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Parte sesta | 323 |
[[Categoria:Pagine che usano RigaIntestazione|Cuore infermo.djvu{{padleft:323|3|0]]— No, no, va piano, tu mi stanchi — esclamò Beatrice, turandosi le orecchie.
Ed egli fece gemere il pianoforte in una réverie di Schumann. Si arrestò: Beatrice piangeva.
— Perchè piangi?
— La musica mi commuove. Non suonare più.
Prima di scendere giù, ella si fermò un momento sul terrazzo a guardare la villa Torraca. Di nuovo Marcello volle chiederle perdono, gettandosi a’ piedi di lei. Gli apparve così abbattuta, così debole che represse per la terza volta il suo impeto.
Ma la giocondità della primavera, l’aria leggera e fragrante, la pace della villa Sangiorgio non fecero migliorare Beatrice. Ella perdeva sempre più le forze. Per pochi passi era stracca, ritornava al suo seggiolone, vi ricadeva con una espressione dolorosa di abbandono. Si addormentava spesso; in quel lieve sonno tutta la sua figura prendeva una immobilità dura ed uniforme, la bocca appena schiusa, le palpebre socchiuse, la testa inclinata sul lato destro. Quel sonno faceva pena. Svegliata, conservava quella immobilità di tratti, quasi si fossero fermati nei loro moti, con gli occhi fissi e vitrei. Il volto s’era fatto d’un pallore giallo, opaco. Ella però, invece di dimagrire, ingrassava. La finezza dei lineamenti si perdeva in un gonfiore di malaugurio. Giovannina aveva dovuto allargare le vesti da camera. Ella non poteva più soffrire il busto, l’affanno del respiro era troppo forte. Non si cibava quasi più, solo sorbiva con avidità grandi tazze di latte fresco. Pure non si lagnava di nulla, il che rincorava Marcello. Egli non vedeva alcun fenomeno molto allarmante. Attribuiva a debolezza, a languore, ad anemia quel regresso lento della vita. Qualche volta era preso da un senso di spavento; poi sorrideva di sè stesso. Talora, quando la