Se puotè via levare, a dire il vero. -
  Or Brandimarte, sì come ella tacque,
  Cominciò poi la istoria, il cavalliero;
  A parte a parte il fatto gli divisa,
  Sì come sua filiola è Fiordelisa.

30 E fatto gli altri tuor di quel cospetto,
  Però che Fiordelisa avia vergogna,
  La fece avanti a loro aprire il petto,
  Onde più prova ormai non vi bisogna.
  Perodia e Dolistone han tal diletto
  Qual have il pregionier, quando si sogna
  La notte esser impeso e la dimane
  Poi viene assolto e in libertà rimane.

31 Ciascuno ha pien di lacrime la faccia.
  Piangendo gli altri ancor di tenerezza,
  La matre lei e lei la matre abraccia:
  Ogniuna di basarse ha maggior frezza.
  A Fugiforca fu fatta la graccia,
  Pregando ogniom per lui nella allegrezza;
  Cridi e lieti romori a gran divizia,
  Campane e trombe suonan di letizia.

32 Poi furno queste cose divulgate
  Fuor nella terra e per tutto il paese,
  E con trïonfo le noce ordinate
  Con real festa a ciascadun palese,
  E le due damigelle fôr sposate,
  Ché Fiordelisa Brandimarte prese,
  E Teodor si prese Doristella;
  Non so se alcun trovò la sua polcella.

33 Ché tanto poche ne vanno a marito,
  Che meglio un corvo bianco se dimostra;
  Ma queste due, sì come aveti odito,
  Eran pur state avanti a questo in giostra.
  Usavasi a quel tempo a tal partito,
  Ora altrimente nella etade nostra,
  Ché ciascuna perfetta si ritrova;
  E chi nol crede, lui cerchi la prova.

34 Ora queste due dame che io ve dico
  Catolice ènno entrambe e cristïane,
  E Macone avean tolto per nimico
  E le sue legge scelerate e vane;
  Onde ne andarno dal suo patre antico,
  E sì con prieghi e con parole umane
  Se adoperarno, per la Dio mercede,
  Che lo tornarno alla perfetta fede.

35 Dapoi la matre con minor fatica
  Ridussero anco a sua credenza santa;
  E la corte da poscia a tal rubrica
  Se attenne e la citate tutta quanta;
  E, senza che di questo più vi dica,
  La grazia de le dame fu cotanta,
  Che de i monti d’Armenia alla marina
  Corse ciascuno alla legge divina.

36 Ora de ricontar non è mestiero
  La festa, che ogni dì cresce maggiore;
  Qua se fa giostra, e là fassi torniero,
  Altrove è suono e danza con amore;
  Ma pur sta Brandimarte in gran pensiero,
  Né se può il conte Orlando trar del core.
  In fine un giorno la sua opinïone
  Fie’ manifesta in tutto a Dolistone,

37 Mostrando quasi aver fermato il chiodo
  Che in ogni forma Orlando vôl seguire.
  Diceva Dolistone: - Io non te lodo
  Per questo tempo adesso il dipartire;
  Ma, se pur de lo andare ad ogni modo
  Sei destinato, non so più che dire,
  Né di ciò la cagion più te dimando,
  Il gire e il star serà nel tuo comando. -

38 Una galea dapoi fu apparecchiata
  Di molte che ne avea quel barbasoro;
  Questa era la reale e meglio armata,
  Che avea la poppa tutta missa ad oro.
  Brandimarte e sua dama e più brigata
  Là se allogarno, con molto tesoro
  Qual Perodia ha donato alla sua figlia,
  Rubin, smeraldi e perle a meraviglia;

39 Tra l’altre cose il più bel pavaglione
  Che se trovasse in tutta la Soria.
  Ora spira levante, e il suo patrone
  Gli acerta che ogni indugia è troppo ria;
  Onde se accomandarno a Dolistone
  E a tutti gli altri, e vanno alla sua via,
  Passando Rodi e la isola di Creti;
  Col vento in poppa van zoiosi e lieti.

40 Ma il navicare e nostra vita umana
  De una fermezza mai non se assicura,
  Però che la speranza al mondo è vana,
  Né mai bon vento lungamente dura;
  Qual ora si levò da tramontana,
  Chiamando il Greco, che è mala mistura
  A cui di Creti vôl gire in Cicilia;
  L’aria se anera e l’acqua si scombilia.

41 Dicea il parone: - Il cel turbato è meco,
  E non me inganno già, ma ben me sforza,
  Perché io vorebbi ne la taza il Greco,
  E lui me ’l dona ne la vela a l’orza.
  Io non posso alla zuffa durar seco:
  Ove gli piace, convien che io mi torza. -
  Poi dice a Brandimarte: - A dir il vero,
  Con questo vento in Franza andar non spero.

42 Africa è quivi dal lato marino,
  Se drittamente ho ben la carta vista,
  E noi volteggiaremo nel camino,
  Ché, quando non se perde, assai s’acquista.
  Forse mutarà il vento, Dio divino!
  E cessarà questa fortuna trista;
  Pregar si puote che un siroco vegna,
  Qual ci conduca al litto de Sardegna. -

43 Parlava quel parone in cotal sorte,
  Chiedendo quel che egli avrebbe voluto,
  Ma tramontana ognior cresce più forte,
  E ’l mar già molto grosso è divenuto;
  Onde ciascun per tema de la morte
  Facendo voti a Dio dimanda aiuto;
  Ma lui non li essaudisce e non li ascolta,
  E sottosopra il mar tutto rivolta.

44 Pioggia e tempesta giù l’aria riversa,
  E par che ’l celo in acqua se converta,
  E spesso alla galea l’onda atraversa,
  Battendo ciò che trova alla coperta.
  Vien la fortuna ogniora più diversa,
  E spaventosa, orribile ed incerta,
  Pur col vento che io dissi, tuttavia,
  Sin che condotti gli ebbe in Barbaria.

45 Presso Biserta, al capo di Cartagine,
  Son gionti, ove già fu la gran citade
  Che ebbe di Roma simigliante imagine,
  E quasi partì seco per mitade;
  Di lei non se vede or se non secagine,
  Persa è la pompa e la civilitade;
  E gran trïomfi e la superba altura
  Tolti ha fortuna, e il nome apena dura.

46 Or, come io dissi, il franco Brandimarte
  Fu gionto per fortuna in questo porto.
  Ma un fie’ comandamento in quelle parte
  Che ogni cristian che ariva ivi, sia morto;
  Perché una profecia trovarno in carte,
  Che in fine, al lungo andare o in tempo corto,
  Da un re de Italia fia la terra presa,
  Per cui da poi serà la Africa incesa.

47 E Brandimarte, che il tutto sapea,
  Non volse palesarse per nïente,
  Avengaché di sé poco temea,
  Ma sì de la sua dama e d’altra gente.
  A tutti disse ciò che far volea,
  Ma poi discese in terra incontinente,
  E presentossi allo amiraglio avante,
  Dicendo come è figlio a Manodante;

48 E come vien da le Isole Lontane,
  Per vedere Agramante e la sua corte,
  Ed a provarse a sue gente soprane,
  Qual son laudate al mondo tanto forte;
  Onde lo prega che quella dimane
  Lo faccia accompagnar con bone scorte,
  Sin che a Biserta sia salvo guidato,
  Proferendosi a ciò de esser ben grato.

49 E lo amiraglio, che era assai cortese,
  Lo fece accompagnar di bona voglia;
  E Fiordelisa di nave discese
  E molta altra brigata con gran zoglia.
  Verso Biserta la strada si prese,
  Ed arivarno senza alcuna noglia
  Vicino alla citate una matina,
  E là fermârsi a canto alla marina.

50 Dapoi che ebbe donato molto argento
  A questi che gli han fatto compagnia,
  Coi suoi se ragunò baldo e contento
  Sopra una larga e verde prataria,
  Ove dal mar venìa suave vento,
  Tra molte palme che quel prato avia.
  Sotto di queste senza altra tenzone
  Fece adricciare il suo bel pavaglione.

51 Questo era sì legiadro e sì polito,
  Che un altro non fu mai tanto soprano.
  Una Sibilla, come aggio sentito,
  Già stette a Cuma, al mar napolitano,
  E questa aveva il pavaglione ordito
  E tutto lavorato di sua mano;
  Poi fo portato in strane regïone,
  E venne al fine in man de Dolistone.

52 Io credo ben, Segnor, che voi sappiati
  Che le Sibille fôr tutte divine,
  E questa al pavaglione avea signati
  Gran fatti e degne istorie pellegrine
  E presenti e futuri e di passati;
  Ma sopra a tutti, dentro alle cortine,
  Dodeci Alfonsi avea posti de intorno,
  L’un più che l’altro nel sembiante adorno.

53 Nove di questi ne la fin del mondo
  Natura invidïosa ne produce,
  Ma di tal fiamma e lume sì iocondo,
  Che insino a l’orïente facean luce;
  Chi avea iustizia e chi senno profondo,
  Quale è di pace, e qual di guerra duce;
  Ma il decimo di questi dieci volte
  Le lor virtute in sé tenea raccolte.

54 Pacifico guerrero e trïomfante,
  Iusto, benigno, liberale e pio,
  E l’altre degne lode tutte quante
  Che può contribuir natura e Dio.
  La Africa vinta a lui stava davante
  Ingenocchiata col suo popol rio;
  Ma lui de Italia avea preso un gran lembo,
  Standosi a quella con amore in grembo.

55 E come Ercole già sol per amore
  Fo vinto da una dama lidïana,
  Così a lui prese Italia vinta il core,
  Onde scordosse la sua terra Ispana,
  E seminò tra noi tanto valore,
  Che in ogni terra prossima e lontana
  Ciascaduna virtù che sia lodata
  O da lui nacque, o fo da lui creata.

56 Ma l’undecimo Alfonso giovanetto,
  Con l’ale è armato, a guisa de Vittoria,
  Sì come la natura avesse eletto
  Uno omo a possidere ogni sua gloria;
  Ché, volendo di lui con dir perfetto
  Di ciascuna cosa seguir la istoria,
  Avria coperto, non che il pavaglione,
  Ma il mondo tutto in ogni regïone.

57 Pur vi era ordita alcuna eletta impresa
  De arme, o di senno, o di guerra, o de amore:
  Sì come è Italia da’ Turchi diffesa
  Per sua prodezza sola e suo valore;
  E la battaglia tutta era distesa
  Di Monte Imperïale a grande onore,
  E le fortezze ruïnate al fondo,
  Sì belle che eran di trïomfi al mondo.

58 Il duodecimo a questo era vicino,
  Di etate puerile e in faccia quale
  Serìa depinto un Febo piccolino,
  Coi raggi d’oro in atto trïomfale.
  Ne l’abito sì vago e pellegrino,
  Giongendovi gli strali e l’arco e l’ale,
  Tanta beltate avea, tanto splendore,
  Che ogniom direbbe: "Questo è il dio d’Amore."

59 Avanti a lui si stava ingenocchiata
  Bona Ventura, lieta ne’ sembianti,
  E parea dire: "O dolce figliol, guata
  Alle prodezze de gli avoli tanti,
  E alla tua stirpe al mondo nominata;
  Onde fra tutti fa che tu ti vanti
  Di cortesia, di senno e di valore,
  Sì che tu facci al tuo bel nome onore."

60 Molte altre cose a quel gentil lavoro
  Vi fôr ritratte, e non erano intese,
  Con pietre prezïose e con tanto oro,
  Che tutto alluminava quel paese.
  Di sotto al pavaglione un gran tesoro
  In vasi lavorati se distese,
  De smeraldo e zaffiro e di cristallo,
  Che valeano un gran regno senza fallo.

61 Non vi potrei contare in veritate
  Il bel lavoro fatto a gentilezza;
  Ninfe se gli vedeano lavorate,
  Che eran tanto legiadre a gran vaghezza,
  Che meritan da tutti essere amate;
  Vedeansi cavallier di tal prodezza:
  Quivi erano ritratti a non mentire;
  Ma a qual fine, alcun non sapria dire.

62 Or Brandimarte presto lo abandona,
  Come lo vidde a quel campo dricciato;
  Sopra a Batoldo la franca persona
  Presso a Biserta se appresenta armato,
  E con molta baldanza il corno suona.
  Ne l’altro canto ve sarà contato
  Come il fatto passasse e la gran giostra;
  Dio vi conservi e la Regina nostra.

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