Questa pagina è stata trascritta, formattata e riletta. |
Parte sesta | 339 |
[[Categoria:Pagine che usano RigaIntestazione|Cuore infermo.djvu{{padleft:339|3|0]]nuto, quasi asfissiato dal profumo dei fiori. Rinvenne in camera sua. Appena riconobbe il luogo dove si trovava, si alzò, passò rapidamente nella camera contigua, prima che avessero potuto trattenerlo. Per terra, sul tappeto, era un nastrino rosso. Lo raccolse, balbettando con la voce strozzata e svenne di nuovo.
Mattina e sera il duca Mario Revertera veniva a chiedere notizie di suo genero. Entrava nella camera di Beatrice, dove Marcello aveva voluto rimanere e si tratteneva colà un’ora. Marcello non era ammalato, non aveva febbre, non aveva nulla; aveva solo la stupefazione, lo stordimento di un dolore improvviso e grandissimo, che non può sfogare ed evadersi in nessun modo. Era calmo, sempre distratto, con una lentezza di movimenti, con una dolcezza di sorrisi istintivi, con certe intonazioni basse di voce che facevano pena. Si vestiva, andava, veniva, si arrestava dietro i vetri dei balconi, ascoltava le persone che gli parlavano, senza che un fremito di vita apparisse nel suo volto. Era spenta la luce dell’occhio nero. La monotonia del dolore sempre interno, sempre taciturno, sempre profondato nell’anima, si spandeva come un velo sul suo viso. Viveva nella camera sua ed in quella di Beatrice; la notte lasciava la porta aperta, le due camere illuminate, ed andava su e giù per ore intere. I viandanti di Monte di Dio vedevano passare, disegnandosi dietro i vetri, quella grande ombra desolata, che nella notte assumeva proporzioni colossali. Nessuno attorno osava parlargli di lei; il palazzo era caduto in un silenzio di chiesa; vi si parlava a voce sommessa, vi si camminava in punta di piedi; un vago odore d’incenso era nell’aria; un’umidità calda, come di acqua benedetta, penetrava le persone che vi abitavano. Neppure il conte