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88 | Atto Quinto. |
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Quando ci trasse gli occhi ad alto un grido:
E’l veder rovinar un’huom dal sommo,
E’l vederlo cader sovra una macchia,
Fù tutto un punto. Sporgea fuor del colle
Poco di sopra à noi d’herbe, e di spini,
E d’altri rami strettamente giunti,
E quasi in un tessuti, un fascio grande.
Quivi, prima che urtasse in altro luogo,
A cader venne: e, bench’egli co’l peso
Lo sfondasse, e più in giuso indi cadesse,
Quasi su’ nostri piedi, quel ritegno
Tanto d’impeto tolse à la caduta,
Ch’ella non fù mortal; fù nondimeno
Grave così, ch’ei giacque un’hora, e piue,
Stordito affatto, e di se stesso fuori.
Noi muti, di pietate, e di stupore,
Restammo à lo spettacolo improviso,
Riconoscendo lui: ma, conoscendo,
Ch’egli morto non era, e che non era
Per morir forse, mitighiam l’affanno.
All’hor Tirsi mi diè notizia intiera
De’ suoi secreti, et angosciosi amori.
Ma, mentre procuriam di ravvivarlo
Con diversi argomenti, havendo in tanto
Già mandato à chiamar Alfesibeo,
A cui Febo insegnò la Medica arte,
Allhor che diede à me la cetra, e’l plettro,
Sopragiunsero insieme Dafne, e Silvia,
Che (come intesi poi) givan cercando
Quel corpo, che credean di vita privo.
Ma, |
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