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INFERNO. — Canto VII. | 171 |
[[Categoria:Pagine che usano RigaIntestazione|Commedia - Inferno (Lana).djvu{{padleft:175|3|0]]servitus, quia homo avarus exhibet creaturæ, quod debet creatori, scilicet fidem spem et dilectionem. Or perchè in questo vizio abunda molto l’umana natura, acciò che li uomini se ne sottraggano e devìeno, ha voluto l’autore fare menzione di lor pena, è maestrevolmente per bene esemplificare loro atto ed a palesare con effetto, sì li pone nel quarto cerchio di quello pericoloso luogo, overo foro, che ha nomato, ed imagina che mezza la circulazione sia abitata e scorsa per li prodighi, l’altra metade sia agregata per li avari, E imagina sicome lo prodigo che dispensa e dà oltramisura la sua substanzia e divizia sta sempre in movimento e senza quiete, così quelle anime che sono lie sempre corrono, e in movimento velocissimo adoprano suo tempo, e non vanno se non in una delle due parti del circolo per opposito. Sicome l’animo dello avaro mai non è in riposo ma sempre pieno e superabundante di voglia insaziabile: così quelle anime che sono lìe mai non riposano, ma sempre corrono in l’altro semicirculo. E pone Dante che la divina giustizia vuole che in li due termini ove si parteno li tristi cori si delli avari, come de’ prodighi, elli si pettoreggino e diansi di grandi scontri dicendo l’uno all’altro per conservarsi maggior pena, l’avaro al prodigo: perchè burli? cioè perchè getti tu via? e ’l prodigo all’avaro: perchè tieni? cioè tu perchè ritieni quello che dovresti spendere? E soggiunge l’autore, come appare nel testo, che in questi avari ha molti prelati chierici, per la qual cosa è da notare che alla virtù divina dispiace cherico tesaurizzante sicome dice santo Agostino: maleedictus dispensator avarus cui dominus est largns, che s’elli ne tolleno ad altri nè tesoro a farli dispensatori di grazia: Dio non li folle pregio vendendo le spirituali per le temporali secondo la detta sentenzia sono maledetti.
Poi ch’ha ditto di questi due vizii, tocca alcuna cosa della fortuna, cioè della ventura. E dice che la fortuna è una intelligenza la quale hae a dispensare li beni mondani, cioè le cose commutative. E dà per esemplo che sicome Dio ha posto a ciascuno cielo una intelligenza, la quale regge, distribuisce e guida la sua influenza in queste cose naturali di sotto egualmente, cioè sempre secondo sua regola uniforme, ma variasi per lo obietto, vel materia ch’hae a ricevere; sicome lo cielo della Luna ch’hae a reggere l’acque e li umidi, quel di Saturno, secondo astrologia, le sette e li reami, quel di Marte le battaglie etc. come si mostra per Albumazar: De conjunctionibus: cosi vuol dire Dante che sia posta una simile intelligenza, la quale hae a muovere le ricchezze del mondo. E mette che molto ènno più obedienti questi beni commutativi a quella intelligenzia che non sono le materie inferiori a’ celesti movimenti, quando dice: vostro saper non ha contrasto a lei, quasi a dire che umano arbitrio non può contra lei: ciò si può contra li cieli per Tolommeo astrologo in lo Centiloquio: anima sapientis adiucat opus stellarum etc. Or di questa fortuna è stato grandi e diverse oppinioni tra li savi. Che alcuni e quasi tutti vogliono dire ch’ell’è nulla da sé, ma è, sicome dice Aristotile in lo secondo della Fisica, uno conseguente senza proposito; la quale consequenzia è cagionata da’cieli e nature inferiori sichè di sè non è nulla; e