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CAPITOLO DECIMONONO
Aussi seroit-il impossible de dire à quel degré une fausse instruction religieuse a été funeste à la morale en Italie. Il n’y a pas en Europe un peuple qui soit plus constamment occupé de ses pratiques religieuses, qui y soit plus universellement fidèle. Il n’y a pas un qui observe moins les devoirs et les vertus que prescrit ce christianisme auquel il paroit si attaché. Chacun y a appris non point a obéir à sa conscience, mais à ruser avec elle; chacun met ses passions à leur aise par le bénéfice des indulgences, par des réservations mentales, par le projet d’une pénitence, et l’espérance d’une prochaine absolution; et loin que la plus grande ferveur religieuse y soit une garantie de la probité, plus on y voit un hornme scrupuleux dans ses pratiques de dévotion, plus on peut à bon droit concevoir contre lui de défance. Pag. 421-422.
Ecco in poche parole una condanna tanto assoluta, quanto forte. Il popolo italiano è il meno fedele ai doveri e alle virtù del cristianesimo, e quindi il peggior popolo d’Europa. E in esso i peggiori sono quelli che osservano più scrupolosamente le pratiche di divozione.
Come s’è accennato fino dal principio, non è nostra intenzione di confutare un tal giudizio, nè di far l’apologia dell’Italia, e molto meno un’apologia comparativa: assunto d’un genere che richiede o piuttosto richiederebbe due condizioni, una delle quali difficilissima, per non dire impossibile, cioè la cognizione de’ fatti necessaria al confronto; l’altra, difficile anch’essa non poco, se si deve argomentare da quello che si vede, cioè l’imparzialità necessaria al giudizio. Si potrebbe, con molto maggior facilità, e senza metterci nulla del nostro, opporre affermazioni a affermazioni, sentenze a sentenze, raccogliendo anche una piccola parte di quelle che da scrittori di ciascheduna parte d’Europa sono state pronunziate contro ciaschedun’altra. Qual è la qualità bassa, ridicola, scellerata, che non sia stata attribuita o all’una o all’altra, o anche a ognuna? Qual è il termine di disprezzo, la formola d’esecrazione, che non sia stata adoprata a un tal uso? Qual è il popolo d’Europa, che non sia stato qualche volta, e più d’una volta, chiamato il peggio d’Europa? Ma il cielo ci guardi dal rimestare una materia simile. Sono giudizi suggeriti dalle passioni; e tra queste, anche quando non è l’unica, ha sempre una bona parte l’orgoglio, che ci fa trovare la nostra esaltazione nell’abbassamento altrui: tanto sente, suo malgrado, il bisogno di cercar qualche aiuto al di fuori. Lasciamo questi giudizi, così vasti e così turbolenti per noi, e ne’ quali siamo sempre giudici non abbastanza informati, e quasi sempre parte appassionata, lasciamoli a Quello che, conoscendo ogni cosa, e non avendo bisogno d’innalzarsi per mezza de’ paragoni, nè d’accattar lustro da nessuna compagnia, giudica i popoli nell’equità1.
Del resto, il giudizio di cui si tratta qui specialmente, è espresso in termini tali, che l’accettarlo qual è sarebbe, di certo, oltrepassar l’intenzione dell’autore. Perchè, di certo, dicendo che, «in Italia ognuno ha imparato, non a ubbidire alla sua coscienza, ma a giocar d’astuzia con essa; che ognuno mette al largo le sue passioni col comodo dell’indulgenze, con delle restrizioni mentali, con de’ progetti di penitenza, e con la speranza d’una prossima assoluzione,» non ha voluto dire ciò che dicono queste parole. Non ci sarebbe tra di noi uno solo che ubbidisca sinceramente alla sua coscienza! Nessuno di noi potrebbe sperare d’avere un amico virtuoso, d’esserlo lui medesimo! E le gioconde emozioni della stima e della fiducia, e la gioia che è dato all’uomo di provare, allorchè, stringendo la mano dell’uomo, sente con sicurezza che un core risponde al suo, non sarebbe concessa a nessuno di noi! Nel passo medesimo che precede immediatamente quello che stiamo esaminando, si troverebbero, se ce ne fosse bisogno, parole che non permettono d’intendere, senza contradizione, quest’ultime nel loro significato proprio e naturale. Il dire che tra i cattolici d’Italia, «anche l’uomo che è stato veramente e puramente virtuoso, non saprebbe rendersi conto delle regole che s’è imposte,» è dire indirettamente, ma espressamente, che, anche in Italia, e tra i fedeli scrupolosi d’Italia, ci può essere, se Dio vuole, qualche uomo veramente e puramente virtuoso, e del quale, per conseguenza, sarebbe troppo strano che s’avesse ragione di diffidare in un grado speciale.
Ma ciò che importa non è di vedere qual sia, secondo una o un’altra opinione, lo stato morale dell’Italia, in paragone di quello degli altri popoli d’Europa. Ciò che importa o, possiam dire, ciò che importava, era di vedere se, di quel tanto o quanto male morale che c’è sicuramente in Italia, cioè anche in Italia, sia stata cagione un’influenza ciale della religione cattolica. Ora, in questo forse troppo lungo esame, abbiamo visto che, delle dottrine citate come cagione dell’asserito speciale pervertimento,
1.° alcune, veramente opposte alla morale, non hanno, nè ebbero mai corso in Italia, nulla più che tra i cattolici dell’altre nazioni;
2.° altre, che furono e sono insegnate in Italia, lo furono e lo sono ugualmente in tutti i paesi cattolici, come parte essenziale di questa, religione. E abbiamo veduto che queste sono consentanee al Vangelo, e, per natural conseguenza, consentanee insieme e superiori alla ragione. Sull’autorità della religione in punto di morale, sulla distinzione dei peccati in mortali e veniali, sulla dottrina e sulle forme della penitenza, sull’efficacia del pentimento, sulla forza e sulla sanzione de comandamenti della Chiesa, sui motivi dell’elemosina, sull’astinenza, sull’umiltà, su tutti i punti insomma, ch’erano allegati come prova di differenza, l’esame ci ha fatto trovare unità di fede e d’insegnamento.
E torna qui a proposito il rammentare una cosa che s’è accennata da principio, cioè che, nel testo medesimo che abbiamo esaminato, la cagione di quello speciale pervertimento, è attribuita, più d’una volta, non già a dottrine particolari all’Italia, ma alla Chiesa nominatamente. «La Chiesa,» è detto in quello, «s’impadronì della morale, come di cosa tutta sua, e sostituì l’autorità de’ suoi decreti e le decisioni de’ Padri ai lumi della ragione e della coscienza, lo studio de’ casisti a quello della filosofia, un’abitudine servile al più nobile esercizio dello spirito. La Chiesa collocò i suoi precetti accanto alla gran tavola delle virtù e de’ vizi... e diede loro un potere, che le leggi della morale non poterono ottener mai.» Accuse, delle quali, con poverissime forze, ma col potentissimo aiuto della verità, abbiamo cercato di far vedere l’insussistenza: ma che, anche senza essere esaminate, si manifestano da sè come incapaci di dimostrare l’effetto speciale e d’eccezione, ch’era proposto a dimostrare. Il resto poi della colpa è attribuito quasi sempre ai casisti; i quali non sono certamente la Chiesa, ma non sono nemmeno una classe d’uomini particolare all’Italia.
E in quanto agli abusi nell’applicazione della dottrina cattolica, che possono esistere in Italia, abbiamo visto che non vengono dall’insegnamento, poichè questo non è altro che l’insegnamento cattolico; il quale li denunzia e li combatte, e gli avrebbe levati di mezzo affatto e per sempre, se l’uomo non avesse il terribile potere d’alterare a sè stesso la verità, e di piegar le dottrine alle passioni. E abbiamo visto che, gli abusi, come vengono da queste cagioni, umane pur troppo e non italiane, così è stato e è necessario di denunziarli e il combatterli in altri paesi cattolici; e che il rimedio a questo, come a tutti i mali morali, è per tutti la cognizione della dottrina, e l’amore di essa, che è il mezzo sicuro d’intenderla rettamente.
- ↑ Quoniam judicas populos in æquitate. Psalm. LXVI, 5