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In ignudi abitar antri ne giovi,
Pur che di tue pupille il vivo raggio,
O sol di verginelle, ivi ne scaldi.
Crudo Imene, ai Romani Imenéo infesto.

Ferraresi.


Tutto cangia quaggiù: povera un giorno
Ferrara cinser brevi mura, e quinci
Erbose rive, e quindi limacciosa
Palude, umil dovizia in tenue stato.
Case e templi avea angusti, e sol bastanti
A poca gente, e a picciolo Senato.
Fra le città vicine ora si estolle
Quanto Apennin sui pampinosi colli,
O l’Eridàn su quei che metton foce
E nel mar che soggiace e nel soprano.
Là dove dentro dall’algoso gorgo
Spingeasi palischermo, o dove reti
Si asciugavan distese in campo aprico,
Son regii templi, e case e piazze e croci
Di strade, e curia e torri e mura e porte,
Opra di Alcide; a tal che la cittade
A popolo possente appena basta,
Che per santi costumi e pari studî
Contender può colla romana gente.
Pur non vanta alcun suo pregio Ferrara
Quanto che te riceve a sua signora,
O chiarissimo sol di verginelle.
Dolce Imen, caro Imene, Imenéo, vieni.

Romani.


Qual nocchier che nel vasto Ionio rotta
Degli austri al furïar sua nave, carca
D’assira e tiria merce, a scogli acuti
Lasciala affissa e, disperato e ignudo,
Naufrago è spinto alfine a ignote arene;
Mentre di pianti e di querele assorda
Il vôto lido, luccicar sul limo
Vede fulgida gemma che alla riva
Gittò l’atra tempesta, e si consola
De’ perduti tesori aver ristoro;
Ed ecco, in quella che ne ammira incauto

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