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DIALOGO QUINTO





INTERLOCUTORI:

Smitho. Teofilo, filosofo. Prudenzio, pedante.

Frulla.


Teo. Perchè non son più, nè altramenti fisse le altre stelle al cielo, che questa stella, ch’è la terra, è fissa nel medesmo firmamento, ch’è l’aria; e non è più degno d’esser chiamato ottava spera, dov’è la coda de l’orsa, che dov’è la terra, ne la quale siamo noi; perchè in una medesma eterea regione, come in un medesmo gran spazio e campo, son questi corpi distinti, e con certi convenienti intervalli allontanati gli uni da gli altri. Considerate la cagione, per la quale son stati giudicati sette cieli de gli erranti, ed uno solo di tutti gli altri. Il vario moto, che si vedeva in sette, ed uno regolato in tutte l’altre stelle, che serbano perpetuamente la medesma equidistanza e regola, fa parer a tutte quelle convenir un moto, una fissione ed un orbe, e non esser più, che otto spere sensibili per li luminari, che sono com’inchiodati in quelle. Or, se noi venemo a tanto lume a

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