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atto quarto. — sc. ii. | 179 |
Crisobolo. Non andar, no; non credo indugino
Più troppo. Dimmi: steste ad avvedervene
Molto, dipoi che fu rubata?
Volpino. Uditemi,
Chè vel dirò, se pur volete intenderlo.
Desinato avevamo, ed era Erofilo
Tornato a casa; il quale alcuni gioveni
Questa mattina convitato avevano.
Il Nebbia venne a ritrovarlo, e dissegli:
— Io voglio ir fuor di casa in un servizio:
Ecco, questa è la chiave delle camere
Di tuo padre, perchè intanto accadendoti
Vi possi entrar; — e gli la diè, senza esserli
Domandata.
Crisobolo. Questo assai buon prencipio
Fu d’ubbidirmi.
Volpino. Erofil, che malizia
Non vi pensava, la pigliò; andò il Nebbia
Fuor.
Crisobolo. E perchè? Non gli avevo espressissima-
mente interdetto di mai non si muovere
Di casa e della guardia delle camere?
Volpino.Tu intendi. Stiamo così un pezzo in varii
Ragionamenti: entriamo d’un proposito
In un altro, siccome accade; all’ultimo
Venimmo a ragionar di caccia. Erofilo
Si ricorda d’un corno, ch’era solito
D’aver, e già molti giorni passavano
Che non l’avea veduto nè sentitone
Nôva: volse veder se nelle camere
Tue fosse: piglia la chiave lasciatagli
Dal Nebbia, ed apre l’uscio: entra; io lo seguito.
Tuo figliuol guarda, ed è primo ad accorgersi
Che non v’è cassa; si volta, e domandami
S’io so che riavuta color l’abbiano
Che appresso a te l’avean messa in deposito.
Io guardo, e resto morto, non che attonito,
Quando la cassa non ci veggo: dicoli
Che nella tua partita ricordavomi
D’avercila veduta, ove era solita
Di stare, in capo il letto. A un tratto avveggomi
Della sciocca malizia del tuo Nebbia,