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[St. 23-26] | libro i. canto xxviii | 485 |
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23 Ma come quel che avea forza soprana,
Ben prestamente uscì di quello affanno,
E, riguardando la sua Durindana,
Dicea: "Questo è il mio brando, o ch’io m’inganno;
Questo è pur quel ch’io ebbi alla fontana,
Che ha fatto a’ Saracin già tanto danno.
Io me destino veder per espresso
S’io son mutato o pur se ’l brando è desso."
24 Così diceva: ed intorno guardando,
Vidde un petron di marmore in quel loco;
Quasi per mezo lo partì col brando
Persino al fondo, e mancòvi ben poco.
Poi se volta a Ranaldo fulminando;
Torceva gli occhi, che parean di foco,
D’ira soffiando sì come un serpente;
Mena a due mani e batte dente a dente.
25 O Dio del celo, o Vergine regina,
Diffendete Ranaldo a questo tratto,
Chè ’l colpo è fiero e di tanta ruina,
Che un monte de diamanti avria disfatto.
Taglia ogni cosa Durindana fina,
Nè seco ha l’armatura tregua o patto;
Ma Dio, che campar volse il fio d’Amone,
Fece che ’l brando colse di piatone.
26 Se gionto avesse la spada di taglio,
Tutto il fendeva insino in su l’arcione;
Sbergo ni maglia non giovava uno aglio,
Ed era occiso al tutto quel barone.
Ma fu di morte ancora a gran sbaraglio,
Chè il colpo gli donò tal stordigione,
Che da l’orecchie uscia il sangue e di bocca;
Con tanta furia sopra l’elmo il tocca.
fi. V. e bit. r ì if II ar dando. — 19. T. e MI. e fero e.