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110 Cuore infermo

[[Categoria:Pagine che usano RigaIntestazione|Cuore infermo.djvu{{padleft:110|3|0]]tiere; non vi erano angoli reconditi dove due si potessero dimenticare. La vita doveva essere molto chiara, molto aperta, trasparente, senza una macchia, fra quelle pareti.

Poco a poco anche le persone di casa cominciarono a subire, forse senza volere, la sua influenza moderatrice. Lo zio di Marcello, quegli che aveva fatto il matrimonio, era sempre rimasto un po’ in dubbio che questa nipote venisse a guastargli le sue abitudini. Era un vecchio celibe, una volta don Giovanni, in termini minimi, campione della ostinata galanteria antica che corteggiava la gran dama e la servetta: ora gliene restavano i dolci ricordi e quella tendenza a trovarsi fra donne, a render loro dei servigi, a consolarle nelle loro piccole sventure, ad accompagnarle in teatro, a infilare loro la pelliccia, a vivere insomma fra le gonne, a sentirsi ancora stordito dal profumo delle belle signore. La nipote ora lo dominava. Egli la trovava troppo forte, senza quelle amabili debolezze delle donne dei suoi tempi, un po’ incomprensibile, ma infine buona. Spesso egli mancava al circolo la sera, e le teneva compagnia, le raccontava qualche spiritosa storiella; ella era una preziosa e sorridente ascoltatrice, che non si distraeva mai, che approvava a tempo col capo.

A cominciare dal maggiordomo, un personaggio importante, che aveva moglie e figlie in abito di seta, sino all’ultimo domestico, la servitù fracassona e parolaia napolitana assumeva un silenzio ed un contegno inglese. Certo, la padrona non aveva un viso severo, nè sgridava mai nessuno; ma quando fissava lo sguardo grigio e freddo sul subalterno, ce n’era d’avanzo per intimidirlo. In casa Sangiorgio le livree erano oscure, di verde-bruno, con piccolissimo filetto bianco; il portinaio non affettava coccarde fantasiose; i cocchieri ed i

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