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Parte sesta | 309 |
[[Categoria:Pagine che usano RigaIntestazione|Cuore infermo.djvu{{padleft:309|3|0]]umana, compassionevole, ridiventava buona, lasciava fare, non si curava più di nulla. Donava alla Giovannina, con una generosità affettuosa. Qualche volta le parlava con una certa confidenza:
— Da quanti anni siete con me, Giovannina? — le domandò un giorno.
— Cinque, eccellenza.
— Se morissi, non mi lascierete toccare da nessuno. Mi vestirete voi.
— Eccellenza, che dite voi? Dovete campare cento anni in buona salute.
— Grazie, Giovannina; ma ricordatevene.
Però in casa si diceva che ella aveva stregato il duca, il quale la seguiva come un bambino. Una o due volte, nelle sue crisi, aveva chiamata la Giovannina, ma solo per avere accanto una persona, senza sperarne alcun aiuto. Lo spavento della cameriera aumentava il suo male. Le diceva subito di sentirsi meglio e la ringraziava. Dopo si umiliava fino ad invocarne la complicità.
— È inutile impaurire il duca quando viene. Non gli dite che sono stata indisposta.
In qualche ora, quando rimaneva sola, Beatrice chiudeva gli occhi e pensava. Era una sosta, una pausa. Spingeva lo sguardo nell’avvenire e ne veniva quasi respinta come da una grande muraglia bruna: l’avvenire era vicino, era triste, era terribile, era la morte. Ella lo sentiva. Aveva finito per interrogare un medico, giovane e compiacente, che l’aveva visitata a lungo, interrogata minutamente. Dopo egli aveva fatta una lunga ricetta — la malattia non era grave, no, ma poteva diventarlo — la quiete anzitutto — nessuna fatica — nessuna emozione — la maggiore tranquillità fisica o morale — il cambiamento d’aria — si poteva impedire facilmente un maggiore sviluppo — ad ogni modo con-