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28 | Cuore infermo |
[[Categoria:Pagine che usano RigaIntestazione|Cuore infermo.djvu{{padleft:28|3|0]]Ella si voltò, ritornò. Sorrideva finemente. Il padre la guardò con freddezza, quasi le volesse chieder conto di quel sorriso.
— Marcello Sangiorgio ha inviato il suo dono di nozze, dei brillanti. Sono nella mia camera. Pensa di mandarli a prendere, per farli aggiungere qui, in salone, agli altri gioielli esposti.
— Ora manderò Marietta. A rivederci, padre mio.
Ed ella se ne andò con lo stesso passo leggiero e cadenzato, con la medesima disinvoltura con cui egli fece una giravolta e rientrò nel suo appartamento per terminare una rivista di conti con l’intendente.
D’un tratto le porte si spalancarono. Gl’invitati tornavano dalla funzione religiosa, entravano nel salone per assistere al matrimonio civile; poco a poco lì dentro si riuniva tutta l’aristocrazia napolitana, la bianca e la nera, questa diminuita molto di numero, ma ancora fiera ed ostinata nella sua vecchia fedeltà alla vecchia dinastia; quella numerosa, giovane, sempre crescente, baldanzosa: tutta l’aristocrazia napolitana, i vecchi ed illustri nomi che rimontano ai Sedili e quelli che hanno solo trecento, duecento anni di nobiltà. Era lì la principessa di Massenzio, il tipo fisico e morale della nobile napolitana, alta, snella, dal profilo purissimo, dai capelli neri e ondulati, dall’aria giovanile, malgrado i quarantacinque anni, chiacchierina, bonaria, innamorata del suo primo, poi del suo secondo marito, innamorata dei suoi figliuoli, naturalmente virtuosa – era lì la vecchia duchessa di San Demetrio, una rovina di sessant’anni, dipinta di bianco, di rosso, di nero, con le rughe che apparivano, malgrado ogni sforzo, con gli occhi ancora ardenti di vanità e di piacere in quel volto