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20 | COMMEMORAZIONE |
[[Categoria:Pagine che usano RigaIntestazione|Commemorazione di Paolo Ferrari.djvu{{padleft:22|3|0]]giorno non mi ricordo più in quale pagina di un poeta magiaro che finiva dolorosamente i suoi giorni: «Guai al poeta, che sogna afferrare per le corna gli spiriti, dare la scalata agli eterni ideali, strappare alla Musa gli eterni segreti, mentre le pallide cure della prosa della vita gli fanno cerchio alle tempia e gli stringono la fronte in una morsa di ferro.»
Vi è qualche cosa, a me pare, del supplizio di Ruy Blas, che sogna la gloria e li eccelsi destini mentre il ghigno di Sallustio lo richiama alla realtà.
E venne, pur troppo venne per Paolo Ferrari il giorno che l’antico lavoratore apparve o si credette vinto. Un dubbio, come un’ombra, era sorto tra il pubblico e lui: dal suo labbro era scomparso il sorriso. Un mutamento innegabile si era prodotto nel gusto del pubblico: ed egli parea dire fra sé, scrollando tristamente il capo, che il pubblico aveva insieme ragione e torto: che l’arte sua — di lui — era sempre la vera, ma che a lui non restava più tempo di trovarne la formola nuova.
Diremo dunque anche noi, come altri, che allo autore drammatico, giunto ad una certa età, più non resti se non morire come Molière o ritrarsi dall’arringo come Shakespeare e come Racine? Errò forse sul labbro di Paolo Ferrari, negli ultimi suoi anni dell’arte e della vita, il lamento di Shakespeare fatto vecchio: «Tu vedi in me la stagione dell’anno in cui le foglie ingiallite pendono dai rami tremolanti