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DA RECANATI A FIRENZE. 293
quanto il modo fosse cortese, il fatto era duro : non il letterato né l'amico, ma l'amante era stato messo alla porta. Io giurerei che la contessa non pronunziò allatto il verbo annoiare. Essa avrà pregato il Leopardi di diradare lo sue visite; egli finse di capire che la sua conversazione annoiava la signora, e si allontanò per sempre: non solo; ma quando credè di doverle fare una visita di pura convenienza, le domandò prima il permesso, — Si poteva essere più cerimonioso V — Non sappiamo che cosa la contessa rispondesse alla lettera del poeta; ma sappiamo che, se quella volta egli andò a trovarla, fu l'ultima; sappiamo che l'anno dipoi, scrivendo da Pisa all'amico Papadopoli nominandogli il poema allora pubblicato dalla si- gnora, non ebbe per lei che queste due parole di com- miserazione — povera donna — ; sappiamo che ri- passando da Bologna nella primavera del 1830, e trattenendovisi alcuni giorni, mostrò essersi dimen- ticato che vi dimorava la famiglia Malvezzi ; sappiamo finalmente che la contessa si dolse di ciò con una let- tera a lui, piena di ammirazione e di ossequio, la quale rimase senza risposta. Era così rotta anche quella nuova illusione che aveva confortato per alcuni mesi la vita dell' infelice poeta. Non è credibile che nei primi momenti non gli restasse nell'animo un po' d' amarezza, la quale più tardi (come in lui soleva) si accrebbe ; ma egli ora- mai era così fortemente temprato contro ogni sorta di mali, che non si lasciava abbattere da nessuno. Il sentimento che aveva altissimo della sua dignità gli faceva opporre un superbo disdegno ai colpi della fortuna e del mondo. Nelle sue lettere di questo tempo non troviamo nessun segno di dolore e di abbattimento. Il 18 maggio scriveva alla sorella Pao- lina : < La stagione anche qui è ottima, e io mi di- verto veramente un poco più del solito, perchè, grazie a Dio, mi sento bene, e perchè quest'essere