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CAPITOLO TERZO
Il y à sans doute une liaison intime entre la religion et la morale, et tout honnéte homme doit reconnoître que le plus noble hommage que la créature puisse rendre à son Créateur, c’est de s’élever à lui par ses vertus. Cependant la philosophie morale est une science absolument distincte de la théologie; elle a ses bases dans la raison et dans la conscience, elle porte avec elle sa propre conviction; et après avoir développé l’esprit par la recherche de ses principes, elle satisfait le coeur par la découverte de ce qui est vraiment beau, juste et convenable. L’Église s’empara de la morale, comme étant purement de son domaine.... pag. 413.
Quando Gesù Cristo disse agli Apostoli: Istruite tutte le genti... insegnando loro d’osservare tutto quello che v’ho comandato1, ingiunse espressamente alla Chiesa d’impadronirsi della morale.
Certo gli uomini hanno, indipendentemente dalla religione, dell’idee intorno al giusto e all’ingiusto, le quali costituiscono una scienza morale. Ma questa scienza è completa? È cosa ragionevole il contentarsene? L’essere distinta dalla teologia è una condizione della morale, o un’imperfezione di essa? Ecco la questione: enunciarla è lo stesso che scioglierla. Perchè, finalmente, è appunto questa scienza imperfetta, varia, in tante parti oscura, mancante di cognizioni importantissime intorno a Dio e, per conseguenza, intorno all’uomo e all’estensione della legge morale; intorno alla cagione della repugnanza che l’uomo prova troppo spesso nell’osservare anche la parte di essa, che pur conosce e riconosce; intorno agli aiuti che gli sono necessari per adempirla interamente; è questa scienza, che Gesù Cristo pretese di riformare, quando prescrisse l’azioni e i motivi, quando regolò i sentimenti, le parole e i desideri; quando ridusse ogni amore e ogni odio a de’ princìpi che dichiarò eterni, infallibili, unici e universali. Egli unì allora la filosofia morale alla teologia; toccava alla Chiesa a separarle?
Di che tratta la filosofia morale? Del dovere in genere e de’ vari doveri in particolare; della virtù e del vizio; della relazione dell’una e dell’altro con la felicità o l’infelicità; vuole insomma dirigere la nostra volontà e negl’intenti e, conseguentemente, nelle deliberazioni. E la morale teologica ha forse un altro scopo? può averlo? Se dunque hanno per oggetto lo stesso ordine di verità, per applicarle, nella pratica, allo stesso ordine di fatti, come saranno due scienze diverse? Non è egli vero che dove discordano, una dev’essere falsa? e che dove dicono lo stesso, sono una scienza sola? È evidente che non si può prescindere dal Vangelo nelle questioni morali: bisogna o rigettarlo, o metterlo per fondamento. Non possiamo fare un passo, che non ci si pari davanti: si può far le viste di non accorgersene, si può schivarlo senza urtarlo di fronte; non essere con lui, senza essere contro di lui; si può, dico, in parole, ma non in fatto.
Io so che questa distinzione o, per parlare più esattamente, quest’antitesi di filosofia morale e di teologia è ricevuta comunemente; che con essa si sciolgono tante difficoltà, e si conciliano tanti dispareri; ma senza cercare se essa medesima si concilii con la logica. So anche che altri uomini distinti l’hanno adottata, anzi ci hanno fondata sopra una parte de’ loro sistemi. Ne prenderò un esempio da un uomo e da un libro tutt’altro che volgari: Comme dans cet ouvrage je ne suis point théologien, mais écrivain politique, il pourroit y avoir des choses qui ne seroient entièrement vraies que dans une façon de penser humaine, n’ayant point été considerées dans le rapport avec des vérités plus sublimes2. Ma per essere del Montesquieu, questa frase non è meno priva di senso. Poichè, se queste cose saranno interamente vere in un modo di pensare umano, saranno vere in qualunque modo di pensare. Questa contradizione che si suppone possibile con delle verità più sublimi, o non esisterà, o, se esiste, farà che quelle cose non siano interamente vere. Se hanno una relazione con delle verità più sublimi, questa relazione è la prima cosa da esaminarsi; poichè qual è il criterio della verità che si cerca, se non la verità nota? O forse che le verità perdono la loro attitudine e il loro diritto, quando sono sublimi? Il sofisma sul quale è fondata questa protesta, come tant’altre simili, era già stato svelato, mezzo secolo prima, da un osservatore profondo e sottile del cuore umano, il Nicole. Esaminando il valore di quelle parole tanto frequentemente usate: «umanamente parlando,» egli dice: «Il semble, à nous entendre parler, qu’il y ait comme trois classes de sentimens, les uns justes, les autres injustes, et les autres humains; et trois classes de jugemens, les uns vrais, les autres faux, et les autres humains... Cependant il n’en est pas ainsi. Tout jugement est ou vrai ou faux, tout sentiment est ou juste ou injuste; et il faut nécessairement que ceux que nous appellons jugemens et sentimens humains se réduisent à l’une ou à l’autre de ces classes3.» Il Nicole ha poi egregiamente messo in chiaro il motivo per cui si ragiona in quella strana maniera. Si dice che una massima è umanamente vera, perchè non si può, come si vorrebbe, chiamarla vera semplicemente. Non le si attribuisce che una verità relativa; ma per dedurne delle conseguenze che non convengono se non alla verità assoluta. Quest’espressione significa dunque: io sento che la massima di cui ho bisogno, è opposta alla religione: contradire alla religione, non voglio; abbandonare la massima, nemmeno: non potendo farle concordare logicamente, mi servo d’un termine che lascia intatta la questione in astratto, per scioglierla in fatto secondo i miei desidèri. Perchè non si dice mai: secondo il sistema tolemaico, secondo la chimica antica? Perchè in queste cose nessuno si crea il bisogno d’ingannar sè medesimo.
Ma, senza arrogarsi di fare un giudizio sopra Montesquieu, si può credere che l’uso di queste espressioni, comune, in quel tempo, a tanti scrittori, non sia venuto da un errore d’intelletto.
La religione cattolica era allora in Francia sostenuta dalla forza. Ora per una legge, che durerà quanto il mondo lontana, la forza fa nascere l’astuzia per combatterla4; e quegli scrittori che desideravano abbattere la religione senza compromettersi, non dicevano che fosse falsa, ma cercavano di stabilire de’ princìpi incompatibili con essa, e sostenevano che questi princìpi ne erano indipendenti. Non s’arrischiando di demolire pubblicamente l’edifizio del Cristianesimo, gl’innalzavano accanto un altro edifizio, che, secondo loro, doveva farlo cadere5.
Ma questa filosofia morale «ha le sue basi nella ragione e nella coscienza; porta con sè il suo proprio convincimento; e dopo avere sviluppato lo spirito con la ricerca de’ princìpi, appaga il core con la scoperta di ciò che è veramente bello, giusto e conveniente.»
E cos’ha fondato, da sè, su queste basi? Ha prodotto un convincimento unanime e perpetuo? La sua ricerca de’ principi è riuscita a un solo e inconcusso ritrovato? Le sue scoperte del bello, del giusto e del conveniente sono anch’esse concordi? E appagano il core davvero? Se è così, può essere distinta dalla teologia: non ne ha più bisogno; o, per dir meglio, sarà la teologia stessa.
Ma se ha variato e varia secondo i luoghi e i tempi, non si potrà opporla alla morale cattolica, che è una. Sarà lecito domandare, prima di tutto, quale sia questa filosofia morale, di cui s’intende parlare; giacchè è indubitato che ce ne sono molte.
Ci sono due cose principali nella morale, il principio, e le regole delle azioni, che ne sono l’applicazione: la storia della morale, sia come dottrina popolare, sia come scienza, presenta, e nell’uno e nell’altre, la più mostruosa varietà.
In quanto alle regole basta, per convincersene, rammentarsi gli assurdi sistemi di morale pratica che sono stati tenuti da nazioni intere. Il Locke, volendo provare che non ci sono regole di morale innate, e impresse naturalmente nell’anima degli uomini, ne ha citati esempi in gran quantità6. Egli è andato a cercarne la maggior parte tra i popoli rozzi e vicini allo stato selvaggio; ma non gliene sarebbe mancati tra le nazioni più conosciute, e che hanno più fama di civili e illuminate. Trovavano essi nel loro core e nella loro mente la vera misura del giusto e dell’ingiusto i gentili? Que’ Romani i quali sentivano con raccapriccio che un loro cittadino fosse stato battuto di verghe, e ai quali pareva un atto di giustizia ordinaria il dar vivo alle fiere uno schiavo, fuggito per non poter resistere ai trattamenti d’un padrone crudele? Di tale iniquità di fatti e di giudizi, gli storici e i moralisti antichi ci hanno trasmesse non poche testimonianze, e, per lo più, senza avvedersene7. Quale è dunque questo convincimento morale, se non nasce in tutti gli uomini? Potrà purtroppo essere tanto compito, da determinare un uomo a commettere un’azione pessima, con la persuasione d’operar bene; tanto costante, da impedire che nasca in lui il rimorso dopo averla commessa; si potrà estendere a nazioni intere; ma sarà un convincimento falso. E per chiarirlo tale, non sarà nemmeno necessario il testimonio della religione; basterà che cessino alcune circostanze, che si cambi un interesse, che s’abolisca una costumanza.
In quanto al principio della morale, le differenze non sono più tra i Mingreliani, i Peruviani e i Topinambi: è questione di tempi e di paesi colti, e di pochi uomini che pretendono di fare astrazione da ogni interesse, da ogni autorità, e da ogni abitudine per trovare il vero. Pochi, dico, riguardo al rimanente degli uomini; ma autori di scole che si possono chiamar molte, anche in paragone di ciò che accade in tant’altre scienze, nelle quali il dissenso non è, a gran pezzo, nè così umiliante, nè così dannoso. I nomi soli delle più universalmente celebri tra quelle scole, nomi che corrono alla mente d’ognuno, senza bisogno di citarli, bastano per dare un concetto pur troppo vasto d’una tale varietà, e dispensare da ogni prova. E s’osservi che non sono di quelle discussioni che hanno, per dir così, un moto progressivo, facendo ognuna delle parti un qualche passo verso un centro comune, e tornando così in aumento stabile della scienza ciò che, da principio, era stato opinione particolare d’una scola. Qui in vece i diversi sistemi cadono e risorgono, conservando sempre le loro differenze essenziali; si disputa, ripetendo ognuno sempre i suoi argomenti come perentori, e ripetendoli per quanto si sia dovuto vedere che non riescono ad abbattere quelli degli avversari: è il gran carattere delle questioni inconciliabili8.
Ora, se ciò che l’illustre autore ha nominalmente riunito sotto il titolo di filosofia morale, si risolve in fatto e si disperde in una moltiplicità eterogenea; se delle premesse diverse e opposte, e delle diverse e opposte conclusioni, intorno al bello, al giusto, al conveniente, sono tutt’altro che la scoperta di ciò che è veramente bello, giusto e conveniente; è superfluo l’aggiungere che da quelle non potrà mai resultare l’appagamento del core, asserito da lui come effetto d’una tale scoperta, e neppure, s’intende; quello della mente. Gioverà piuttosto l’osservare come il non essere alcuni di que’ tanti sistemi rimasto mai vittorioso, in una guerra così antica, e sempre viva o rinascente, venga dall’essere tutti ugualmente inetti a produrre quel duplice e corrispondente appagamento.
Ci sono in qualunque sistema di morale assolutamente distinta dalla teologia (sia per ignoranza involontaria della rivelazione, sia per volontaria esclusione di essa), due vizi innati e irremediabili: mancanza di bellezza, ossia di perfezione, e mancanza di motivi. Perchè una morale sia compita, deve riunire queste due condizioni al massimo grado; deve cioè non escludere, anzi proporre i sentimenti e l’azioni più belle, e dare dei motivi per preferirle. Ora, nessuno di questi sistemi può farlo: ognuno di essi è, per dir così, obbligato a scegliere; e tutto ciò che acquista da una parte, lo perde dall’altra. Se, per evitare la difficoltà, si ricorre a un sistema medio, questo tempererà i due difetti, ma conservando e l’uno e l’altro. Mi sia lecito d’entrare in un esame più esteso, per mettere in chiaro questa proposizione.
Quanto più un sistema di filosofia morale cerca d’adattarsi al sentimento universale, consacrando alcune massime che gli uomini hanno sempre lodate e ammirate, la preferenza data alle cose giuste sulle piacevoli, il sacrifizio di sè stesso, il dovere adempito e il bene fatto senza speranza di ricompensa nè di gloria, tanto più riesce inabile a dare, de’ suoi precetti e de’ suoi consigli, una ragione adequata, prevalente a ogni argomento e a ogni interesse contrario. Infatti, se noi esaminiamo quale sia in una bella azione la qualità che eccita l’ammirazione, e che le fa dare un tal titolo, vedremo non esser altro che la difficoltà (intendo, non la difficoltà d’eseguire che nasce dagli ostacoli esterni, ma quella di determinarsi): la giustizia, l’utilità saranno condizioni senza le quali essa non sarebbe bella, ma non sono quelle che la rendono tale. Se, mentre si sta ammirando la risoluzione presa da un uomo in una data circostanza, si viene a sapere che gli tornava conto di prenderla, l’ammirazione cessa; quella risoluzione si chiamerà bona, utile, giusta, saggia, ma non più ammirabile nè bella; si dirà che quell’uomo è stato fortunato, onesto, avveduto: nessuno lo chiamerà grande. E perciò l’invidia, la quale, quanto è sciocca riguardo all’intento, altrettanto è acuta nella scelta de’ mezzi, mette tanto studio a trovar qualche motivo d’interesse in ogni bella azione, che non possa negare; cioè un motivo per cui sia stato facile il risolversi a farla: le cose facili non sono ammirate. Ma perchè mai le più belle azioni compariscono difficili al più degli uomini, se non perchè essi non trovano nella ragione de’ motivi sufficienti per intraprenderle risolutamente, anzi trovano nell’amore di sè de’ motivi contrari?
Ma se, per evitare l’inconveniente e la vergogna di dar precetti e consigli, senza poter proporre de’ motivi proporzionati, un sistema di morale vuol limitarsi a prescrivere e a raccomandare l’azioni che s’accordino con l’utile temporale di chi le fa, non solo non soddisfa, ma offende un’altra tendenza di tutti gli uomini, i quali non vogliono rinunziare alla stima di ciò che è bello senza essere utile temporalmente; anzi è bello appunto per questo. Io so che, nel sistema della morale fondata sull’interesse, si spiegano tutte l’azioni più magnanime e più indipendenti da ciò che comunemente si chiama utile: si spiegano col dire che gli uomini di gran core ci trovano la loro soddisfazione. Ma, perchè una teoria morale sia completa, non basta che spieghi come alcuni possano aver fatto ciò che essa medesima è costretta a lodare bisogna che dia ragioni e motivi generali per farlo. Altrimenti la parte più perfetta della morale diventa un’eccezione alla regola, una pratica che non ha la sua ragione nella teoria, ma ha solamente una cagione di fatto in certe disposizioni individuali; è quasi una stravaganza di gusto9. C’è negli uomini una potenza che gli sforza a disapprovare tutto ciò che non par loro fondato sulla verità; e siccome non possono disapprovare le virtù disinteressate, così vogliono un sistema nel quale esse entrino come ragionevoli. Io credo che, quanto più si osservi, sempre più si vedrà che le morali umane si agitano tra questi due termini, cercando invano di ravvicinarli. Ognuno di que’ sistemi ha una parte di fondamento nell’una o nell’altra tendenza della natura umana, cioè o nella stima della virtù, o nel desiderio della felicità (tendenze indistruttibili come il vero, che è l’oggetto dell’una, e il bene, che è il termine dell’altra); ognuno tiene da quella su cui si fonda, un’imperfetta ragione d’essere, e una forza per combattere; come dal trascurar l’altra gli viene l’impotenza di vincere. La difficoltà consiste nel soddisfarle ugualmente, nel trovare un punto dove la bellezza e la ragionevolezza dell’azioni, de’ voleri, dell’inclinazioni, si riuniscano necessariamente, in ogni caso e con piena evidenza.
Questo punto è la morale teologica. Qui l’anima umana ritrova, per dir così, la sua unità nel riconoscimento dell’unità eterna e suprema del vero e del bene.
S’immagini qualunque sentimento di perfezione: esso si trova nel Vangelo; si sublimino i desidèri dell’anima la più pura da passioni personali fino al sommo ideale del bello morale: essi non oltrepasseranno la regione del Vangelo. E nello stesso tempo non si troverà alcun sentimento di perfezione, al quale col Vangelo non si possa assegnare una ragione assoluta e un motivo preponderante, legati ugualmente con tutta la rivelazione.
È egli bello il perdonare l’offese, l’avere un core inalterabile, placido e fraterno per chi ci odia? Chi ne dubita? Ma per qual ragione dovrò io impormi questi sentimenti, quando tutto mi trascina agli opposti? Perchè tu non puoi odiare il tuo fratello se non come cagione del tuo male; se non lo è, il tuo odio diventa irragionevole e ingiusto: ora egli non t’ha fatto male; la tua volontà sola può nocerti realmente: egli non ha fatto male, che a sè stesso, e da te merita compassione. Se l’offesa ti punge, è perchè dai alle cose temporali un valore che non hanno; perchè non senti abitualmente che Dio è il tuo solo bene, e che nessun uomo, nessuna cosa può impedirti di possederlo. Il tuo odio viene dunque dalla corruttela del tuo core, dal traviamento del tuo intelletto: purifica l’uno e correggi l’altro, e non potrai odiare. Di più tu riconosci come il più sacro dovere quello d’amare Dio sopra ogni cosa: devi dunque desiderare che sia glorificato e ubbidito: oseresti tu volere che alcuna creatura ragionevole gli negasse il suo omaggio, si ribellasse alla sua legge? Questo pensiero ti fa orrore; tu desidererai dunque che ogni uomo serva Dio e sia nell’ordine; se lo fai, desideri a ogn’uomo la perfezione, la somma felicità: ami ogn’uomo, senza alcuna possibile eccezione, come te stesso.
È bello il dare la propria vita per la verità e per la giustizia? il darla senza testimoni che t’ammirino, senza un compianto, nella certezza che gli uomini ingannati t’accompagneranno con l’esecrazioni, che il sentimento della santità della tua causa non troverà fuori di te dove appoggiarsi, dove diffondersi? Non c’è uomo che non pianga di ammirazione al sentire che un altr’uomo abbia abbandonata la terra così. Ma chi proverà che sia ragionevole il farlo? Quale è il motivo per cui si deva rinunziare a quel sentimento così forte nel core d’ogn’uomo, al desiderio di far consentire dell’anime immortali come la nostra al nostro più alto e profondo sentire? Perchè quando a seguire la giustizia non c’è altra strada che la morte, è certo per noi che Dio ci ha segnata quella per arrivare a Lui; perchè il secolo presente non ha il suo compimento in sè; perché il bisogno che abbiamo d’essere approvati non sarà soddisfatto se non quando vedremo che Dio ci approva; perchè ogni nostro sacrifizio è leggiero in paragone dell’ineffabile sacrifizio dell’Uomo.Dio, al quale dobbiamo esser somiglianti, se vogliamo entrare a parte del suo regno.
Ecco i motivi per cui milioni di deboli creature, con quell’aiuto divino che rende facili tutti i doveri, hanno trovato che la determinazione la più ammirabile e la più difficile, quella di morire tra i tormenti per la verità, era la più ragionevole, la sola ragionevole; e l’hanno abbracciata. Prodigiosa storia della religione! nella quale l’atto di virtù il più superiore alle forze dell’uomo, é forse quello di cui gli esempi sono più comuni.
Non se ne potrà immaginare alcuno, per cui il Vangelo non dia motivi: non si potrà immaginare un sentimento vizioso, che secondo il Vangelo, non supponga un falso giudizio. Si domandi a un cristiano quale sia in ogni caso la risoluzione più ragionevole e più utile; dovrà rispondere: la più onesta e la più generosa.
Troviamo qui l’occasione d’osservar di passaggio quanto sia inconsistente la distinzione che alcuni credono di poter fare tra la morale del Vangelo, per la quale professano ammirazione, non che stima, e i dommi del Vangelo, che dicono opposti alla ragione; come se queste fossero nel Vangelo due dottrine estranee l’una all’altra. E ci sono in vece essenzialmente e perpetuamente connesse; a segno che non ci si trova quasi un insegnamento morale del Redentore, che non sia confermato da Lui con un insegnamento morale del Redentore, che non sia confermato da Lui con un insegnamento dommatico, dal suo primo discorso alle turbe, nel quale dice beati i poveri di spirito, perchè di questi è il regno de’ cieli10, fino a quello che precedette di due giorni la celebrazione della sua ultima pasqua, e nel quale fonda il precetto dell’opere della misericordia sulla rivelazione della sua futura venuta a giudicar tutti gli uomini11. È quindi facile il vedere che quella distinzione implica una supposizione affatto assurda, come è quella d’una dottrina, nella quale la verità sia, non già mescolata accidentalmente col falso, ma fondata interamente sul falso. E non già una qualche verità sparsa, staccata, secondaria; ma un complesso compito e perfettamente consentaneo di verità regolatrici di tutti gli affetti dell’animo, di tutte le determinazioni della volontà, in qualunque condizione della vita umana. Supposizione, ripeto, assurda non meno che empia, d’un maestro sempre sapiente ne’ precetti, e sempre fallace ne’ motivi, il quale, in una norma del credere, indegna dell’assentimento della ragione, abbia ritrovata una norma del volere e dell’operare, che la ragione medesima deva poi riconoscere superiore a qualunque sua speculazione, come fa quando l’ammira, senza poterla rivendicar come sua, col darle, di suo, un diverso fondamento.
Infatti dond’è, donde poteva essere ricavata l’idea di perfezione proposta agli uomini nel Vangelo, se non dall’esemplare del Dio perfetto, che nessuno ha mai veduto, e che fu rivelato dal Figlio unigenito, che è nel seno del Padre12? Chi poteva dir loro: Siate perfetti, se non Quello che poteva aggiungere: come è perfetto il vostro Padre che è ne’ cieli13? Qual maestro avrebbe insegnato a’ suoi discepoli, a tutti quelli che fossero per credere in lui fino alla fine de’ secoli, a esser tutti una sola cosa, se non Quello che all’inaudito insegnamento poteva aggiungere quell’ineffabile esempio: come, o Padre, una sola cosa siamo noi14? E i mezzi d’eseguire una tal legge, donde potevano venire se non dall’onnipotenza del Legislatore medesimo? Chi poteva esigere dall’uomo la forza di superare tutte le tendenze contrarie, se non Chi gliela poteva promettere, dicendo: Chiedete e vi sarà dato15? Chi la forza di sostenere per la giustizia tutte le violenze di cui è capace il mondo, se non Chi poteva dire: Io ho vinto il mondo? Chi la forza più mirabile ancora, di sostenerle in pace, se non Chi poteva dire: Questa pace l’avrete in me16? E donde finalmente poteva aspettarsi una ricompensa perfetta come questa legge medesima? Chi poteva prometterne una, non solo alla virtù, ma al segreto della virtù, se non Chi parlava in nome del Padre che vede nel segreto17? Chi prometterla abbondante in paragone di qualunque sforzo più eroico, di qualunque sacrifizio più doloroso, se non chi poteva prometterla ne’ cieli18? Chi nobile al pari del precetto d’aver fame e sete della giustizia, anzi perfettamente connaturale ad esso, se non Chi poteva dire: La vostra beatitudine starà nell’essere satollati19? Si può egli non vedere in questi esempi (e sarebbe facile il moltiplicarli, se ce ne fosse bisogno) una connessione unica, una relazione necessaria, tra i precetti e i motivi? Quando dunque la ragione ammira la morale del Vangelo, alla quale non si sarebbe potuta sollevare da sè, fa rettamente il suo nobile ufizio: ma quando ne sconosce l’unità divina; quando in ciò che il Vangelo prescrive e in ciò che annunzia non vuol vedere una sola e medesima rivelazione; quando ricusa d’ammettere motivi soprannaturali di precetti ugualmente soprannaturali, che confessa eccellenti (che non vuol dir altro se non conformi a delle verità d’un ordine eccellente), allora non può più chiamarsi ragione, perchè discorda da sè medesima.
Sicchè, quand’anche per quelle parole «filosofia morale», come sono adoprate dall’illustre autore e da lui opposte alla teologia, si potesse intendere, in vece d’una confusa e discorde moltiplicità di dottrine, una sola dottrina; quand’anche si potesse intendere una dottrina tutta vera, cioè il complesso delle nozioni rette intorno alla morale, che si trovano, dirò così, sparse nell’umanità, e queste nozioni nettate dai tanti falsi concetti che ci sono mescolati, accresciute di ciò che l’osservazione e il ragionamento partitolare possono aggiungere alla cognizione comune, e ordinate in forma di vera scienza; quand’anche, finalmente, si potesse per quelle parole intendere una scienza universalmente nota, e esclusivamente ricevuta, si dovrebbe ancora dirla inadeguata all’intento, perchè in essa non ritroverebbe un principio col quale a ogni grado della moralità (e non solo della moralità intera e perfetta che c’è manifestata dalla Fede, ma di quella medesima a cui arriva la cognizione naturale) si possa assegnare una ragione assoluta, legata con una sanzione preponderante; perchè, in altri termini, le sue speculazioni non pareggiano, nè potrebbero mai pareggiare l’idea del bene morale, sia come regola, sia come termine della volontà, cioè e come virtù e come felicità: idea che ai più sinceri e potenti sforzi di quelle speculazioni, non solo rimane inesaurita, ma sempre più comparisce inesauribile. Dal che viene di conseguenza che non si potrebbe da quella filosofia ricavare un criterio applicabile a ogni azione e a ogni sentimento. Anzi, per esser vera scienza, dovrà essa medesima riconoscere questa sua mancanza; giacchè come mai potrà esser vera scienza una la quale sconosca la natura del suo oggetto, e la misura necessaria delle sue speculazioni, a segno di non avvedersi d’una sproporzione necessaria che ci sia tra queste e quello? e, per restringere il bene morale ne’ limiti di quelle speculazioni, lo mutili e lo snaturi? neghi il carattere di verità a tutto ciò che le oltrepassa, o riconoscendo al di là da quelle qualcosa (e quanto!) a cui non può negare il carattere di verità, e di cui non sa render ragione, si dichiari nondimeno scienza compita20?
Ai precetti poi che essa sola poteva promulgare, e ai motivi che essa sola poteva rilevare, la religione aggiunge (ciò che ugualmente poteva essa sola) la cognizione di ciò che può darci la forza d’adempire i primi, e d’adempirli per riguardo e secondo lo spirito de’ secondi: cioè quella grazia che non è mai dovuta, ma che non è mai negata a chi la chiede con sincero desiderio, e con umile fiducia21. Certo, non era necessaria la rivelazione per farci conoscere che troppo spesso troviamo in noi medesimi non solo una miserabile fiacchezza, ma una indegna repugnanza a seguire i dettami della legge morale. E l’apostolo de’ gentili, dicendo: «Non fo il bene che voglio, ma quel male che non voglio, quello io fo22,» ripeteva una verità ovvia anche per loro. Ovidio aveva detto prima di lui: «Il core e la mente mi danno opposti consigli: vedo il meglio, l’approvo; e vo dietro al peggio23.» E quando l’apostolo medesimo esclama: «Infelice me! chi mi libererà da questo corpo di morte24?» si direbbe quasi che non faccia altro, che ripetere il lamento di Socrate25. Ma da qual uomo non istruito nella scola di cui Paolo fu così gran discepolo e così gran maestro, poteva uscire quella divina risposta alla desolata domanda, allo sterile lamento: «La grazia di Dio per Gesù Cristo Signor nostro26?
Principio d’irrecusabile autorità; regole alle quali si riduce ogni atto e ogni pensiero; spirito di perfezione che in ogni cosa dubbia rivolge l’animo al meglio; promesse superiori a ogni immaginabile interesse temporale; modello di santità, proposto nell’Uomo.Dio; mezzi efficaci per aiutarci a imitarlo, e ne’ sacramenti istituiti da Lui (e ne’ quali anche chi ha la disgrazia di non riconoscere l’azione divina, non può non vedere azioni che dispongono a ogni virtù), e nella preghiera, a disposizione della quale, per dir così, è messa la potenza divina da quel: Chiedete, e vi sarà dato; tale è la morale della Chiesa cattolica: quella morale che sola potè farci conoscere quali noi siamo, che sola, dalla cognizione di mali umanamente irremediabili, potè far nascere la speranza; quella morale che tutti vorrebbero praticata dagli altri, che praticata da tutti condurrebbe l’umana società al più alto grado di perfezione e di felicità che si possa conseguire su questa terra; quella morale a cui il mondo stesso non potè negare una perpetua testimonianza d’ammirazione e d’applauso.
Che, anche dopo il Cristianesimo, alcuni filosofi si siano affaticati per sostituirgliene un’altra, è un fatto pur troppo vero. Simili a chi, trovandosi con una moltitudine assetata, e sapendo d’esser vicino a un gran fiume, si fermasse a fare con de’ processi chimici qualche gocciola di quell’acqua che non disseta, hanno consumate le loro cure nel cercare una ragione suprema e una teoria completa della morale, assolutamente distinta dalla teologia: quando si sono abbattuti in qualche importante verità morale, non si sono ricordati ch’era stata loro insegnata, ch’era un frammento o una conseguenza del catechismo; non si sono avvisti che avevano soltanto allungata la strada per arrivare ad essa, e che invece d’avere scoperta una legge nova, spogliavano della sanzione una legge già promulgata27. La Chiesa non ignora i loro sforzi, e i loro ritrovati; ma è forse questo un esempio per lei? Non ha potuto altro che compiangerli e ammonirli: perchè avrebbe dovuto imitarli? La Chiesa, a cui Gesù Cristo ha consegnata una dottrina morale perfetta, non dovrà mantenersene padrona? dovrà cessare di dirgli con Pietro: Da chi anderemo? tu hai le parole di vita eterna28? dovrà cessare di ripetere che disperde chi non raccoglie con lui29? Potrà supporre un momento che ci siano due vie, due verità, due vite? Le sono stati affidati de’ precetti; e depositaria infedele, ministra diffidente, dispenserà de’ dubbi? Lascerà da una parte la parola eterna, e s’avvilupperà ne’ discorsi dell’uomo, per riuscire a trovare forse che la virtù è più ragionevole del vizio, forse che Dio dev’essere adorato e ubbidito, forse che bisogna amare i suoi fratelli? Il Verbo avrà assunta questa carne mortale, e attraversate l’angosce ineffabili della redenzione, per meritare alla società fondata da Lui un posto tra l’accademie filosofiche? La Chiesa che, co’ suoi primi insegnamenti, può innalzare il semplice, il quale ignora perfino che ci sia una filosofia morale, al più alto punto, non di questa filosofia, ma della morale medesima; a quel punto a cui si trova un Bossuet dopo aver percorso un vasto circolo di meditazioni sublimi; l’abbandonerà a sè stesso, affinchè prenda, se può, la strada del ragionamento, che può condurre a cento mete diverse? Stanco e smarrito, l’uomo si rifuggirà alla città collocata sul monte30, e questa non gli darà asilo? Affamato di giustizia e di certezza, d’autorità e di speranza, ricorrerà alla Chiesa, e la Chiesa non gli spezzerà quel pane che si moltiplica nelle sue mani? No: la Chiesa non tradisce così i suoi figli: noi non possiamo temere d’essere abbandonati da lei: non ci resta che il timore salutare che possiamo abbandonarla noi: un tal timore non deve che accrescere la nostra fiducia in Chi ci può tenere attaccati a questa colonna e fondamento della verità31. Dimentichiamo diciotto secoli di esistenza, di successione di pastori e di sommi pastori, di continuazione nella stessa dottrina: diciotto secoli ne’ quali si contano tante persecuzioni e tanti trionfi, tante separazioni dolorose e non una sola transazione: che abbiamo noi bisogno d’esperienza? I primi fedeli non l’avevano, e hanno creduto: bastò loro la parola di quel Dio per cui mille anni sono come il giorno di ieri che è passato32.
A rischio di cadere in qualche ripetizione, chiedo il permesso d’insistere un poco ancora sopra un argomento così importante.
La scienza morale puramente umana, appunto perché scienza umana, è naturalmente defettiva e incompleta. Perciò il Creatore, che abbandonò l’altre alle dispute de’ figliuoli degli uomini33, volle per questa, non dirò eminente tra tutte, ma unica; per questa che, avendo per fine, non solo d’accrescere cognizione all’intelletto, ma di dirigere la volontà in ogni suo atto, riguarda tutto l’uomo34; volle, dico, aggiungere al lume della ragione con cui l’aveva distinto da tutte le creature terrestri, un soprannaturale e positivo insegnamento; e se, riguardo all’altre scienze, gli aveva dato con la ragione medesima un mezzo di discernere, di raccogliere e d’ordinare un certo numero di verità, volle, riguardo a questa, rivelare al mondo tutta la verità35. Quindi la morale religiosa, chi non voglia negarla, non si può concepire altrimenti che come il perfezionamento della morale naturale. E appunto perchè l’illustre autore, lungo dal negare la relazione di questa con la religione, la pone espressamente, quella conseguenza viene necessariamente dalle sue parole.
Infatti, il dire che c’è un nesso intimo tra la religione e la morale, è dire (per quanto la formola sia astratta) in primo luogo, che tra di esse non c’è opposizione, giacchè nella proposizione stessa sono date implicitamente come vere tutt’e due; è dire in secondo luogo, che una di esse ha qualcosa che manca all’altra; giacchè, se comprendessero tutt’e due un ugual complesso di cognizioni morali, non sarebbe nesso, ma identità. Dicendo poi: «una di esse,» bisogna intendere una sola di esse, la quale e abbia qualcosa che l’altra non ha, e abbia tutto ciò che l’altra ha; o, in altri termini, la comprenda in sè tutta quanta; giacché, se si volesse intendere che ognuna delle due abbia qualcosa di proprio e di speciale, che manchi all’altra, s’avrebbe a supporre, o che dipendano da due diversi princìpi, il che è evidentemente falso, quando hanno lo stesso oggetto; o che non fossero se non due parti diverse, due applicazioni parziali e circoscritte e, per dir così, due diversi frammenti d’una scienza che contenesse il principio supremo della morale, e fosse insomma la vera e universale scienza della morale: supposizione, anche questa, che non si può enunciare, se non per escluderla. Per conseguenza, ciò che una di quelle due, alle quali si dà ugualmente il nome di morale, deve avere più dell’altra, è niente meno che l’integrità, l’essere completo di scienza morale: l’altra non può essere appunto, che una parte e come un frammento di questa. Il dar poi a tutt’e due ugualmente il nome di morale può essere senza errore e senza inconveniente, quando non gli si attribuisca un valore uguale ne’ due casi tanto disuguali: quando, cioè, per l’una s’intenda la collezione ordinata, ma implicitamente subordinata, d’alcune verità morali; per l’altra, la scienza perfetta e assoluta, che ne comprende l’ordine intiero. Posto ciò, che, come dicevo, discende per necessità logica da quella proposizione: c’è un nesso intimo tra la religione e la morale; a quale di queste due si dovrà egli attribuire quell’integrità, quel contener tutta l’altra, e, per conseguenza, la facoltà di darle il compimento che le manca nella cognizione umana? La risposta è troppo ovvia; poichè, independentemente da ogni esame e da ogni paragone, sarebbe assurdo a priori il supporre che Dio, con l’aggiungere all’uomo delle cognizioni soprannaturali, non gli abbia dato che una parte di ciò che gli avesse già dato interamente per mezzo della ragione, o di ciò che con questo mezzo, l’uomo potesse acquistar da sè.
Dunque una religione rivelata da Dio, impadronendosi della morale, non leva nulla alla ragione data all’uomo da quel Dio medesimo, i doni del quale non sono soggetti a pentimentonota. Non fa altro che darle, darle abbondantemente, darle il tutto, darle, in una certa maniera, anche quel tanto che essa aveva già, col renderlo compito e inconcusso. Di quelle sante e solenni parole che sono come la parte essenziale del vocabolario morale di tutti i tempi e di tutti i luoghi — giustizia, dovere, virtù, benevolenza, diritto, coscienza, premio, pena, bene, felicitànota, — nota quale, Dio bono! è stata cancellata o lasciata fuori dalla Chiesa? La Chiesa non fa altro, che aggiunger loro la pienezza e, con questo, la chiarezza e la stabilità del significato. Il mondo le ripeteva a una a una come piene di verità, con una fiducia più fondata di quello che intendesse lui medesimo; 36 37 ma, troppo spesso, in vece della naturale concordia tra le verità che quelle parole esprimono, gli pareva di vedere un contrasto doloroso, un escludersi a vicenda, e la luce d’una eclissare quella d’un’altra, o annebbiarsi scambievolmente. La scienza poi, non che comporre il dissidio e dissipare l’oscurità, l’accresceva per lo più, cambiando in altrettanti sistemi quelle triste oscillazioni delle menti, e sacrificando a una verità arbitrariamente prediletta dell’altre verità, e qualche volta impiegando tutto lo sforzo della riflessione, e l’apparato del ragionamento a negare le più nobili e le più sante. La dottrina evangelica, compimento della legge data a un popolo eletto38; questa dottrina affidata dal Messia alla Chiesa, per essere da lei conservata e predicata fino alla consumazione de’ secoli, ha rinfrancate e messe d’accordo tutte le verità morali, rivelando l’ordine intero dove appariscono, come sono, indivisibili: dimanierachè ciò ch’era un problema insolubile per i dotti, è diventata una cognizione evidente anche per gl’idioti. Dottrina, per possedere la quale, tutti coloro a cui, per inestimabile grazia è annunziata, non hanno a far altro che credere e amare. E questa credenza sia pure da alcuni chiamata cieca e materiale. Cieca e materiale credenza davvero, l’aderire con un assenso risoluto e fermo a tutte le diverse verità morali, non per quella sola luce, dirò così, parziale, con cui si presentano alla mente ciascheduna da sè, ma per la loro relazione con una verità suprema, nella quale tutte si riuniscono! Cieca e materiale credenza l’intendere che il vero male per l'uomo non è quello che soffre, ma quello che fa; e intenderlo per la cognizione d’un ordine universale, in cui tra la vera giustizia e la vera e finale felicità non ci può esser contrasto, per esser quest’ordine prestabilito dall’Essere infinitamente giusto, sapiente e potente; e il saper quindi che c’è un’armonia dove il ragionamento che si separa dalla fede non sa spesso far altro che accusare una contradizione39! Cieca e materiale credenza l’intendere che i piaceri temporali non sono veri beni; e intenderlo non solo per quella sproporzione col nostro desiderio di godere, e per quella instabilità e caducità che l’esperienza ci sforza, per dir così, a riconoscere volta per volta in ciascheduno di essi; ma per la nozione e per il paragone d’un bene perfetto e inamissibile: nozione che ha istruito l’uomo intorno alla sua intima natura più di quello che nessuna speculazione scientifica potesse mai fare; poichè, concepita l’essenza d’un tal bene, l’uomo potè intendere e, dirò così, avvedersi che solo un bene di quel genere, o piuttosto quel solo bene fuori d’ogni genere, era capace di soddisfare un essere dotato, come lui, d’intelligenza e di volontà; nozione, la quale sola può render ragione di quell’esperienza medesima, appunto perchè la trascende infinitamente! Cieca e materiale credenza quella che, facendo intendere che i beni temporali non sono il fine dell’uomo, li fa con ciò stesso conoscere come mezzi; e nella quale trovano per conseguenza una ragione evidente del pari e il giusto disprezzo e la giusta stima di essi; il procurarli agli altri, e il trascurarli per sè, quando il trascurarli sia un mezzo più conducente al fine, che il possederli; e la pazienza senza avvilimento, e l’attività senza inquietudine!
Dunque ancora, l’essere la filosofia morale distinta dalla teologia (la quale non è altro che la scienza della religione), non è punto una condizione appartenente all’essenza della morale: è solamente un fatto possibile, e troppo spesso reale. E il voler convertire un tal fatto in un principio, il volere cioè che la scienza morale deva rimanere assolutamente distinta dalla teologia, sarebbe, non dico un condannarla a rimanere in uno stato d’imperfezione, ma un costituirla nell’errore; perchè, quantunque sia possibile (giova ripeterlo) il formare coi soli elementi somministrati dalla cognizione naturale, una scienza morale mancante bensì di verità importantissime, ma immune da errori; pure l’escludere scientemente e di proposito tali verità, è già per sè un errore capitale, e è insieme una cagione perenne d’errori. Sarebbe un voler perpetuare, in mezzo alla luce del Vangelo, l’oscurità e l’incertezza del gentilesimo; e con tanto più tristo effetto, quanto il rifiutare la verità allontana da essa più che l’ignorarla.
Dunque finalmente, anche secondo i soli argomenti della ragione, la Chiesa, impadronendosi della morale40, non ha fatto altro che adempire una condizione essenziale alla vera religione. A una che si desse per tale, e non asserisse di possedere l’intera e perfetta morale, la ragione medesima potrebbe, anzi dovrebbe dire: . Quando protesti di non essere la custode perpetua, la maestra suprema della morale, non posso non crederti; perchè il non riconoscere in sè una tale autorità e il non averla, è una stessa cosa. Ma per ciò appunto non posso crederti quando pretendi d’esser la vera religione. Non posso nemmeno ammettere la possibilità di trovarti tale, quando avessi esaminati i tuoi argomenti. Per ammettere una tale possibilità, dovrei supporre dimostrabile una di due cose ugualmente assurde: o una religione priva d’una dottrina morale; o una morale rivelata da Dio, e inferiore (uguale, sarebbe assurdo in un’altra maniera) alle cognizioni e ai ritrovati degli uomini.
Dobbiamo in ultimo render conto d’un’omissione che sarà facilmente notata da’ lettori più riflessivi. Avendo in questo troppo lungo capitolo avuto a considerare la morale sotto diversi aspetti, e in diverse sue applicazioni, non abbiamo però mai fatta menzione de’ doveri dell’uomo verso Dio, i quali sono certamente una parte (lasciamo star quanta) della morale. chi non voglia dire, o che l’uomo non abbia alcun dovere verso Dio, o che ci siano de’ doveri estranei alla morale. Non occorre avvertire che non abbiamo inteso con questo d’aderire all’opinione, o piuttosto alla consuetudine non ragionata e puramente negativa, di quelli che restringono la morale alle relazioni degli uomini tra di loro. Solamente abbiamo creduto che, anche rimanendo, in quest’ordine di fatti e d’applicazioni, si potesse trattare la questione senza mutilarla; giacchè una verità, per quanto le si restringa arbitrariamente il campo, si manifesta tutt’intera all’osservazione, anche in quel piccolo spazio che le è lasciato; appunto perchè è tutta in ogni sua parte; e, se ciò non fosse, non sarebbe possibile il fare di essa la minima applicazione. Il dimostrare che le relazioni degli uomini tra di loro sono ben lontane dall’esaurire e dall’adeguare il concetto intero della moralità, avrebbe senza dubbio somministrati degli argomenti più immediati contro la proposta separazione della morale dalla teologia; ma ci avrebbe condotti ancora più in lungo, e non si sarebbe potuto fare senza ripetere cose già dette molto bene da altri. Abbiamo dunque presa la questione dov’è confinata da molti, e dove, del rimanente, era stata lasciata dall’illustre autore; e abbiamo procurato, per quanto lo permettevano le nostre forze, di far vedere come, anche nella parte che riguarda le sole relazioni degli uomini tra di loro, la morale puramente filosofica sia naturalmente defettiva; come ogni volta che cerca d’arrivare col ragionamento quella perfezione che pure la ragione intravvede, il ragionamento, dopo inutili sforzi, vada, per dir così, a morire in un desiderio, e come questo giusto e nobile desiderio sia appagato dalla morale rivelata, e non lo possa essere che da questa; come il concetto della più eminente virtù dell’uomo verso gli uomini trovi la sua desiderata e manifesta ragione nel regno di Dio e nella sua giustizia41. Perfino il nome non l’ha se non in questa dottrina quella virtù medesima, quand’è eminente davvero. Non già un nome tutto suo, fatto per essa, e proprio esclusivamente di essa. Sarebbe poca cosa, e non potrebbe significar nulla d’eminente; poichè il suo concetto, non riferendosi che agli uomini, rimarrebbe necessariamente circoscritto ne’ limiti di quest’oggetto medesimo, e non anderebbe al di là di ciò che agli uomini può esser dovuto per la loro natura. Quello che una tal virtù riceve dalla dottrina evangelica è il nome sovrumano di Carità, il quale, unendo con l’amor di Dio l’amor degli uomini, lo fa in qualche maniera partecipare della ragione infinita di quello; nome che contempla in essi, non la sola natura quale si può riconoscere per mezzo della ragione: ma l’origine, che li fa essere figlioli di Dio; ma l’umanità assunta dal Verbo, che li fa essere fratelli di Gesù Cristo; ma la natura medesima quale è interamente manifestata dalla fede, e che li fa essere a immagine e similitudine dell’ineffabile Trinità. L’Uomo Dio ha detto: «Ogni volta che avete fatto qualche cosa per uno de’ più piccoli di questi miei fratelli, l’avete fatta a me42.» Quale filosofia avrebbe mai potuto scoprire nel bene fatto agli uomini un tal valore, promettergli una tale riconoscenza?
- ↑ Euntes ergo docete omnes gentes.... docentes eos servare omnia quaecumque mandavi vobis., Matth. XXVIII., 19, 20.
- ↑ Esprit des Loix, liv. XXIV, chap. I.
- ↑ Danger des entretiens des hommes, première partie, chap. V
- ↑ Il lettore intenderà che la parola legge è qui impiegata a significare, non ciò che si deve fare, ma ciò che gli uomini, generalmente parlando (se non sono sostenuti da un principio e da una forza soprannaturale), fanno così certamente, come se ci fossero astretti da una legge. Una splendida eccezione a questa sono i primi cristiani, i quali, in faccia alla persecuzione, seppero unire, in un grado mirabile, sincerità, pazienza e resistenza. Che sapienza divina nel precetto di fuggire dalle persecuzioni! Siccome non si poteva uscirne che con la morte o con l’apostasia, così l’uomo non doveva esporsi a una prova tanto superiore alle sue forze ma doveva sostenerla, quando fosse inevitabile. Non si sarebbe potuto immaginare un disegno che, secondo la prudenza mondana, desse meno speranza di riuscita, di quello che escludeva i vantaggi dell’audacia e quelli della destrezza, i vantaggi che vengono dal transigere, dal pigliar tempo, dall’ingannare chi vuole opprimere. La regola del cristianesimo non lasciava a’ suoi difensori, quand’erano in presenza del nemico, altra scelta che quella di morire senza fargli danno. Certo, ogni saggio mondano avrebbe pronosticato che una tale religione, doveva rovinare infallibilmente e in poco tempo, meno che i suoi partigiani, avendo imparato subito, a loro spese, a conoscere un po’ più gli uomini, non cambiassero il metodo di propagarla. Il mirabile è che si stabilì e si diffuse con la fedeltà a quelle prescrizioni.
- ↑ Questo capitolo era già steso quando seppi che la stessa questione era stata recentemente discussa da un rispettabilissimo apologista della religione (Analisi ragionata de’ sistemi e de’ fondamenti dell’ateismo e dell’incredulità, Dissertazione VI, cap. II). Nondimeno ho creduto bene di lasciarlo tale quale, non importando di trattar cose nove, ma cose opportune; e sono sempre tali quelle che riguardano un punto contrastato posteriormente da uno scrittore distinto
- ↑ Saggio sull’intelletto, lib. I, cap. II. Dopo il Locke, si volle, da questi fatti e da altri di simil genere, cavare una tutt’altra conseguenza, cioè che la moralità stessa sia una cosa di mera convenzione. L’Helvetius ne citò anche di più, per provare che, in tutti i secoli e ne’ diversi paesi, la probità non può essere altro che l’abitudine dell’azioni utili alla propria nazione. Disc. II, tap. XIII. Qualche scrittore, insorgendo, con ragione e con dignità, contro questo sofisma, che confonde l’idea della giustizia con l’applicazione di essa, parve quasi disapprovare la ricerca stessa di questi fatti. Philosophie de Kant, par C. Villers, pag. 378; e più espressamente Mad. de Staël; De l’ Allemagne, troisième partie, chap. 2: Qu’est-ce donc qu’un système qui inspire à un homme aussi vertueux que Locke de l’avidité pour de tels faits? Ma s’avvide subito essa medesima che questa non era un’obiezione; e difatti soggiunge: Que ces faits soient tristes ou non, pourra-t-on dire, l’important est de savoir s’ils sont vrais. Così è: l’unica cosa che si deve cercare ne’ fatti è la verità: chi ha paura d’esaminarli dà un gran segno di non esser certo de’ suoi princìpi. Ma, segue la celebre donna: Ils peuvent être vrais, mais que signifient ils? Significano che non c’è alcuna nozione di morale, innata nella mente umana; e contribuiscono a provare che non c’è in essa, nozione innata di sorte veruna. E se il Locke si fosse ristretto a combattere la supposizione contraria, avrebbe reso un servizio, non definitivo, di certo, ma importante, giacché non ci sono errori innocui in filosofia, e in morale specialmente; e il ritorno dall’errore all’ignoranza è un progresso. Ma, come oramai tutti ne sono d’accordo, il Locke non combatte quell’errore, che per sostituirgliene uno peggiore di molto; e è cosa ugualmente riconosciuta, che quella spropositata sentenza dell’Helvetius veniva senza sforzo dal principio posto da quello; per quanto si può chiamar principio un’ipotesi negativa e espressa con una metafora. E a questo proposito, mi si permetta un’osservazione non richiesta dall’argomento, ma brevissima, e intorno a un fatto che può parer singolare: ed è che i discepoli del Locke, i quali gridarono tanto contro i sistemi fondati su delle ipotesi, non abbiano badato che il loro maestro aveva prese le mosse da un «Supponiamo» (Let us then suppose). E cosa s’aveva a supporre? «Che la mente sia, come a dire, un foglio bianco, privo d’ogni carattere, senza idea veruna» (the mind to be, as we say, white paper, void of all characters, without any ideas). Ma per far davvero una tale supposizione, cioè per averne il concetto, e non una sola forma verbale, era necessario sapere cosa s’intendesse per mente; come, per supporre un foglio di carta privo di caratteri, é necessario (cosa del resto facilissima) sapere cosa s’intenda per foglio di carta; giacché, come concepire che sia nè fornito, nè privo d’una cosa qualunque, ciò che non si sa cosa sia? Ora, cos’è la mente priva di qualunque idea? A questo non pensò il Locke, parendogli che bastasse il vocabolo. Donde vengono alla mente tante idee? domanda poi a sè stesso; e risponde in una parola: «dall’esperienza» To this I answer in one word, from experience (Saggio sull’íntelletto umano, lib. II, tap. I). Ma, di novo, per intendere come la mente acquisti ogni idea dall’esperienza, bisogna sapere cosa sia la mente, quando fa il suo primo atto d’esperienza. E di questo, nulla. Quindi la proposizione del Locke equivale a quest’altra: In quella maniera che concepite un foglio di carta privo di caratteri, sapendo benissimo cosa sia un foglio di carta, dovete poter concepire cosa sia una mente priva d’ogni idea, senza sapere, nè cercare cosa sia una mente. Dico: senza saperlo: e il Locke medesimo lo confessa implicitamente; giacchè, se avesse creduto che dovesse essere una cosa nota, non avrebbe detto: supponiamola. La mente è per lui un non so che, del quale si potrà ragionar con fondamento, quando s’aggiunga che in questo non so che non c’è niente: un’incognita, più il nulla. E siccome, in quel soggetto incognito, le prime idee, secondo gli esperimenti del Locke, erano prodotte e formate dalle sensazioni d’oggetti materiali, così non c’è da maravigliarsi che de’ seguaci di quel filosofo, pensando (con ragione, ma troppo tardi) che si doveva pure cercare quale fosse quest’incognito soggetto dell’idee, abbiano creduto di trovarlo in un organo del corpo umano. È bensì un fatto memorabile, e utile a rammemorarsi spesso, che abbia potuto regnare in tanta parte d’Europa, per tanto tempo, e con tanto vari e vasti effetti, un sistema fondato sopra un’ipotesi negativa e verbale, fatta parer positiva e intelligibile da una metafora viziosa.
- ↑ Ne citerò due esempi, e perchè d’uomini tra i più illustri del gentilesimo, e perchè forse non abbastanza notati. Cicerone il quale, nel celebre passo dove descrive l’atroce supplizio inflitto da Verre a P. Gavio (in Verr. Act. II, lib. V, 61 et seq.), non sa vedere altra dignità offesa, altra persona straziata, che quella d’un cittadino romano, ci ha lasciato, in una delle sue lettere, un saggio ancor più tristo e più aperto, d’indifferenza per l’avvilimento e per gli strazi dell’uomo come uomo. Dico quella lettera dove loda il suo paesano M. Mario di non aver fatto il viaggio di Roma, per vedere gli spettacoli dati da Pompeo, nel suo secondo consolato. E tra gli altri, parla delle cacce (venationes); giacché con questo nome chiamavano anche quelle che si facevano, o, per dir meglio, si facevano fare, non contro le bestie, ma tra bestie e schiavi, per vedere chi la vinceva e chi ci rimaneva. «Magnifiche,» dice, «nessuno lo nega; ma che piacere può trovare un uomo d’un gusto scelto, nel vedere un uomo, così inferiore di forze, sbranato da una robusta fiera, o una superba fiera trafitta da uno spiedo? Cose che, se pure si devono vedere, l’hai viste abbastanza: noi che l’abbiamo viste anche in quest’occasione, non ci abbiamo trovato nulla di novo.» Reliquae sunt venationes binae per dies quinque, magnificae, nemo negat. Sed quae potest homini esse polito delectatio, quum aut homo imbecillus a valentissima bestia laniatur, aut praeclara bestia venabulo transverberatur? quae tamen, si videnda sunt, saepe vidisti; neque nos qui haec spectavimus, quidquam novi vidimus (Epist. 126). Davvero, tra l’avidità d’una moltitudine per un tale spettacolo, e la sazietà degli uomini colti, che lo trovavano insipido, si può dubitare quale indichi un più abietto e crudele pervertimento del senso morale. L’altro è un fatto di Catone, quando s’era già condannato a morte, e nel momento che aveva finito di leggere, con tanto profitto, il Fedone. Avendo domandato a un servo, dove fosse la sua spada (che il figlio gli aveva portata via di nascosto), e non essendogli data risposta, aspettò un poco; e poi, dice Plutarco, «chiamò un’altra volta ad uno ad uno i suoi servi, e alzando maggiormente la voce, chiedea pur la spada; e ad uno di essi diede anche un pugno su la bocca con tanta forza, che ne riportò insanguinata la mano.» (Vita di Cat., trad. del Pompei). E s’ammazzava per non poter sopportare la superiorità (un po’ meno esorbitante davvero) che Cesare voleva arrogarsi sopra di lui! É però da credere che, passato quel primo bollore, il celebre stoico sarebbe stato disposto a riconoscere una qualche colpa in quel suo atto brutale; ma per la sola ragione, che il sapiente non va in collera: Numquam sapiens irascitur, come Cicerone fa dire a lui medesimo (pro L. Murena, 30).
- ↑ Di tempo in tempo escono poi fuori degli scrittori che mettono in ridicolo queste discussioni: cosa tanto più facile, quanto esse s’attaccano da una parte a sistemi particolari di scole diverse, e più o meno ristretta, e dall’altra ai sentimenti più intimi dell’uomo: due gran fonti di ridicolo per un gran numero d’uomini colti. Il frasario stesso de’ vari sistemi somministra agli scrittori burleschi de’ materiali da mettere in opera senza grande studio. In ogni sistema, a misura che si classificano più idee, diventa o pare necessario inventare de’ termini per nominare quelle classi, e per significare le loro relazioni. Questi vocaboli lontani dall’uso comune, ripetuti spesso dai filosofi per supplire a un periodo, e qualche volta a un trattato, e ripetuti per lo più con importanza, perchè rappresentano le idee cardinali del sistema; questi vocaboli soli, accumulati in uno scritto scherzevole, bastano a far ridere migliaia di lettori. Nulla serve di più a far ridere gli uomini d’una cosa, che il ricordar loro, che per altri uomini quella cosa è seria ed importante: poichè ad ognuno pare un segno evidente della propria superiorità l’esser divertito da ciò che occupa e domina le menti altrui. Lo spettatore del Mariage forcé, smascellandosi dalle risa agli argomenti di Pancrazio, sulla forma e sulla figura, si sentiva come sollevato al disopra di tutta la schiera de’ peripatetici. Ciò si vede ogni giorno, anche nelle relazioni ordinarie, e tra gli uomini d’ogni ceto, dove, quando si sappia che uno abbia un’affezione particolare a un’idea, gli altri si servono di quella per farsi beffe di lui, o contradicendolo, o secondandolo, ma sempre in maniera che quella sua affezione si mostri al massimo grado: e quest’usanza si può benissimo combinare con l’urbanità, la quale, separata dalla carità religiosa, è piuttosto le leggi della guerra, che un trattato di pace tra gli uomini. Dalle Nubi fino al Fausto i sistemi de’ filosofi sulla parte morale e intellettuale dell’uomo sono sempre, o al loro apparire o col tempo, caduti nelle mani di scrittori, comici; e il sentimento eccitato da questi è stato o gaio, o derisorio, o anche penoso, secondo che hanno più fatta risaltare la vanità de’ sistemi particolari, o la vanità terribile della mente umana; il che è dipenduto dalla malignità, dalla vivacità o dalla profondità del genio de’ diversi scrittori. Quando le parole tecniche d’un sistema sono state messe in burla da uomini d’ingegno, pochi ardiscono più adoprarle sul serio, e le questioni paiono finite; ma riprincipiano sotto altri nomi. C’è nell’uomo un desiderio di conoscere la propria natura, di trovare una ragione de’ suoi sentimenti, che non s’accheta con delle facezie
- ↑ Lo scrittore anonimo della vita dell’Helvetius, dopo aver parlato d’alcuni suoi tratti di beneficenza, riferisce che disse al suo cameriere, il quale n’era testimonio: Vi proibisco di raccontare ciò che avete veduto, anche dopo la mia morte. Questo scrittore non rammenterebbe una tale circostanza, se non credesse che la volontà di nascondere i benefizi che si fanno è una disposizione virtuosa. Lo è senza dubbio; ma nel sistema di quel filosofo è impossibile classificarla tra le virtù.
- ↑ Beati pauperes spiritu, quoniam ipsorum est regnum coelorum., Matth. V, 3
- ↑ Cum autem venerit Filius hominis in maiestate sua, et omnes angeli cum eo, tunc, sedebit super sedem maiestatis suae...., Ibid. XXV, 31 et seq.
- ↑ Deum nemo vidit unquam: unigenitus Filius, qui est in sinu Patris, ipse enarravit., Ioan. I, 18.
- ↑ Estote ergo vos perfecti, sicut et Pater vester coelestis perfectus est., Matth. V, 48.
- ↑ Ut sint uni, sicut et nos unum sumus., Ioan. XVII, 22
- ↑ Petite, et dabitur vobis., Luc. XI, 9.
- ↑ Haec locutus sum vobis, ut in me pacem habeatis. In mundo pressuram habebitis; sed confidite, ego vici mundum., Ioan. XVI, 33.
- ↑ Pater tuus, qui videt in abscondito, reddet tibi., Matth. VI, 4.
- ↑ Merces vestra copiosa est in coelis., Id. V, 12
- ↑ Beati qui esuriunt et sitiunt justitiam, quoniam ipsi saturabuntur., Ibid. 6. Intorno a questo speciale carattere della ricompensa promessa dal Redentore, avremo occasione di dir qualcosa più in particolare nel Cap. XV.
- ↑ Il filosofo che ha data alla morale razionale la forma rigorosa di scienza, dimostrando la sua derivazione da una legge evidente e illimitatamente applicabile, e dimostrando di più il nesso naturale e necessario di questa legge col principio supremo e universale d’ogni verità (Rosmini, Princìpi della scienza morale), è anche quello che, con un’altezza e vastità d’argomenti dalla quale sono troppo lontani questi nostri cenni, ha dimostrata la deficienza naturale di questa scienza riguardo all’idea intera e perfetta della moralità, e la sua implicita dependenza dalla morale soprannaturale e rivelata, nella quale sola può trovare il suo compimento. Le quali due conclusioni, cioè verità e imperfezione della morale naturale, non che contradirsi, sono intimamente connesse e dedotte da uno stesso principio; giacchè, è appunto per mezzo dell’idea intera e perfetta della moralità quale c’è manifestata dalla rivelazione, che si dimostra come la morale naturale ne sia e un’applicazione legittima, e un’applicazione inadequata e tronca. V. specialmente la Teodicea e l’Introduzione alla filosofia (I, II, III e IV); e per l’uno e l’altro argomento, la Storia comparativa de’ sistemi intorno al principio della morale, del medesimo autore.
- ↑ ... quanto magis Pater vester de coelo dabit spiritum bonum petentibus se?, Luc. XI, 13
- ↑ Non enim quod volo bonum, hoc facio; sed quod nolo malum; hoc ago., Ad Rom. VII, 19
- ↑
...aliudque cupido
Mens aliud suadet: video meliora proboque;
deteriora sequor., Metam. VII, 19 et seq. - ↑ Infelix ego homo! Quis me liberabit de corpore mortis huius?, Ad Rom. VII, 24.
- ↑ Donec corpus habemus, animusque poster tanto malo erit admixtus, etc., Plat., Phæd.
- ↑ Gratia Dei per Jesum Christum Dominum nostrum., Ad Rom. VII, 25.
- ↑ Chi non riflettesse che le scienze morali non seguono la progressione dell’altre, perchè non sono dipendenti dal solo intelletto, nè propongono di quelle verità che, riconosciute una volta, non sono più contrastate, e servono di scala ad altre verità, non saprebbe spiegare come la dottrina dell’Helvetius sia potuta succedere in Francia a quella de’ gran moralisti del secolo decimosettimo. Stupito di vedere una scienza andare o piuttosto saltar così all’indietro, non saprebbe, delle due maniere di renderne ragione, quale ammettere come la meno strana: o che l’Helvetius, moralista di professione, non si fosse curato d’informarsi dello stato della scienza, e dell’opinioni di scrittori rinomatissimi e recenti; o che, leggendo le loro opere, non avesse veduto che le questioni che metteva in campo erano già completamente sciolte, e che la soluzione era sempre quella ch’egli doveva trovare la più nobile e la più utile, quella che avrebbe desiderato che ognuno adottasse nelle sue relazioni con lui; non avesse veduto come in que’ libri tutto concordi con la cognizione che l’uomo ha di sè stesso, come i principi siano senza eccezione di tempi o di persone, come la perfezione sia ragionata; come la scienza abbia bisogno della rivelazione, non solo per sciogliere i più alti problemi della morale, ma per porli adequatamente. A proposito di questo scrittore, ci si permetta di notar qui incidentemente una strana parzialità di giudizi. Il Pascal, per avere, in quegli staccati e preziosi appunti, a cui fu dato il titolo di Pensieri, osservati profondamente i mali dell’uomo, è stato le tante volte tacciato d’atrabiliario; e questa taccia non è forse mai stata data all’Helvetius che rappresenta la natura umana sotto l’aspetto il più tristo e desolante. Parzialità tanto più strana in quanto il Pascal, in quelle pagine, non respira che compassione di sè e degli altri, rassegnazione, amore, e speranza; egli riposa ogni tanto con gioia e con calma nel cielo lo sguardo turbato e confuso dalla contemplazione dell’abisso del core umano guasto com’è dalla colpa originale; e le riflessioni dell’Helvetius sono spesso amare, iraconde, insofferenti o d’una crudele festività. L’autore de’ Pensieri è atrabiliario perchè dimostra la necessità di rimedi che ci dispiacciono più de’ mali: l’autore dello Spirito cerca a ogni inconveniente morale una causa estranea; in vece d’urtare le passioni, le lusinga, insegnando a ognuno a attribuire i vizi alla necessità o all’ignoranza altrui, e non alla propria corruttela. È stato detto più volte, che il Pascal deprime troppo la ragione umana, e qualche volta pare fino che le neghi ogni autorità, per far più sentire la necessità della fede. E quando pure questa critica abbia un qualche ragionevole motivo, cosa si sarebbe poi dovuto dire di chi, esaltando in apparenza questa ragione, col dichiararla il solo e sovrano giudice della verità, e non trovando però la maniera di spiegare per mezzo di quella i più nobili e anche i più universali sentimenti dell’uomo, la degrada fino a darle l’incarico, grazie al cielo, ineseguibile, di dimostrarli insussistenti.
- ↑ Domine, ad quem ibimus? verba vitae aeternae habes., Ioan. VI, 69
- ↑ Qui non colligit mecum, dispergit., Luc. XI, 23
- ↑ Non potest civitas abscondi sopra montem posita., Matth. V, 14
- ↑ Ecclesia Dei vivi, columna et firmamentum veritatis., 1 ad Timoth. III, 15.
- ↑ Quoniam mille anni ante oculos tuos tamquam dies hesterna quae praeteriit., Ps. LXXXIX, 4
- ↑ ...mundum tradidit disputationi eorum., Eccles III, 11.
- ↑ Deum time, et mandata eius observa: hoc est enim omnis homo., Ibid. XII; 13.
- ↑ Cum autem venerit ille Spiritus veritatis, docebit vos omnem veritatem., Ioan. XVI, 13.
- ↑ Sine poenitentia enim sunt dona et vocatio Dei., Ad Rom. XI, 29.
- ↑ Non ho citata, tra queste, la parola «libertà» o «libero arbitrio» perchè, quantunque il suo significato sia essenzialissimo al concetto della morale, è parola più della scienza, che dell’uso comune. Questo fa, se è possibile, più che pronunziarla, col sottintenderne il valore in ogni approvazione, in ogni biasimo, in ogni giudizio sul merito e sul demerito di qualunque azione e affezione umana. Essendo questa libertà un fatto noto per intima esperienza, l’uomo non scienziato non s’immagina neppure che alcuno lo possa mettere in dubbio; e quindi non ha il bisogno nè l’occasione di rappresentarselo alla mente in astratto, e di nominarlo. E come mai potrebbe immaginarsi una cosa simile, quando sente tutte le persone con cui gli occorre di tener discorso, esprimere, secondo il caso, o l’approvazione, o il biasimo, giudizi che implicano la libertà della scelta? Come potrebbe indovinare che tra quelle persone (giacchè coloro che negano il libero arbitrio, fanno in ciò nè più nè meno degli altri) ce ne siano alcune che tengono una dottrina, secondo la quale ogni approvazione e ogni biasimo sarebbe un giudizio assurdo per sè, e independentemente dalla qualità del caso? La libertà dell’arbitrio è da quell’uomo sottintesa ogni volta ch’egli esprime un giudizio morale: tant’è vero, che se, dopo aver qualificata di scelleratezza un’azione che senta raccontare, gli viene assicurato che l’autore di quella è un pazzo, muta subito il giudizio e il vocabolo, e la chiama disgrazia. Figuriamoci se gli potrebbe venir in mente che ci siano di quelli che, riguardo alla moralità, non ci mettono differenza.
- ↑ Nolite putare quoniam veni solvere legem aut prophetas: non veni solvere, sed adimplere. Matth. V, 17.
- ↑ La contradizione c'è bensì in quest'accusa medesima, poichè è fondata su due supposizioni opposte tra di loro, e insieme necessarie all'assunto: cioè che l'ordine morale, relativamente all'uomo, si deva compire in questa vita, e che tutto per l'uomo finisca con la morte. Dico necessarie all'assunto; giacchè, se s'ammette che l'ordine morale non si compisca che al di là di questa vita, e che, per conseguenza, tutto non finisca con la morte, l'accusa cade da sè. Dico poi, supposizioni che, oltre all'essere totalmente arbitrarie, si contradicono. Infatti, il supporre un ordine compito in questa vita, è supporre che l'uomo la passi tutta, non solo nell'integrità dell'innocenza, ma nel perfetto esercizio della virtù; e d'altra parte, il supporre che per l'uomo tutto finisca con la morte, è supporre che quest'uomo, dotato com'è di mente e di volontà e, per una conseguenza necessaria, d'un amore intelligente e illimitato del proprio essere, ne sia spogliato in un dato momento: cioè riceva la più ineffabile pena, in uno stato d'innocenza e di virtù. Non si può negare più apertamente di quello che faccia questa seconda supposizione, l'ordine che è l'oggetto della prima. È poi, nello stesso tempo, la più dimessa confessione d'ignoranza, e la più altera pretensione di sapienza, il dire che non s'intende punto come l'ordine ci sia, e che s'intende benissimo come ci potrebb'essere.
- ↑ L’illustre autore, dopo aver detto: L’Église s’empara de la morale, aggiunge: comme étant purement de son domaine: parole che non esprimono esattamente la dottrina cattolica, e perciò richiedono un’osservazione. La Chiesa non dice che la morale appartenga puramente (nel senso d’esclusivamente) a lei; ma che appartiene a lei totalmente. Non ha mai preteso che, fuori del suo grembo, e senza il suo insegnamento, l’uomo non possa conoscere alcuna verità morale: ha anzi riprovata quest’opinione più d’una voltar perchè è comparsa in più d’una forma. Dice bensì, come ha detto e dirà sempre, che, per l’istituzione che ha avuta da Gesù Cristo, e per lo Spirito Santo mandatole in suo nome dal Padre, essa sola possiede originariamente e inamissibilmente l’intera verità morale (omnem veritatem), nella quale tutte le verità particolari della morale sono comprese; tanto quelle che l’uomo può arrivare a conoscere col semplice mezzo della ragione, quanto quelle che fanno parte della rivelazione, o che si possono dedurre da questa; come fa la Chiesa stessa, con assoluta autorità, nelle nove decisioni che siano richieste da novi bisogni; e come si fa nella Chiesa, con autorità condizionata e sottomessa, da quelli che hanno da essa l’incarico d’istruire i fedeli nella legge di Dio; e come si fa anche da’ semplici fedeli medesimi, senza autorità, ma senza usurpazione, quando riconoscano questa mancanza in loro d’ogni autorità, e abbiano l’intenzione sincera di non dipartirsi dagl’insegnamenti della Chiesa, e di sottomettersi in ogni caso a ogni sua decisione.
- ↑ Quaerite primum regnum Dei, et iustitiam eius: et haec omnia adiicentur vobis. Matth. VI, 33
- ↑ Quamdiu fecistis uni ex his fratribus meis minimis, mihi fecistis. Matth. XXV, 40.