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252 elegia quinta.

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9Crescon i fiumi al par delle lor rive;
  Ed alcun, dispregiando ogni confine,
Rompe superbo gli argini, ed inonda
12Le biade, i paschi e le città vicine:
  Così, quando soverchia e sovrabbonda
A quanto cape e può capire il petto,
15Convien che l’allegrezza si diffonda,
  E faccia rider gli occhi, e nell’aspetto
Gir con baldanza, e d’ogni nebbia mostri
18L’aër del viso disgravato e netto.
  Come si fan con lor mordaci rostri
Gl’ingrati figli porta per uscire
21Degli materni viperini chiostri;
  Di nascer sì gli affretta il fier desire,
Che non attendon che la madre grave
24Possa l’un dopo l’altro partorire:
  Così li gaudî miei, ch’in le più cave
Parti posi di me, per tener chiusi,
27Negan star più sotto custodia e chiave;
  Tentano altro cammin, poich’io gli esclusi
Da quel che per la bocca, da chi viene
30Dal petto, par che per più trito s’usi.
  Di passar quindi omai tolta ogni spene,
Se ne vengon per gli occhi e per la fronte,
33Dove raro non mai guardia si tiene.
  Guardar si suole strada guado ponte,
Luogo facil a intrar; non dove sia
36Fiume profondo inaccessibil monte.
  Poi che vietar non posso lor tal via,
Che non faccian peggior effetto almeno,
39Porrò ogni sforzo ed ogni industria mia.
  Sáppial chi ’l vuol saper, ch’io son sì pieno,
Sì colmo di letizia e di contento,
42Che non lo cape a una gran parte il seno;
  Ma la cagion del gran piacer ch’io sento,
Non vuol che suoni voce snodi lingua:
45E faccia Dio (se mai di ciò mi pento)
  Che l’una svelta sia, l’altra si estingua.




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