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I soldati del Campora e di Giovanni di Trezzo ebbero allora uno spettacolo di corsa, che nel Circo massimo, ai giuochi gladiatorii, non ebbe l’uguale il più famoso popolo della terra, Il Sangonetto, veduto andargli a male la sua ultima speranza, s’era dato a fuggire, e volava via come il vento. Come fu al ciglione del poggio, piegò improvvisamente a dritta, e giù a fiaccacollo, guadagnando una cinquantina di passi sul Maso che lo seguiva furente.

I soldati corsero sui greppi per averne l’intiero.

— Lo perde! — No, non lo perde! — Vedrete; là dietro alla macchia dei roveri lo raggiunge di certo. — Che! vedetelo là, il furfante; va via come una lepre. — Sì, ma l’altro è buon cane da giungere, e non gli dà troppo campo. — Ah, diamine, eccoli là nel torrente! — Incespica! — Chi? — Il giovinotto, perdiana! Ma ecco, si rialza; non s’è fatto nulla. — E quell’altro, vedete un po’! Già, la fortuna aiuta i bricconi. Piglia la via della Caprazoppa. — E qual’altra volete che pigli? Se va al Borgo, è un uomo spacciato. Se volta a tramontana, intoppa nel battifolle di Gorra. — O come? Non si vede già più? — Lo nascondono quei massi sporgenti. Guardatelo ora, là tra quei due cespugli, che s’inerpica. — Ha da essere stanco la parte sua. Ma l’altro, dov’è? — Guardate è là sotto, a cento passi più giù. — Lo perde! — No, non lo perde. Vedete? lo fiuta da lunge, e si rimette sull’orma. —

Questi i ragionari dei soldati, lungo la costiera occidentale di castel Gavone. Intanto, era vero che il Sangonetto aveva fatto ogni poter suo, e che il petto non gli reggeva più oltre a sostener quella

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