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— Animo, via! — disse ad Anselmo Campora, a mala pena furono usciti di là. — I grattacapi sono finiti e adesso verrà il buono. Mi fermo stassera a Vado, e tu proseguirai fino a Genova, per consegnare la lettera.
Il Picchiasodo fece a queste parole una faccia scontenta, che nulla più.
— Messer Pietro riveritissimo, — soggiunse egli poscia, veduto, che l’altro non aveva badato a’ suoi versi, — non perderò mica il mio posto alla predica?
— E come potresti tu perderlo, se c’è tempo fino ai cinque del mese venturo? Siamo oggi ai ventisette di novembre, mi pare, ed io non leverò il campo dalla spiaggia di Vado che la mattina del due di dicembre. Tu dunque domani arrivi a Genova; consegni la lettera al Doge mio cugino; gli dai que’ ragguagli di veduta che egli ti chiederà certamente; aspetti le lettere e i comandi che vorrà darti per me, e doman l’altro, il trenta, alla più trista, puoi essere al campo di Vado.
— Eh, diffatti, se non mi fanno aspettare dell’altro, la cosa può esser così come voi dite, padron mio reverito! Dopo tutto, non son io il capo dei vostri bombardieri? Dee premere a loro di rimandarmi libero, come a me di capitar primo all’osteria dell’Altino.
— Ah sì, — disse Pietro Fregoso, ridendo, — questa è la tua meta; ma temo che la bisogna non sia per correre spedita come tu pensi. Castelfranco non si piglia in un giorno.
— Lo capisco ancor io; — rispose il Picchiasodo; — ma questa è una
ragione di più per capitarci in tempo colle bombarde. —