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tempo trapassava, avendo sempre compagnia d’amici nostri e di parenti. Avvenne che messer Gian Guglielmo Grasso, uomo costumatissimo e molto letterato e che de la lingua volgare si diletta, mi diede un giorno desinare in casa sua, presso la chiesa dei Servi, ove si trovarono altri di compagnia. Passato il desinare, s’entrò a dire de la guerra civile che ai tempi degli avoli nostri fu tra i dertonesi e loro, per cagione de l’acque del ruscello che fa il molino di Gualdonasce, e da questo ragionamento si travarcò a ragionar de la fondazione de la patria nostra, essendoci chi voleva che l’origine sua da’ goti venisse, ed altri affermano che da’ longobardi fosse stata fondata. Io alora dissi quanto me n’occorreva. Onde si conchiuse che gli ostrogoti insieme con una banda di soldati romani che nel principio del regno di Teodorico sotto di lui militarono prima che egli a Roma levasse l’armi, furono quelli che Castelnuovo fondarono. Dopo questo, cominciandosi ad investigare quali fossero le famiglie discese dai romani e quali quelle che vennero dagli ostrogoti, e dicendone chi una e chi un’altra, messer Bonifazio Grasso, fratello di messer Gian Guglielmo, interrompendo il parlare, narrò una novella accaduta nel principio de la edificazione de la detta nostra patria, la quale fa generalmente da tutti commendata per l’astuzia che usò una fanciulla in uccellar la sua nutrice a ciò che non si scoprisse il suo amore. Io, ritornato a casa, essa novella scrissi e posi appresso l’altre già da me scritte. E a questi dì, rivolgendo le reliquie dei miei libri e scritti che da la preda che fecero i soldati spagnuoli ne la mia libraria mi sono rimasi, mi venne tra l’altre cose a le mani questa novella, la quale, volendo io secondo che le truovo ridurre in un colpo insieme, m’è parso di donarvi questa sotto la tutela del vostro nome, portando ferma openione che, come disse messer Bonifazio, il giovine del qual si parla in essa novella fosse quello che diede origine a la nostra famiglia. Non è adunque da meravigliarsi se la maggior parte degli uomini del nostro legnaggio così sovente e così volentieri si lasciano ne l’amor de le donne irretire, poi che il capo del ceppo nostro fu sì amoroso e a le passioni d’amore soggetto. E nel vero questa amorosa passione è tanto piacevole, tanto dolce, tanto dilettevole e tanto per l’ordinario radicata negli animi degli uomini gentili, che non val forza, non sapere, non santità, nè qual altro ingegno sia al mondo per potersene guardare. Di più poi, se per sorte s’appiglia in rozzo core e di basso sangue, è tanto il valore e poter suo, che

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