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346 CAPITOLO XVII.
La sapiente collocazione delle rime, che fermano l'attenzione del lettore nei luoghi dove il pensiero e l'immagine vogliono essere più in vista, lo svolgimento naturale del periodo poetico che segue e seconda senza nessuno sforzo il pensiero, la semplicità del linguag- gio, fanno di questo Canto la lirica più alta e per- fetta di quante fino allora ne aveva scritte il poeta. Pietro Giordani, che qualche diecina di anni fa era ancora di moda chiamare un retore e un parohiio, letto appena il Canto, scriveva al Leopardi : < Coni' ò stupendo quel pastore errante nell'Asia! Sei proprio arrivato all' estremo della grandezza e della, schiet- tezza nello stile. > Non si poteva dir meglio. Il pa- store parla più schiettamente, e però più lucidamente ed efficacemente, di Bruto e di Saffo; e in quella schiettezza sta la superioritil della poesia. E famoso il monologo di Amleto: < Essere, non essere — ....morire, dormire — dormire! forse so- gnare! — > In esso tutto si riduce al mistero dell' ol- tre tomba. — Chi vorrebbe soppertare i mali della vita, dice in sostanza Amleto, se il timore di ciò che avverrà di noi dopo la morte non turbasse la nostra volontà? — Nel Canto del Leopardi il pensiero del pastore spazia per la immensità del creato; egli vor- rebbe sapere non soltanto ciò che avverrà di lui dopo morte, ma il perchè di tutto ciò che esiste nell' uni- verso; e smarrito nella ricerca di questo i)erch(>, e non vedendo nella vita altro che dolore, arriva a questa conclusione, che forse il fine ultimo di tutto lo cose che esistono ò il male. »
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Il 20 ottobre 1820 il Leopardi scrisse una breve lettera al Giordani, con la quale dava a lui e agli altri amici di Firenze le sue nuove, e lo pregava di fare le sue scuse al Vieusseux se non gli rispondeva,