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— È una pittima cordiale, il vostro marchese! Far combattere i suoi soldati a ventre digiuno!

— Gli è un buon massaio e tira allo sparagno; — rispose il Maso, che volea dire e non dire. — Sapete, messere Anselmo? Lo sparagno è il primo guadagno.

— Capisco, sì, capisco che siete agli sgoccioli.

— Oh questo poi! Messere Antonello, mio padrone, dice che il Borgo, senz’altri aiuti di vettovaglie, può tener fermo ancora sei mesi.

— Sì, sì, dagli retta! Noi ci abbiamo intorno a ciò ben altri ragguagli. Ma basti; tu hai fame e sete, tu; ed io, vedi, quantunque da noi si abbia avuto cura di asciolvere, la fame l’ho ancora sui denti e la sete l’ho sempre. Gli è un vizio che m’hanno lasciato i vaiuoli. —

Con queste celie amichevoli, Anselmo Campora si era mosso di là, per andare verso l’alloggiamento. Quella mattina la sua orchestra aveva fatto buona prova e messer Pietro Fregoso doveva esser contento di lui; frattanto il buon Picchiasodo se ne rallegrava da sè. La qual cosa era naturalissima, ed io la raccomando, sull’esempio di lui, a tutti i lettori; imperocchè l’esser contenti di noi medesimi è già un buon punto per aspettare che gli altri lo siano del pari, o per passarcene bravamente, se gli altri ci stanno sul tirato, come il più delle volte interviene.

Aggiungete che l’allegria fa buon sangue e ci aiuta a veder tutto bene, quello che è stato fatto dalla provvidenza, o dal caso. Però argomentate come al Picchiasodo godesse l’animo di aver tra’ piedi il Maso e di fargli servizio. La vista di quel poveraccio gli ricordava

l’Altino, il teatro di una tra le sue più alle-

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