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Piaceva il consiglio a messer Pietro, chè anzi da parecchio tempo lo venia vagheggiando tra sè. Ma prezioso sopra tutto gli parve l’avviso dell’ignoto corrispondente.

Avrebbe voluto andar subito a vedere co’ suoi occhi il terreno. Ma anche il campo richiedeva la sua vigilanza; però gli convenne studiare il modo di spartire gli uffizi. E poichè Anselmo Campora era, come suol dirsi, il suo occhio destro, mandò lui a specolare lassù, se c’era verso di condurvi l’esercito.

Da questa savia risoluzione di messer Pietro ne avvenne che, mentre sotto le mura del Borgo si continuava a badaluccare, i contrafforti tutti dell’Appennino, sui confini settentrionali del marchesato, erano diligentemente osservati da quel furbo compare del Picchiasodo, la cui avvedutezza e le naturali inclinazioni corografiche sono oramai note ai lettori. E a mala pena fu di ritorno costui, messer Pietro ordinò la partenza.

Il colpo ebbe quell’esito che s’è detto più sopra e gli assediati non ne sospettarono punto. Mercè quel trapasso, il Finaro veniva ad esser più chiuso che dapprima non fosse. Il mare, si sa, apparteneva ai genovesi per ragion di possesso. Teneano per Genova, il Borghetto, a ponente, e Noli, la fortissima Noli, a levante. Restavano gli sbocchi dell’Appennino, e questi oramai, col suo stratagemma di ritirata, occupava l’esercito.

Tardi si avvide Galeotto dell’inganno, ma non volle altrimenti si dicesse avergli ciò fatto perdere il tempo, e fresco ancora di quelle sue domestiche allegrezze guidò il fiore de’ suoi a sloggiare il

nemico da Gorra.

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