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canto secondo. | 43 |
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Dove i stinchi e le cosce hanno giuntura;
Sì che lo fe prigion, volse o non volse,
Quantunque il cavalier senza paura
Non si rendette mai, fra la tempesta
Di mille colpi, fin ch’ebbe elmo in testa.
64 Perduto l’elmo, non fe più contrasto,
Ma disse: — Io mi vi rendo; — e lasciò il brando,
Molto più del destrier che vedea guasto,
Che del maggior suo danno sospirando.
La presa di quest’uomo venne il basto,
Com’io vi dirò appresso, rassettando,
Sul qual fûr poi le gravi some poste,
Che a Desiderio sì rupper le coste.
65 Lasciato a Villafranca avea la fida,
Casta, bella, gentil, diletta moglie,
Quando di quella schiera si fe guida,
Seguendo più l’altrui che le sue voglie:
Or restando prigion, n’andâr le grida
Là dove più poteano arrecar doglie;
Alla moglie n’andâr casta e fedele,
Che mandò al cielo i pianti e le querele.
66 Sparso la Fama avea, com’è sua usanza
Di sempre aggrandir cosa che rapporte,
Che Otton preso e ferito era, non sanza
Grandissimo periglio della morte.
Perciò il figliuol del re, ch’avea la stanza
Vicino a lei con parte di sua corte,
Andò per visitarla e trar di pianto,
Se valesse il conforto però tanto.
67 Penticon (chè quel nome avea il figliuolo
Del re de’ Longobardi) poi che venne
A veder la beltà che prima, solo
Conoscendo per fama, minor tenne;
Come augel ch’entra nelle panie a volo,
Nè può dal visco poi ritrar le penne,
Si ritrovò nel cieco laccio preso,
Che nel viso di lei stava ognor teso.
68 E dove era venuto a dar conforto,
Non si partì che più bisogno n’ebbe.
Dal cammin dritto immantinente al torto
Voltò il disio, che smisurato crebbe:
Or, non che preso, ma che fosse morto
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