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Dodici anni dopo la morte di messer Lodovico venne a luce questa prosa, molto elaborata e certo elegante, per opera di un Jacopo Modanese, il quale con ciò non mirava per avventura fuorchè a gratificarsi la gentildonna veneziana a cui dedicavane la stampa. Ignorasi se dall’autore o da quel primo editore abbia da riconoscersi il titolo, capriccioso ed ambiguo, di Erbolato; ma più al secondo che al primo deve probabilmente attribuirsi la dichiarazione aggiuntavi: «che parla della nobiltà dell’uomo, e dell’arte della medicina.» Da quel titolo, non bene appropriato, perchè significante una tórta od anche un empiastro; e da quella men retta qualificazione, procedè il falso concetto formatosi in alcuni, e l’erroneo ragguaglio datone dagli storici della letteratura: tanto che lo stesso Tiraboschi additavalo siccome «un dialogo in prosa italiana;» errore che videsi rinnovato ai dì nostri da Pompeo Litta. Ed a me pure è avvenuto di sentir chiedere da persone che il Furioso, le Satire, con gli altri versi, avevano familiarissimi: — Di che tratta l’Ariosto nell’Erbolato? — e da altri rispondersi: — Di una cena fatta con erbe; — Dell’arte medica; o pure: — Dell’umana nobiltà. — Onde può con ragione conchiudersi, che di tutte le opere divulgatissime del gran poeta, è questa senz’alcun dubbio la meno conosciuta.
Ma dove ancora più esatta notizia ne fosse corsa pel mondo, non pensiamo che di gran lunga maggiore sarebbe stato il numero di quelli che desiderato avessero di leggerla. Perchè il sapersi che l’Erbolato è invece (come giustamente riferisce il Gamba) una «Cicalata, in cui sono poste in bocca d’un ciarlatano le lodi della medicina,» e che da queste lodi il parlatore si fa strada alla vendita d’un suo specifico universale, e atto a conservare la vita dell’uomo senz’alcuna malattia sino alla più rara vecchiezza, non era certo cosa da conciliare a quello una troppo gran moltitudine di lettori. In quanto a noi, che, tratti alla curiosità fallace del titolo, ci eravamo da pezza rivolti tra mano questa operetta, considerando come l’autore non lasci abbastanza intendere se vi ragioni da celia o da senno, anzi parendoci ch’egli usi la sua penna piuttosto a compiacenza che a scherno del cantambanco da Faenza, credemmo pur sempre che